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Festival dell'architettura

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Enrico Prandi

L'indifferenza delle periferie

Nuove centralità e senso del luogo

L'indifferenza della periferia contemporanea e i territori liminari - ZOOM

L'indifferenza della periferia contemporanea e i territori liminari

Abstract

Si torna a parlare di Periferie. Non solo e non tanto perché la scomposizione del centro urbano in una moltitudine di centri esterni (sostitutivi più che alternativi), ha determinato la crisi dell’urbanità storica – che ha costruito la città nella sua articolazione di spazi funzionalmente e figurativamente diversi. Quanto perché le zone periferiche, investite della creazione di nuove urbanità, si devono caricare anche della responsabilità di dar forma e senso alla città mediante la definizione del suo limite esterno. Gli interventi nelle periferie dovranno essere il punto di inizio per un ritorno alla città: rigenerata, sostenibile, funzionale, spazialmente densa e compatta.


Il tempo storico e le condizioni economiche attuali impongono una profonda riflessione disciplinare a tutti coloro i quali, operando in relazione ai bisogni concreti della città e non per forme sterili, astratte e autoreferenziali, intendono la ricerca progettuale come strettamente correlata alle condizioni contestuali.

Mai come nella nostra epoca è stato necessario un ripensamento dell’approccio al progetto della città al fine di razionalizzarne l’uso e ottimizzare gli interventi. Interventi che a loro volta appaiono sempre più circoscritti e all’insegna dell’economia, più attenti alle dinamiche di cambiamento della città (culturali, sociali, economiche, ecc) e soprattutto più efficaci anche dal punto di vista della disponibilità nel tempo.

Al progetto di architettura (e all’architetto) non è mai stato chiesto tanto nella capacità di riverberare gli effetti a lunga distanza, in termini di rapporto tra intervento (necessariamente localizzato e di qualità) e capacità di indurre positivi effetti urbani nell’uso di un determinato spazio (aspetto quest’ultimo che decreta il vero successo di un intervento progettuale). Per l’architettura è una nuova rivoluzione all’insegna del less is more miesiano letto in termini non di figurazione ma di efficienza (o efficacia) del prodotto architettonico.

In passato un approccio progettuale troppo circoscritto all’oggetto architettonico ha messo chi, come noi operava da architetti con un disegno generale di città, di fronte ad una trasmutazione urbana la cui conseguenza era l’impossibilità di vedere la città conformata su se stessa e sulle proprie caratteristiche contestuali. Nell’espandersi la città sfuggiva al controllo della sua struttura morfologica, della definizione formale delle sue parti architettoniche (piccole o grandi) dando vita al disordine della città contemporanea.

Ri-partire

In questa condizione è quanto mai necessario un approccio generale alla città; un “disegno” in grado di ridare “figura ed espressione di forma alla città stessa” (Quaroni 1967). Nella complessità attuale è necessario operare per “scomposizione di fattori” di fronte alla moltitudine di elementi che incidono sull’uso della città contemporanea e dei suoi spazi (dai processi culturali, a quelli migratori, dai fenomeni gentrificatori alle mutazioni economiche).

Dagli anni ‘50 del Novecento ad oggi, se da un lato le città sono cresciute più del necessario, – la dimensione delle città europee si è ampliata del 78% a fronte di un aumento della popolazione del 33% (EEA, 2006) – dall’altro lo hanno fatto in maniera sbagliata. Si sono espanse per lo più orizzontalmente con insediamenti a bassa densità alimentando il fenomeno della dispersione insediativa (sprawl) che opera contro ogni principio di razionalizzazione e contro gli stessi principi fondativi dell’urbs, favorendo il deturpamento e la frammentazione del bene paesaggio (EEA, 2011).

Accanto all’impellente esigenza di limitare il più possibile l’espansione delle città verso l’esterno, a tutela e salvaguardia dei territori naturali/fertili e dei paesaggi intesi come bene culturale (CEP, 2000), vi è quella di ridefinire il suo bordo esterno, limite o limine, affinché sia esso stesso riconoscibile come parte di città risolta, come “figura ed espressione di forma”.

Molta della letteratura architettonica degli ultimi anni si è infatti dedicata allo studio degli spazi di compenetrazione tra città e campagna, tra urbanizzazione rarefatta e coltivazioni agricole, di spazi di frangia, di risulta e di abbandono, definiti di volta in volta con termini diversi (In-between, Terzo paesaggio, territori abbandonati) ma sostanzialmente riconducibili ad una medesima categoria tassonomica: quella degli spazi non direttamente individuati ma determinabili per sottrazione rispetto alle altre tipologie. Spazi viziati da accidenti formali, da gangli infrastrutturali, spazi eccentrici e decentrati di difficile raggiungibilità, spazi in attesa di una definizione identitaria di appartenenza dei quali, almeno fino alla fine del secolo scorso, gli studiosi di architettura, non se ne sono occupati.

L’approccio contemporaneo alla progettazione della città deve adottare nuove strategie di espansione riferita alle aree interne, densificando i tessuti esistenti, intervenendo il più possibile negli spazi riqualificabili disponibili (vuoti urbani o aree irrisolte, aree dismesse, spazi delle infrastrutture), mediante progetti “sostenibili” alle diverse scale (da quella della città a quella dell’edificio).

Se ciò può essere limitatamente affrontato nel caso dei centri urbani compatti e delle periferie storiche, in cui perlopiù si opera mediante interventi di microchirurgia architettonica di sostituzione o di riuso dei contenitori resi disponibili dalle dismissioni progressive, è nella periferia che il progetto assume una valenza strategica di rigenerazione dell’intera città.

Ri-partire dalle periferie

Ri-partire dalle periferie potrebbe essere il motto dei futuri interventi progettuali i quali vanno inseriti in un sistema periferico in cui sono mutate molte delle condizioni al contorno, ed in primis lo stesso rapporto con la città.

Contrariamente a certe posizioni teoriche che vorrebbero il termine periferia non più applicabile ai sistemi insediativi contemporanei (Ciorra, 2010), assumiamo la periferia per il valore storico culturale che ha avuto nello sviluppo della città moderna e per il ruolo decisivo che potrebbe avere in quello della città contemporanea.

è indubbio che oggi la periferia non è più la stessa di inizio Novecento; quella dei quadri di Sironi e dei racconti di Testori, che ha subito nel frattempo un processo storico di sedimentazione nel tessuto caratterizzandolo; ma nemmeno quella del dopoguerra che ha contraddistinto nella forma di Quartiere l’espansione della città sotto la spinta della ricostruzione, prima, e del miracolo economico, poi, ampiamente documentata dai racconti di Pasolini, Rosi, Rossellini, Antonioni.

La periferie contemporanee sono ancora definibili come territori privi di modello (Solà-Morales 1991 e 1995), in cui il senso del luogo è scomparso a causa della discontinuità delle forme edificate, e dove vi è una predominanza del vuoto sul pieno. Ma la caratteristica più evidente è costituita dall’indifferenza formale che affligge non il singolo oggetto architettonico quanto lo spazio d’insieme che questi oggetti costituiscono; il paesaggio periferico, appunto.

L’indifferenza formale della periferia costituisce il teatro della rappresentazione delle derive della città contemporanea.

Letterati e fotografi ne hanno fatto un campo di indagine privilegiato restituendone, spesso amplificate, le condizioni urbane confuse e paradossali della periferia: ne sono un esempio il racconto letterario di un territorio popolato da case geometrili (Celati, 1988) e da villule (Gadda, 1963), o quello fotografico testimonianza di un marcato realismo che diviene deweyanamente esperienza, del lavoro di Gabriele Basilico - da L’esperienza dei luoghi a Scattered city – (Basilico, 1995 e 2005), o ancora nelle atmosfere patinate e malinconiche delle periferie padane immortalate da Luigi Ghirri.

La periferia è certamente un concetto definibile secondo una “relazione di rapporto” con la città (non esisterebbe periferia senza un centro).

Nella progressiva differenza tipologica e morfologica tra nucleo storico ed i suoi aggregati successivi – periferia storica e periferia contemporanea – si è costruita l’identificazione tra periferia e speculazione, tra periferia e infrastruttura, tra periferia e monofunzionalità residenziale, tra periferia e bassa qualità urbana.

Ma la dialettica centro-periferia si è andata tramutandosi nel tempo, fino alla vera e propria messa in crisi del rapporto, con il presentarsi di nuove definizioni concettuali della realtà insediativa moderna come la città-territorio, la città metropolitana, la città diffusa, e via dicendo.

“La periferia oggi più che essere una condizione di geografia urbana è piuttosto un problema di relazione con la perdita del centro. I centri urbani stanno perdendo la qualità, capace di definire l’identità di una città, che finora li aveva caratterizzati” (Nicolini, 2006).

Il fenomeno recente della “periferizzazione del centro” si somma ad un altro, causa o effetto del primo: spazialmente la distanza (vicinanza o lontananza) è divenuto un concetto al tempo stesso labile e discriminante. Non è più certo da cosa sia lontana la periferia contemporanea che liberamente sceglie i propri “centri di riferimento” indipendentemente dalla distanza fisica ma dipendentemente dalla distanza temporale di raggiungimento.

La dialettica che si instaura è la medesima tra centro e periferia. A cambiare è piuttosto l’identificazione del centro; non più il centro storico della città sulla quale è gravitata la periferia fin dalla sua nascita, ma i nuovi centri “dominanti” del XXI secolo (per dirla con Sedlmayr ): i centri commerciali, i centri del divertimento e del tempo libero, i cinema multisala, ecc.

Siamo convinti che lo spazio periferico sia un’opportunità sia per il progetto di architettura che per la città contemporanea.

Nonostante sia passato quasi un quarto di secolo, molti dei concetti affrontati nell’esperienza condotta all’ETSA di Barcellona sulle periferie , appaiono ancora di fondamentale importanza. Nel volume che ne raccoglie gli esiti, Solà-Morales introduce i lavori sottolineando la positività dell’operare progettualmente nella periferia definita come territorio attivo della città contemporanea.

“Da Palladio a Taut, a Garnier o a Wright, i nuovi territori architettonici sono stati immaginati ai margini della città stabilita. Gli spazi periferici, sollecitati solo da riferimenti discontinui dell'urbanità compatta ma suggestivi soprattutto del non ancora fatto, sono stati per questa loro flessibilità il luogo dell'invenzione di tipi e forme urbane. Nelle città europee la forza simbolica e convenzionale dei centri tradizionali ha ridotto negli ultimi anni l'immaginazione di altri tessuti urbani. Il pensiero tipologico e la visione oggettuale dell'edificio architettonico — il suo complementare paradosso — rinunciano a comprendere la mescolanza di infrastruttura e di vuoti, di servizi di massa e di piccole abitazioni, di mobilità e privacy, come terreno figurativo per forme urbane più contemporanee.” (Solà-Morales, 1995).

Un vuoto da progettare

Si accennava precedentemente al fatto che la periferia è caratterizzata da una spazialità dilatata in cui il vuoto è condizione predominante. Un vuoto di risulta, non pensato e organizzato rispetto ad un ruolo specifico, nel quale il progetto può intervenire attribuendo carattere identitario allo spazio facendolo diventare luogo vivibile e vissuto.

Se ipotizziamo ancora di poter interagire nella capacità di scelta dei “centri di riferimento” o “centri dominanti” della periferia possiamo far si che il progetto operi la caratterizzazione dello spazio nella creazione dei nuovi luoghi attraverso architetture figurativamente importanti, tipologicamente complesse e funzionalmente articolate.

Così facendo, molte delle funzioni di cui oggi sono spesso carenti gli spazi periferici delle nostre città, potrebbero trovare localizzazione in un “architettura centrale” e l’insieme di queste nel sistema città costituire un sistema policentrico periferico di organismi riconoscibili e riconosciuti, dagli abitanti del quartiere quanto della città, come fondativi dell’urbanità e quindi come autentici monumenti alle periferie.


Riferimenti bibliografici

Basilico, G., (1995), L’esperienza dei luoghi. Fotografie (1978-1993), Udine

Basilico, G., (2005), Scattered City, Dalai, Milano.

Bucci, F., (2003) a cura di, Periferie e nuove urbanità, Electa, Milano

Celati, G., (1988), Verso la foce, Feltrinelli, Milano

CEP, (2000), Convenzione Europea del Paesaggio, CETS N. 176, Firenze, 20/10/2000

Ciorra, P., (2010), La fine delle periferie, in Enciclopedia Italiana. XXI Secolo. Gli spazi e le arti, Treccani, Milano

EEA, (2006), Urban sprawl in Europe, The ignored challenge, EEA (European Environment Agency) Report No 10/2006, Bruxelles.

EEA, (2011), Landscape fragmentation in Europe, EEA Report 2/2011, Bruxelles.

Gadda, C.E., (1963), La cognizione del dolore, Einaudi, Torino

Quaroni, L., (1967), La torre di Babele, Marsilio Venezia

Solà-Morales, M., (1995) Dal programma del Laboratorio d’Urbanismo “Projectar la perifèria”, Barcellona 1991, cit. in Solà-Morales, M., Territori privi di modello, in AA.VV., Il Centro altrove. Periferie e nuove centralità nelle aree metropolitane, Electa Milano


Enrico Prandi, architetto e dottore di ricerca in Composizione Architettonica e urbana allo IUAV, dal 2006 è ricercatore al DICATeA - Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Parma.

Mario Sironi, Periferia. 1922 - ZOOM

Mario Sironi, Periferia. 1922