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Abstract
Verso la metà degli anni sessanta Arnoldo e Giorgio Mondadori decidono di costruire un nuovo edificio per uffici e redazioni. Giorgio Mondadori è folgorato da un edificio visto durante un viaggio in Sudamerica: Itamaraty, il ministero degli Affari esteri di Brasilia (1962-64) di Oscar Niemeyer, così l’ideazione del nuovo insediamento editoriale viene così affidata all'architetto brasiliano.
I disegni di Niemeyer rivelano la volontà di emanciparsi dal precedente di Itamaraty. Se la soluzione dei fronti in cemento armato con pilastri e archi parabolici a sezione rastremata viene identificata come leitmotiv dei due progetti, la loro diversa ampiezza rivela subito lo stacco dal modello oltreoceano, così come la definizione planimetrica e strutturale dei due edifici. A Brasilia l’estesa costruzione della pianta quadrata era appoggiata a terra e coperta da un solaio staccato, sostenuto dagli archi. A Segrate l’andamento longitudinale della fabbrica permette la messa in opera di un sistema strutturale nel quale la scocca in cemento armato regge i sei piani sospesi degli uffici. Lo schema statico di un semplice portale viene reiterato trasversalmente lungo la giuacitura dei due corpi principali, resi strutturalmente indipendenti per permettere la costruzione frazionata.
Il corpo edilizio longitudinale dallo sviluppo fluido e flessuoso, adornato da Niemeyer per il primo progetto degli uffici Mondadori, aveva precedenti nell’opera dell'architetto brasiliano, a partire dal complesso Copan a San Paolo (1950 ) fino alla sede del Partito Comunista francese a Parigi (1965-67). In entrambi i casi, inoltre, come del resto anche per la Mondadori, sono contrapposti elementi regolati da diverse logiche compositive e geometriche che sottolineano differenti destinazioni funzionali, come risulta evidente nel palazzo del congresso nazionale di Brasilia (1958), una delle opere forse più note dell'architetto brasiliano. La contrapposizione dialettica tra un organismo eminente e un corpo basso, soggetto a geometrie generative diverse, è in effetti ricorrente nell’azione di Niemeyer.
Nell’edificio realizzato lo sviluppo rettilineo del corpo principale sostituisce la primigenia forma sinuosa, sublimata dall’illusione percettiva dovuta alla diversa luce degli archi. La poderosa copertura a cui vengono sospesi i cinque piani degli uffici è costituita da una doppia soletta armata per un’altezza totale di circa 1,8 metri, innervata da una serie di travi trasversali, corrispondenti ai portali, e da due travi ortogonali a cui sono agganciati i 56 tiranti (28 per trave) della struttura in ferro. L’ingente peso di questa struttura – circa 24 tonnellate – necessita in fase di getto di una centinatura di tubi di acciaio di 25 metri d’altezza, appoggiata su un terreno a elasticità non uniforme. La struttura in acciaio sospesa è costituita da quattro corpi distinti, divisi da due blocchi di scale e ascensori – le torri sud e nord – e dal giunto di dilatazione al centro dell'edificio.
La sede di Segrate ottiene una grande fortuna sulle riviste tecniche, che spesso le dedicano la copertina, oltre ad ampi articoli che illustrano le caratteristiche innovative della costruzione. Decisamente più problematico l’approccio che le riserva la critica disciplinare. Anche quando gli archi di Niemeyer hanno l’onore della copertina, come su ʺBauen+Wohnenʺ, gli scritti di commento non risparmiano le riserve sull'opera dell'architetto brasiliano. ʺL'Architecture d'Aujourd'huiʺ titola Les paradoxes d'Oscar Niemeyer, puntando l’indice sulle contraddizioni di una modernità incline al formalismo. ʺCasabellaʺ ne critica apertamente la vistosa spettacolarità.
La straordinaria efficacia espressiva del brasiliano si era spesso esercitata sugli elementi strutturali dei suoi edifici, plasmandoli in termini tanto sensazionali quanto, a volte, indipendenti dal funzionamento statico. Tale atteggiamento – la cui consapevole legittimità era stata ribadita più volte da Niemeyer – attira gli strali dei più intransigenti ortodossi della novella modernista: Max Bill, dalle pagine di ʺThe Architectural Reviewʺ e Pier Luigi Nervi, riferendosi al palazzo presidenziale della Alvorada a Brasilia (1957), censura la ʺtotale arbitrarietà che si manifesta nella forma dei piloniʺ.
Deliberatamente Niemeyer aspira a derogare dalle gabbie prescrittive del funzionalismo più rigoroso, obiettivo del resto perseguito anche dallo stesso Le Corbusier con cui il brasiliano ha collaborato per il ministero dell'educazione e della sanità di Rio de Janeiro (1936-43) e per il progetto della sede delle Nazioni Unite a New York (1949). L’insofferenza normativa del maestro svizzero, che sfocerà nell'eversivo capolavoro di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp (1950-55), condensa in alcuni elementi plastici delle sue architetture – mutati anche dalla parallela attività di pittore – la volontà di emanciparsi da soluzioni di un modernismo ormai convenzionale. Niemeyer ferisce l’ortodossia della critica militante non solo inserendo nelle proprie opere elementi estranei, per geometria e forma a una rigorosa impostazione razionale, ma squassando tutto l’impianto compositivo con figure provocatorie ed esuberanti.
Ricondurre questa poetica alle presunte linee morbide del paesaggio brasiliano, come pure a generiche suggestioni dell’architettura barocca latinoamericana – come hanno proposto alcuni critici nel tentativo di reintegrare la figura di Niemeyer nel novero di un più ampio e problematico orizzonte modernista – implica la legittimazione di suggestioni più letterarie che sostanziali, spesso alimentate dallo stesso architetto. Non pare invece azzardato ricondurre l’origine della fascinazione che alimenta l'esuberanza plastica di Niemeyer, più che nel paesaggio e nella tradizione neolatina, alle poderose opere d’ingegneria in cemento armato realizzate nel XX secolo.
E sono ancora alcune allusioni dello stesso architetto che, più sottilmente delle dichiarazioni d'amore per le chiese barocche, il sensuale corpo femminile o il paesaggio di Rio, fanno trasparire tale interesse. Niemeyer afferma che ʺNell'architettura la forma plastica ha potuto evolversi grazie alle nuove tecniche e ai nuovi materiali che le danno aspetti differenti e innovatoriʺ, e che ai ʺvecchi tempi […], limitato da una tecnica ancora ai primordi, l'architetto penetrava coraggioso lungo il cammino del sogno e della fantasiaʺ. E proprio nel presentare l'appena ultimato complesso Mandadori l’architetto legittima ʺil ritmo variato degli archi con quella sinfonia degli appoggi che Auguste Perret proclamaʺ, chiamando in causa il geniale pioniere della poetica del cemento armato nell’architettura.
La competenza tecnica dell’architetto brasiliano è lontana dalla formazione ingegneristica e quindi le forme plastiche delle strutture in cemento armato che ammira non lo risparmiano, a volte, da eccessi formalisti che contrastano con il rigore della logica strutturale, come non manca di osservare Nervi per la Alvorada. La Mondadori rappresenta invece l’esito più maturo di questo processo, nel quale sin dagli schizzi iniziali Niemeyer cerca la perfetta coincidenza tra forma e struttura. L’edificio di Segrate si afferma felicemente come un punto di svolta nell’opera del brasiliano.
L’armoniosa coincidenza tra l’assetto formale e la logica strutturale raggiunta con la Mondadori pur confermando quelle doti d’invenzione plastica che in passato hanno contribuito ad appiattirne la lettura critica in termini di abile quanto arbitrario formalismo, rivela parallelamente una complessità di pensiero e di riferimenti che rendono davvero ingenerosa la sua collocazione nell’ambito di un riduttivo modernismo brasiliano e ne accreditano la cittadinanza in un orizzonte culturale e artistico – Le Corbusier, Nervi, Morandi, Kahn; il Brasile, la Francia, l’Italia – sfaccettato e cosmopolita.
Roberto Dulio (1971) insegna Storia dell’architettura al Politecnico di Milano; si occupa dell’architettura moderna e contemporanea e dei suoi rapporti con l’arte e la fotografia. Tra i suoi libri: Giovanni Michelucci 1891-1990 (con Claudia Conforti e Marzia Marandola, Milano 2006), Oscar Niemeyer. Il palazzo Mondadori, (Milano 2007), Introduzione a Bruno Zevi (Roma-Bari 2008), Un ritratto mondano. Fotografie di Ghitta Carell (Monza 2013).