Scegli la Lingua

Festival dell'architettura

Ti trovi in: Home page > Archivio Magazine > Il brutto, tra desiderio e necessità.

Giuseppina Scavuzzo

Il brutto, tra desiderio e necessità.

 

Lina Bo Bardi, Mostra “Intermezzo per bambini”, acquerello, 1984. - ZOOM

Lina Bo Bardi, Mostra “Intermezzo per bambini”, acquerello, 1984.

Lina Bo Bardi. Il diritto al brutto e iI SESC-fàbrica da Pompéia (1) è intitolato il recente libro di Luciano Semerani e Antonella Gallo sull’architetto italiano, attivo in Brasile come progettista, docente di Teoria dell’Architettura e animatrice culturale. Quel provocatorio “diritto al brutto”, che intitola il saggio di Semerani e riprende un’espressione della Bardi, ha lo scopo, riuscito, di trasmettere un turbamento.
Leggendo i saggi dei due autori, scopriamo che questo turbamento va in direzione diversa dal perturbante individuato da Freud e applicato all’architettura da Antony Vidler, per descrivere l’espressione, in architettura, dell'invivibilità nella condizione contemporanea, del sentimento di sradicamento.
In completa antitesi procede il “brutto” con cui Semerani, isolando questa citazione, ha sintetizzato emblematicamente il discorso di Lina Bo Bardi: attraverso il paradosso, caro alla Bardi quanto a Semerani, quel “brutto” diviene un inno alle possibilità dell'architettura di essere feconda alla vita: una fertilità che dipende dal radicarsi in quanto di più originario, ancestrale, viscerale lega l’uomo al suo nascere sulla terra.

Il “diritto al brutto” è un’espressione che la Bardi utilizza riferendosi, prima che all’architettura, a un altro suo ambito di interesse, quello per l’arte popolare del Nordest brasiliano; da qui la riflessione sulla responsabilità civile della produzione di oggetti si trasferisce all’architettura, portando con sé la potenza iconica e figurativa che anima le sue architetture.
La produzione del Nordest brasilano è un pre-artigianato (un sapere artigiano non era ancora nato quando in Brasile arrivarono gli europei) che trae elementi dalla preistoria e dall’Africa ed è già quasi post industriale, riutilizzando scarti provenienti da prodotti industriali, latte, bidoni, lampadine.
Una condizione che sovverte la linearità della storia e che, per la Bardi, mette a nudo le aberrazioni della modernizzazione occidentale, il fallimento dell’utopia rigenertiva da cui era nato il design industriale, sfociata nel feticismo e nella “consolazione dei gadgets”.

È questa cultura popolare che la Bardi preferisce fieramente ascrivere alla categoria del brutto, piuttosto che accettare le etichette di folklore, eredità regressiva di un artigianato non più vivo fondamento della società, ma sopravvissuto a uso e consumo turistico, o di kitsch, altrettanto mortifera acquiescenza all’estetica spazzatura della cultura di massa.

L’arte popolare brasiliana, invece, fa a pezzi i prodotti della cultura di massa, li mastica e li digerisce attraverso l’enzima straordinario che è l’attitudine a connettersi con le reali necessità quotidiane. Per cui quegli oggetti, compresi gli ex voto, contengono una urgente e positiva domanda di vita.

Dalle riflessioni sull’arte popolare arrivano all’architettura almeno due ordini di questioni, affrontate nei due saggi che compongono il libro, relative al linguaggio dell’architettura, la composizione, e al rapporto tra architettura e tecnica.

Il “diritto al brutto” è, per Semerani, diritto a sperimentare una lingua diversa da quella dominante, che sovverta regole e tecniche della composizione architettonica, rivendicandone la dignità al di là di ogni preclusione di ordine estetico.
Non per questo il “diritto al brutto” è negazione dell’essenziale estetico dell’architettura, al contrario, col vigore del paradosso, costringe a confrontarsi con l’estetico, a riportarlo al ruolo cruciale che deve avere nella Composizione architettonica, sottraendola all’arbitrio dell’autoreferenzialità e del formalismo.
Quello della Bardi non è un mondo formale personale, in cerca di originalità, attinge a una cultura, una idea di mondo, cui corrisponde un estetico che non è quello codificato dalla cultura occidentale, ma che ha strumenti e regole.
Non canoni armonici riferiti a principi di validità superiore, ma regole che trovano quella valdità superiore nell’agganciarsi alla ciclicità della Natura, in cui tutto è passaggio di una cosa nell’altra, nell’attitudine alla metamorfosi e al riuso degli animali, che scavano tane o vivono in quelle altrui trasformandole, delle piante che si adattano a crescere ovunque, di tutto ciò che viene divorato e digerito e di nuovo diventa fertile per altre forme di vita.
Anche la cultura occidentale, per la Bardi, deve essere divorata e digerita per divenire altro, qualcosa di fertile per nutrire nuova vita: una concezione letterale di meticciamento che non rilegge o traduce, ma feconda e rigenera.
Una lingua che segua queste regole non può essere astratta: come il Mito e la Magia a cui anche attinge, vi domina il segno, la figurazione, tratta dall’immaginario popolare, dall’animaleria brasiliana che Semerani definisce “Paradiso terrestre senza Arcangeli”, rendendo la condizione originaria a cui Lina vuole restituirci, di abitanti di un universo non corrotto dal mercato e dalla teologia, un paradiso esuberante di vita animale e vegetale da cui arrivano all’architettura le tecniche dell’innesto, del mascheramento, dell’assemblaggio.
Con un’avvincente dimostrazione, Semerani descrive il passaggio al piano astorico della composizione. Così le considerazioni della Bardi sul concetto di tempo – lineare e progressivo quello inventato dall’Occidente teleologico e mercantile, intrico di linee in cui si procede circolarmente e per salti, quello mitico, magico – sono trasposte dal piano ideologico a quello della diacronicità della composizione architettonica.

Il “diritto al brutto” è anche affermazione di libertà, “capacità di dire no” diceva la Bardi citando Brecht, rispetto alle imposizioni della tecnica e del mercato, perché “la libertà dell’artista è individuale ma la vera libertà può essere solo collettiva… una libertà connessa alle limitazioni della Scienza, e non della tecnologia divenuta tecnocrazia” (2). Nella cultura popolare, per la Bardi, può nascere una cultura moderna con la forza propulsiva in un nuovo umanesimo, che torni a usare la tecnica non come scopo ma come strumento della Necessità.
Antonella Gallo assume come paradigma di questa ricerca il SESC di Pompeia, la storia dell’intervento, la pratica costruttiva, la vita ospitata da un’architettura in cui, ci spega, è il modello stesso della crescita della metropoli che viene divorato, digerito fino a sovvertirne il significato.
Emblematico del rapporto con la tecnica è l’errore esposto di cui racconta la Gallo. In varie tradizioni architettoniche, pensiamo a quella ebraica, l'errore è voluto e offerto come sacrificio dell'orgoglio, memento dell’imperfezione dell’uomo e delle sue opere.
Qui non è esercizio di umiltà ma autenticità: testimonia lo sforzo fatto, non è cercato per una mortificazione ma accettato, non invalida l'opera ma ne è parte come le cicatrici su un corpo che ha vissuto e lottato.
L’esaltazione della tecnica e del mercato contengono un’idea di bello legata a tutto ciò che proclama il suo essere nuovo, lucido, perfetto, tanto che alcune architetture contemporanee sembrano dirci, da un mondo alieno di perfezione tecnologica, che siamo troppo umani, con i nostri corpi imperfetti, passibili di invecchiare.
Il SESC, come descritto da Antonella Gallo, con le sue slabbrature e rozzezze, nella sua poverà, sa “dispensare il piacere della liberazione del corpo e della psiche”.

Il piano compositivo e quello della responsabilità civile sono inscindibili: il linguaggio poetico, atemporale, della composizione, si rigenera dalle proprie radici e i suoi segni e le sue figure divengono semi, promettono una prosecuzione potenziale di vita.
Vediamo riemergere questa consapevolezza perfino in paesi in cui la distruzione di ogni radice è stata sistematicamente pianificata e perseguita, in cui tecnica, mercato e frainteso senso di modernità si alleano per costruire macro interventi negazione di ogni umanesimo.
In Cina, Wang Shu costruisce muri multimaterici in cui materiali di risulta delle demolizioni compiute in nome della crescita, vecchie tegole, vecchi mattoni, pezzi di ceramiche smaltate, sono assemblati seguendo tecniche popolari tradizionali, per rispondere semplicemente alla necessità, assumendo come modello la produzione manuale di oggetti d’uso quotidiano. Così, come una grande figura metonimica, la sua Ceramic House dai muri ricoperti di pezzi di ceramica smaltata, riprende forma e principio di funzionamento delle pietre da inchiostro, strumento dell’arte della calligrafia che l’architetto pratica come quotidiano esercizio della capacità della mano di tracciare segni.

Il libro di Semerani e Gallo, seguendo non il tempo lineare ma le volute della storia come groviglio di linee, riporta ai nostri giorni in cerca di decrescite più o meno felici, il sorriso “canzonatorio e interrogativo di donna bella e intelligente”, per citare Semerani, che mette in guardia dall’essere troppo sicuri che il progresso tecnico possa darci ciò di cui abbiamo bisogno, ciò che risponde al necessario e ciò che ci anima di desiderio.
Antonella Gallo cita un altro sentimento, ancora più provocatorio, la pietà, intesa come la capacità di riconoscere e conferire dignità ai mezzi limitati, per l’architettura la capacità di essere offerta.
Essendo tutto questo mai disgiunto dalla capacità del popolo brasiliano di festeggiare la vita, dopo questa lettura dell’opera della Bardi, in quelle architetture, in quei fori irregolari, intravediamo il sorriso sdentato di un bambino, che nella sua disarmonia, forse per dispetto possiamo dire brutto, ma che è bello come una promessa di felicità.

1. Semerani L., Gallo A. (2012) Lina Bo Bardi. Il diritto al brutto e iI SESC-fàbrica da Pompéia. Napoli: CLEAN
2. Bo Bardi L. (1994). Tempos de grossura: o design no impasse. San Paolo: Instituto Lina Bo e P. M. Bardi.

 

Giuseppina Scavuzzo (1971), ricercatrice in Composizione Architettonica e Urbana presso l’Università di Trieste, ha conseguito il Dottorato in Composizione Architettonica presso l’Università Iuav di Venezia ed è stata borsista della Fondation Le Corbusier di Parigi.

Semerani L., Gallo A. (2012) Lina Bo Bardi. Il diritto al brutto e iI SESC-fàbrica da Pompéia. Napoli: CLEAN, copertina. - ZOOM

Semerani L., Gallo A. (2012) Lina Bo Bardi. Il diritto al brutto e iI SESC-fàbrica da Pompéia. Napoli: CLEAN, copertina.