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Marzia Marandola
Abstract
La FATA di Pianezza, pur non essendo tra gli edifici più noti di Niemeyer, rappresenta un'indubbio esempio di ideale rapporto tra cimento strutturale e esito spaziale. L'edificio, di grande interesse, fornisce chiavi di lettura inedite rispetto all'intera opera del maestro brasiliano.
La FATA, acronimo di “Fabbrica Automazione Trasporti e Affini”, è una società che rivolge i suoi servizi di organizzazione e di macchine per l’edilizia al mercato internazionale. La nuova sede dei suoi uffici a Pianezza, a pochi chilometri da Torino, deve pertanto avere l’immediata persuasività di uno spot pubblicitario, suggerendo un’idea di solidità congiunta a modernità architettonica e ad aggiornamento tecnologico. Nel 1977 viene pertanto incaricato del progetto l’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, che pochi anni prima, con l’edificio della Mondadori a Segrate, aveva dimostrato l’efficacia propagandistica dell’architettura nella divulgazione dell’immagine di un’industria moderna, ma capace di fare tesoro della tradizione. Fin dal primo schizzo di Niemeyer si afferma un’idea chiara e definita: l’edificio, ardito e saldo come un ponte, è un parallelepipedo compatto, stretto e lungo, sollevato dal suolo su tre coppie di possenti pilastri, che ne cadenzano i fronti. L’immagine è quella del lungo fronte principale, ritagliato, come la silhouette di un ponte, da archi ampi e ribassati, tutti con uguale profilo. A sorpresa, alcuni piedritti degli archi sono interrotti in corrispondenza del primo solaio in quota, mentre gli altri scaricano robustamente sul terreno. Il pilastro centrale segna l’asse di simmetria, rispetto al quale, da un lato e dall’altro si aggregano, fino al pilastro successivo, tre archi, mentre altri due archi restano sospesi a sbalzo, disegnando complessivamente un prospetto articolato dal concatenarsi di dieci archi. Due corpi scala, plasticamente modellati nel cemento, si staccano dal volume principale, conquistandogli una potente tridimensionalità spaziale. L’edificio FATA, completato nelle strutture in cemento armato nell’arco davvero fulmineo di circa un anno, sgomenta per lo strabiliante effetto di sospensione che lo apparenta a un vero e proprio ponte di terraferma, con sbalzi laterali di ben 21,30 metri, e interassi tra i pilastri di 32,40 metri.
L’ingresso avviene al piano terra attraverso una hall: una piccola e sofisticata scatola di vetro e acciaio, dove la parsimonia tecnico-figurativa è debitrice alla lezione di elegante essenzialità di Mies van der Rohe. Salendo, le pareti in cemento lasciato a vista serrano il profilo prosciugato della scala con rampe a sbalzo dalla parete, rilegate da un sinuoso corrimano in tubolare metallico. Esse conducono ai grandi ambienti, che occupano i due piani principali dell’edificio, con gli open space degli uffici.
Ma come è ottenuto questo eccezionale effetto architettonico che salda in armonia gli opposti, cioè la pesantezza del blocco cementizio con lo slancio aereo di un viadotto?
Il dispositivo segreto consiste nel fatto che i due piani dell’edificio non gravano, come succede normalmente negli edifici, su strutture sottostanti, ma sono per così dire appesi. Infatti due possenti travi principali che, gettate in cemento precompresso, corrono sul coronamento parallelamente al fronte esteso, reggono tutto il peso dei piani inferiori. I due solai, ossia i due piani degli uffici, sono infatti appesi alla trave principale attraverso un originale sistema di tiranti: questo artificio costruttivo consente di avere i piani degli uffici totalmente sgombri da pilastri e dunque organizzabili in piena libertà e permette di troncare a mezz’aria alcuni pilastri, che funzionano come tiranti, imprimendo sorpresa e levità all’immagine dell’edificio.
Il risultato, che coniuga la massima funzionalità degli spazi interni con una straordinaria arditezza costruttiva, si traduce in un’immagine architettonica originale e moderna: esso è frutto della collaborazione di due grandi ingegni, diversamente dotati, e della loro comune passione per il cemento armato. L’uno lo abbiamo già menzionato, è Niemeyer, la cui predilezione per il cemento suggerisce le parole con cui commenterà la FATA: “il cemento è il nostro materiale preferito: flessibile, generoso, adatto ad ogni fantasia. Per esprimerne queste possibilità l’architettura dovrà essere varia, differente, imprevedibile. Mai ripetitiva, fredda e rigida come le strutture in ferro o in legno. A questo scopo, senza pregiudizi, elaboriamo con modestia i nostri progetti fatti di curve e di rette, ricercando l’invenzione architettonica che è per noi l’architettura stessa. Tecnica e architettura sono per noi la sintesi necessaria, due momenti che nascono insieme e insieme si completano”. L’altro è Riccardo Morandi, uno dei più celebri ingegneri italiani del Novecento, costruttore di opere stupefacenti per eleganza formale e arditezza tecnica come il viadotto di 9 chilometri nella laguna di Maracaibo in Venezuela del 1962. Autentico mago del cemento armato precompresso, Morandi ha saputo mettersi al servizio di un’idea artistica non convenzionale, elaborando con sapiente originalità un sistema costruttivo perfettamente mirato sulla figurazione espressiva del ponte, perseguita fin dai primi schizzi dall’architetto.
La costruzione dell'opera è affidata all’impresa Franco Borini di Torino che deve completare l'edificio nel tempo breve di 210 giorni solari consecutivi, come fissato dal capitolato d’oneri. Il cantiere è insediato il 1 settembre 1977; le strutture in cemento armato sono costruite da maggio a novembre 1978, e quando l’opera emerge nella sua fase aurorale con i sei imponenti pilastri, gli abitanti di Pianezza deducono che si stia realizzando un ponte stradale.
La costruzione è complessa e richiede continue accortezze in corso d’opera, soprattutto per assecondare la volontà di mantenere il cemento armato a vista, senza intonaco, su elementi di così grandi dimensioni. L’architetto fiorentino Massimo Gennari è il referente in Italia di Niemeyer e sarà lui a seguire il cantiere costantemente durante gli anni della costruzione, ad eseguire il progetto esecutivo dell’opera e a far da tramite sia con l’ufficio tecnico FATA che con Morandi.
Per la messa in opera delle casseforme la direzione lavori si riserva di indicare il taglio delle tavole, che devono essere “in legno di abete piallato e trattate con acido muriatico in maniera da porre in maggiore rilievo la trama della fibra del legno”. All’interno dell’ossatura cementizia, i due piani principali degli uffici sono schermati sul fronte lungo da setti continui in alluminio anodizzato e pannelli vetrocamera in cristallo temperato, color bronzo all’esterno e trasparente all’interno1. Alla trasparenza dei fronti lunghi dell’edificio, segmentata dagli archi cementizi, si contrappongono i lati corti, completamene ciechi. Il prospetto breve, severo e silente, denuncia gli elementi costruttivi dell’ossatura dell’edificio: sono infatti leggibili, nei tagli orizzontali, gli spessori dei solai, dei pilastrini-tiranti e le cerniere metalliche.Questa scelta compositiva, che fa emergere la filigrana costruttiva sul fronte breve dell’edificio, è da attribuire a Morandi, che per evitare fessurazioni, incide la parete in corrispondenza dei solai, creando i necessari giunti strutturali.
Come di consueto, per il grande ingegnere, la necessità costruttiva si coniuga poeticamente con l'esigenza estetica e grazie alla collaborazione di eccellenti competenze e professionalità la sede Fata mostra ancora oggi una straordinaria qualità costruttiva e un'estrema modernità ideativa del progetto architettonico.
1 Per un approfondimento si veda M. Marandola, La sede per gli uffici FATA di Pianezza (Torino) di Oscar Niemeyer e Riccardo Morandi (1976-79) in “Casabella”, 764, marzo 2008, pp.6-25 e Idem, La Costruzione in precompresso. Conoscere per recuperare il patrimonio italiano, Sole24ore, Milano 2009, pp.107-122.
Marzia Marandola, ingegnere edile, dottore di ricerca (2006) in Ingegneria Edile, è ricercatore di Storia dell'Architettura alla facoltà di Architettura dell'Università di Roma “La Sapienza”.
Ha pubblicato numerosi saggi sull’architettura moderna e contemporanea, interessandosi particolarmente ai modi del costruire, alle tecniche costruttive e al loro rapporto con l’immagine e la bellezza dell’architettura. Tra essi si ricordano i volumi: M. Marandola, La costruzione in precompresso. Conoscere per recuperare il patrimonio italiano, IlSole24ore, Milano 2009; (in coll. con C. Conforti, R. Dulio) Giovanni Michelucci 1891-1990, Electa, Milano 2006; (in coll. con C. Conforti) Richard Meier, Motta-Il Sole 24ore, Milano 2009. Collabora abitualmente con riviste italiane e internazionali: “Casabella”, “Arketipo”, ed “EDA. Esempi di Architettura”.