Ti trovi in: Home page > Archivio Magazine > Simbolo e concetto nell'opera di Ricardo Porro
David Bigelman
Wifredo Lam, Femme assise, 1940, collection prive
Abstract
L’autore analizza la dimensione simbolica e concettuale dell’architettura di Ricardo Porro ed in particolare delle scuole d’Arte dell’Avana. Contenuti derivati dall’analisi iconografica di E. Panofsky a cui lo stesso Porro si rifà in corsi, conferenze e pubblicazioni.
Premesse
La nozione di contenuto nelle opere architettoniche è un tema che lo stesso Ricardo Porro ha già ampiamente sviluppato in passato in numerosi corsi, conferenze e pubblicazioni. Attraverso il mio intervento vorrei portare una visione esteriore di questa problematica, limitandomi al livello simbolico e concettuale della sua produzione, in particolare nelle sue scuole d’Arte all’Avana.
In uno dei suoi scritti Porro elenca gerarchicamente(1) i diversi livelli di contenuto nelle opere d’arte, cominciando dal significato immediato, seguito dagli altri che sono: la persuasione, la tradizione, l’immagine sovrapposta e il significato mediato o indiretto.
Porro riprende in parte i livelli proposti da Panofsky nel suo magistrale saggio sull’Iconografia(2), ma egli se ne allontana quando, nel suo secondo livello, la persuasione, analizza la volontà dell’artista di convincere lo spettatore circa un soggetto, che può essere esplicito o implicito, al fine di attirarlo, nel migliore dei casi, verso il suo punto di vista(3). D’altro canto, il terzo livello, la tradizione, comporta la comprensione dei caratteri particolari che sottintendono una cultura o un tempo preciso della storia. Il quattrocento fiorentino, il razionalismo francese, il barocco romano sono degli esempi conosciuti(4). Per quanto ci riguarda Porro scrive nel capitolo del suo saggio sull’immagine sovrapposta: “l’architettura riguarda il processo costruttivo ma essa ha il diritto di sembrare altra cosa che non sia un edificio”(5) e per lui questa «altra cosa» può essere descritta sotto la forma di un simbolo o di un’immagine figurativa.
In uno dei suoi significati il simbolo è descritto come un: “Oggetto o fatto naturale ricco di immagine che evoca, per la sua forma o per la sua natura, un’associazione di idee «naturale» con qualche cosa di astratto o di assente”. Gli aspetti astratti dei simboli in architettura come il cerchio, il quadrato, la piramide, molte volte studiati in passato da Hautecoeur(6) e da altri, sono ricorrenti in tutte le forme costruttive tradizionali dall’origine fino ai giorni nostri. Secondo Porro il carattere astratto dei simboli si trova, ad esempio, nella forma circolare della città ideale di Arc et Senans a Chaux, che Ledoux stesso sviluppa nel suo libro(7) o, ancora più sorprendente, nella ripetizione simbolica dei numeri quattro o sei nella scuola dell’architettura dell’IIT di Mies van der Rohe(8).
D’altronde la sua visione dell’immagine sovrapposta (non astratta) è più originale, seppure utilizzata meno frequentemente in architettura, in confronto al contenuto delle altre arti visive.
Queste immagini figurative si collegano al subcosciente collettivo nel senso junghiano della parola.
È evidente la loro analogia con le forme architettoniche archetipiche come la scala, la porta, la casa, il labirinto, la torre, la capanna primitiva. Del resto altre immagini archetipiche, assai numerose, si allontanano alquanto dal vocabolario architettonico, ad esempio: la montagna, il boschetto, la grotta, l’uccello, il serpente, il corpo umano. Il numero delle possibili immagini risulta, perciò, infinito. Gli architetti che si interessano a questo potenziale del linguaggio architettonico sono rari ai giorni nostri, Porro cita la volontà del Bernini di imporre alla Basilica di San Pietro, con il colonnato della piazza, l’immagine di “mera chiesa, come un essere umano gigantesco, capace di accogliere il mondo intero”(9). Il Bernini stesso, citato da Wittkower, spiega il senso di questa opera: “essendo la chiesa di S. Pietro quasi matrice de tutte le altre doveva haver un portico che per l’appunto dimostrasse de ricevere a braccia aperte maternamente i cattolici per confirmarli ne la credenza, gl’eretici per reunirli a la chiesa e gl’infedeli per illuminarli alla vera fede”(10).
Ma quest’ultimo aspetto potrebbe essere visto sotto la stessa ottica del secondo livello proposto da Porro, cioè la persuasione. In un altro esempio citato nel suo saggio, la sinagoga Beth Shalom a Elkins Park, Filadelfia, di F. Ll. Wright, l’immagine sovrapposta è la «montagna luminosa» che assomiglia alla geometrizzazione della montagna presso gli egiziani, in un’accezione meno astratta(11). Tuttavia altre immagini possono ancora essere aggiunte a queste: il candelabro a sette bracci, il cespuglio ardente del Monte Sinai, l’arco dell’Alleanza…..
Queste due modalità di formalizzare i simboli, astratta attraverso la geometria o le proporzioni, e figurativa attraverso l’uso di immagini archetipiche, in definitiva sono semplicemente dei veicoli per trasmettere un messaggio più profondo che Porro esamina successivamente nell’ultimo livello di significato: il contenuto mediato o indiretto(12).
In questo senso per Porro la forma (simbolica o simboleggiante) deve necessariamente esprimere il contenuto (simboleggiato). Questo contenuto esprime un momento critico contemporaneo all’elaborazione dell’opera (una rivoluzione politica, per esempio) o un aspetto di carattere universale dell’umanità: la fecondità creativa dell’eros, l’angoscia della morte (thanatos), la saggezza, la simultaneità nel percorso del tempo, il male, la violenza. Ancora secondo Wittkower nelle teorie dell’arte degli umanisti la comprensione del contenuto inerente a un’opera, il concetto, è strettamente legata ad un tema poetico(13). È in questa prospettiva che si devono comprendere il metodo creativo di Porro e la sua volontà di produrre un’architettura che si potrebbe definire «parlante». Questo metodo proviene da una lunga tradizione artistica teorizzata fin dall’epoca di Alberti, alla quale si ispirarono Michelangelo, Palladio, Philibert de l’Orme e molti altri ancora. L’uso del concetto è particolarmente evidente presso i maestri del barocco romano.
All’inizio del XX secolo le opere di Gaudì e, più vicino al mondo di Porro, la produzione, seppure assai diversa dalla sua, di architetti come Gunnar Asplund o Jože Plecnik continuano questo percorso. Porro ama sostenere che la produzione spontanea non esiste nella creazione artistica.
Ogni creatore ha un predecessore, ogni opera ha un precedente. Questo comporta, pertanto, che per comprendere le opere di Porro è necessario conoscere ugualmente il suo itinerario e la sua «weltanschauung».
Contesto
Porro nacque nel 1925 nella città di Camagüey, a est dell’isola di Cuba, in seno ad una famiglia di grandi proprietari di origine lombarda, stabilitasi nella regione fin dal XVIII secolo. Affascinato, durante la sua giovinezza, da una visita all’esposizione universale di New York nel 1939, egli decide di cominciare gli studi di architettura all’Università dell’Avana. Nonostante il livello mediocre dell’insegnamento nella facoltà, una certa effervescenza anima un piccolo gruppo di studenti attorno a Porro. Essi contestano un percorso accademico retrogrado e invitano Gropius, fra gli altri, a fare delle conferenze e delle critiche a progetti. Insieme al più anziano, l’architetto Eugenio Batista (senza alcuna relazione con il dittatore), essi si impegnano ad elaborare una visione critica dell’architettura funzionalista internazionale, simile a quella dei loro contemporanei italiani, scandinavi o a quella di Barragan in Messico. Vengono allora posate le basi di un’architettura moderna adattata alle particolari condizioni dell’isola e alla sua cultura ed è attorno alla costruzione di qualche residenza privata che comincia ed essere formulato un linguaggio architettonico originale e locale.
È importante osservare come questi giovani architetti (oltre a Ricardo Porro si possono citare Emilio del Junco, Frank Martinez, Mario Romañach) lavorino in un contesto di emulazione intellettuale, nella misura in cui l’isola vive un momento di relativa prosperità in questi tempi di guerra, accogliendo numerosi intellettuali rifugiati dall’Europa. La loro presenza insieme alla comparsa della rivista Origines, fondata dal poeta Lezama Lima, produrrà un grande impatto sugli ambienti culturali del paese.
All’inizio degli anni Cinquanta Porro parte per Parigi e l’Europa con una borsa di studio post-laurea. Ai corsi dell’Istituto di Urbanistica egli assimila le critiche acerbe che Gaston Bardet erige contro le teorie di Le Corbusier, malgrado la grande ammirazione che egli nutriva verso le opere tardive del maestro. Soprattutto il suo contatto con l’Italia del dopoguerra, i mirabili esempi urbani di Venezia e delle altre città storiche lo segnano profondamente insieme alla possibilità, in quel periodo privilegiato, di poter frequentare personalità così importanti per la sua formazione: Ernesto Rogers, Franco Albini, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa con il quale ha potuto confrontarsi e discutere sulle idee e teorie della elaborazione.
Di ritorno all’Avana dopo qualche anno, Porro riscopre il carattere intrinseco della cultura cubana attraverso la produzione del suo grande amico, il pittore Wilfredo Lam. Per loro la cultura cubana è la conseguenza del sincretismo di due tradizioni: da una parte la cultura spagnola con il suo senso tragico della vita, in parte temperato dal clima tropicale, e l’influenza arabo-andalusa. Le forme curve e sensuali del barocco coloniale con il suo sistema dei patii e dei giardini e gli spazi illuminati dalla luce velata delle persiane e dei vetri fanno parte di questa stessa tradizione. Dall’altra parte si trova la forte traccia delle culture africane arrivate sull’isola al tempo degli schiavi. Senza portare qualche cosa di preciso nelle arti visive e ancora meno nell’architettura, il loro mondo è marcato dalla sfrenatezza sensuale di una natura sovrabbondante e divinizzata, riccamente accompagnata dalla musica, dal ballo e dalla poesia popolare.
Con le sue prime opere, dimore per una borghesia moderna ed illuminata, Porro tenta di sperimentare un nuovo linguaggio14. Contemporaneamente egli collabora con Franco Albini nel suo progetto di estensione dell’Avana ad est della baia, registrato nel piano regolatore ideato da J.L. Sert e L. Wiener. Coinvolto in attività sovversive contro il dittatore Fulgencio Batista egli è costretto ad andare in esilio in Venezuela dove svolgerà una breve attività nell’insegnamento.
Le Scuole d’Arte dell’Avana
Dopo la caduta della dittatura nel 1959 Porro, come numerosi altri cubani, ritorna nel suo paese pieno di speranza e di energia creativa. È allora che si consacra all’insegnamento alla facoltà di Architettura e nei suoi corsi si delineano le basi di nuove posizioni teoriche. Nel 1961 il governo gli propone di progettare le scuole d’arte sui terreni del vecchio Country Club a ovest dell’Avana.
Consapevole dell’enormità del compito Porro invita due giovani architetti conosciuti durante il suo esilio in Venezuela, Vittorio Garatti, milanese, e Roberto Gottardi, veneziano, a condividere il suo lavoro e i diversi programmi. Delle cinque scuole situate ai bordi del campo da golf irregolare ed attraversato da un ruscello, Gottardi si occuperà della scuola delle Arti Drammatiche, Garatti della scuola di Danza Classica e della scuola di Musica mentre Porro prenderà in carico la scuola delle Arti Plastiche e la scuola di Danza Moderna.
Le due scuole progettate da Porro, insieme a quelle progettate da Gottardi e da Garatti, esprimono di comune accordo la volontà di creare un microcosmo urbano le cui sale dei corsi formeranno l’intelaiatura di «isolotti» concentrati attorno a «piazze» circondate da portici mentre alcuni elementi straordinari come la biblioteca, il teatro, il museo, il refettorio superano la scala «domestica» diventando i suoi «monumenti».
Dopo l’inizio di questo insieme e per ragioni economiche, gli architetti decidono, in corso d’opera, di sostituire la costruzione in cemento armato con opere in muratura tradizionali in mattoni e volte in terracotta, tecniche importate nell’isola dai muratori catalani all’inizio del XX secolo. La scuola delle Arti Plastiche, probabilmente la più conosciuta e famosa dell’insieme, apre in pompa magna il suo ingresso sbandierando tre corni conici a forma di arco di trionfo su un «vestibolo» leggermente interrato. Penetrando da questo nella penombra fresca dello spazio di accoglienza da un esterno abbagliante di luce e calore, colui che entra ne viene confortato e sperimenta una sorta di ritorno al ventre materno. A partire da qui i portici curvi fatti a volta e scanditi da un ritmo incessante di piloni sormontati da doccioni (gargouilles) lo accompagnano verso la piazza centrale la cui punta di diamante è rappresentata dalla famosa fontana col frut to a forma di vagina, simbolo chiave di tutta la scuola. Come l’«origine del mondo», la tavola di Courbet, questa opera offende i filistei dell’epoca per l’audacia della sua rivelazione. Come fonte feconda di tutti gli esseri viventi, essa sembra librarsi maestosamente al di sotto di un sole mobile e come una divinità arcaica essa ammira il suo riflesso sulla superficie colma di acqua. Questa immagine sovrapposta è ancora accentuata dalle cupole ovali che coprono le sale dei corsi che sono per Porro, con i loro lucernari appuntiti, simili ai seni di una donna gigantesca. In questa specie di «città che diventa eros»(15) la sensualità dell’insieme delle costruzioni in mattoni con l’ocra patinata delle superfici curve, in contrasto con il verde intenso della vegetazione posta all’interno degli interstizi, ricorda e celebra il carattere meticcio, spagnolo ed africano della cultura cubana, rivendicato per la prima volta anche nel mondo dell’architettura.
Nelle sue opere successive l’architetto sviluppa spesso questa vena antropomorfa, come nel progetto del villaggio degli artisti di Vela Luka nell’isola di Korçula nel Mar Adriatico (1969) o al centro dell’Arte a Vaduz nel Liechtenstein (1970).
Simile a grandi linee alla scuola delle Arti Plastiche, la sorella dedicata alla Danza Moderna si trova all’opposto dal punto di vista della sua forma e del suo contenuto simbolico. Infatti, contrariamente alla prima, tutte in curve dolci e colori vellutati, questa scuola, con le sue forme stridenti e il suo bianco sgargiante, sembra uscita da un cataclisma prometeico. Un certo effetto di esaltazione nello spazio dell’ingresso è indotto dalle volte la cui espansione sembra trattenuta da possenti pilastri posti in modo apparentemente casuale, ma già in mezzo a questa area un bacino a forma di crepaccio ricorda l’immagine di un bicchiere rotto, esploso.
Con questo discorso poetico l’architetto suggerisce l’ambiente di questi anni di euforia in cui creatori quasi sconosciuti si sentivano sull’orlo di un baratro. Una schiera di pilastri nei portici a zigzag conduce alle sale da ballo i cui triplici confini con grate concentriche e il rigonfiamento delle volte amplificano lo spazio ed esaltano i movimenti centrifughi delle coreografie. Ma è a partire dalla torre dell’ultimo ordine di palchi che l’architetto ha voluto che si percepisse l’insieme della scuola. In questa visione a volo d’uccello le volte delle sale da ballo, le nervature a tela di ragno in origine piene di buganvillee di un porpora intenso che irradiano i lucernari bizantini compongono un paesaggio inaudito: il miraggio di una città appartenente ad una civiltà sconosciuta, inghiottita da un terremoto.
L’universo caotico scoperto nella scuola di Danza è quasi immediatamente adattato al suo progetto per il Kursaal a San Sébastien (1963) che, con la violenza della sua vetta, prefigura i suoi progetti più tardivi come la scuola della Gendarmerie a Plaisir (1991), il Commissariato di Polizia di Vélizy (2004) e perfino le opere di qualche architetto «decostruttivista» attuale….
Molto prima che le scuole venissero finite, il processo di burocratizzazione del regime aveva assunto proporzioni tali che le opere diventarono totalmente incomprensibili ai finanziatori e la loro esistenza divenne perfino scandalosa ai loro occhi. Dopo essere stato maltrattato dai critici ufficiali che lo incolparono di essere il residuo di una cultura borghese decadente, Porro fu obbligato a lasciare sia il cantiere che l’insegnamento dell’architettura e ad abbandonare definitivamente il paese nel 1966. In seguito, stabilitosi a Parigi, egli ha continuato fino ai nostri giorni ad insegnare e costruire, facendo maturare il linguaggio architettonico abbozzato a Cuba nei numerosi progetti e scritti. Grazie alla loro crescente notorietà internazionale le scuole d’Arte dell’Avana e i loro architetti sono stati ufficialmente riabilitati soltanto in tempi recenti, ma il processo di riflessione sulle cause dell’insuccesso dell’utopia non è ancora iniziato.
David Bigelman. Architetto DPLG (diplômé par le gouvernement), dal 1972 al 2008 è stato professore all'Ecole d'Architecture de Paris Belleville.
Note
1 R. Porro, Les cinq aspects du contenu, Parigi, 1990.
2 E. Panofsky, Studi di iconologia, Einaudi, Torino 1975.
3 R. Porro, op. cit., pp. 60-64.
4 Ibid, pp. 70-94.
5 Ibid, pp. 96.
6 L. Hautecoeur, Mistica e architettura. Il simbolismo del cerchio e della cupola, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
7 C-N. Ledoux, L’architecture considérée sous le rapport de l art, des moeurs et de la législation, Parigi, 1804.
8 R. Porro, op. cit., p. 110. In privato, Porro precisa che la sua interpretazione è soggettiva e che Mies probabilmente non era per niente consapevole di questa possibilità, per poi inoltre aggiungere che tutte le grandi opere d’arte sono veramente piene di significati ed alcune di esse possono addirittura essere indipendenti dalla volontà dei loro autori.
9 Ibid, p. 112.
10 R. Wittkower, A counter-project for Bernini’s Piazza San Pietro, Journal of the Warburg Institute, III, N° 1-2, Londra, 1939-40.
11 R. Porro, op. cit. p. 112.
12 Ibid, pp. 122-154.
13 R. Wittkower, Arte e architettura in Italia. 1600-1750, Einaudi, Torino 1958.
14 K. Bastlund, José Luis Sert, architecture, city planning, urban design, Zurich 1967.
15 R. Porro, Oeuvres, Parigi 1990, p. 24.
Casa Coloniale, L'Avana, XIX secolo