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Paola Scala
Smart-city e architettura spettacolo. La pubblicità di un noto vino italiano che ha trasformato le nostre città in “vigne-verticali”
Abstract
Partendo da un articolo di Vittorio Gregotti dal titolo “le ipocrisie verdi delle archistar”, il paper si concentra sulle reali possibilità che il tema della smart city può offrire a una ricerca architettonica più consapevole del proprio ruolo ma anche più capace di accettare le sfide della condizione contemporanea. Una ricerca dunque che, se da un lato non cede all’accattivante fascino di slogan alla moda, dall’altro, non si rifugia in certezze universali e astratte utopie.
Testo
In linea con le direttive Europee del programma Horizon 2020, il tema delle “Smart Cities and Communities and Social Innovation” rappresenta, in Italia, una priorità strategica per l'intera politica nazionale di ricerca e innovazione. Nell’aprile del 2012 è stato istituito L’Osservatorio Nazionale Smart City. Gianni Di Dominici, direttore del Forum PA sostiene che una città è intelligente se ha sviluppato tre caratteristiche principali: quella economica, che si traduce nella presenza di attività innovative e di ricerca in grado di attirare capitali economici e professionali; quella umana e sociale - una città è smart quando sono smart i suoi abitanti in termini di competenze, di capacità relazionale di inclusione e tolleranza (Di Dominici 2012); infine una città è intelligente se è caratterizzata da una governance in grado di favorire e promuovere la partecipazione attiva di tutti gli attori coinvolti nei processi e nelle azioni che modificano la struttura materiale e immateriale della città . Una volta superato l’equivoco della “tecnologia” intesa come fine e non come strumento del processo di trasformazione della città “da city a smart city”, è forse questo il momento in cui gli architetti sono chiamati a riflettere sul loro ruolo in questo processo. Ma a “quali” architetti è richiesto questo sforzo?
Nessuno pensa che l’Architettura possa essere considerata una sommatoria di specialismi, tuttavia non c’è dubbio che nell’attuale panorama della ricerca è indispensabile che ciascuna disciplina sia in grado di definire con chiarezza il proprio punto di vista. Carlo Ratti, fondatore del MIT Senseable City Lab, definisce “intelligente” una città tecnologica e interconnessa, pulita e attrattiva, rassicurante e efficiente, aperta e collaborativa, creativa e digitale e infine, last but not least, green. In un’intervista dal titolo « le ipocrisie verdi delle archistar » Vittorio Gregotti sostiene, citando a sostegno della sua tesi la prefazione di Guido Martinotti al libro Green Metropolis di David Owen, che molte delle ricerche più recenti in architettura nascono da “equivoci” circa le responsabilità delle concentrazioni urbane sull’ambiente e da “pretestuose” interpretazioni circa i concetti di “green”, “smart”, “eco” che riducono ad affascinanti immagini e icone, problemi (e questioni) assolutamente seri e reali ma certo dai quali non è, né potrebbe essere, legittimo dedurre una nuova morfologia organizzativa della città e ancor meno una forma architettonica delle sue parti. La deduzione è sempre una metodologia anticreativa (Gregotti 2011). Se dunque alcuni sostengono che il fenomeno dell’architettura spettacolo e delle stupefacenti immagini che ha caratterizzato gli ultimi anni si stia esaurendo, altri temono che esso si stia soltanto “trasformando”, utilizzando proprio le grandi questioni “contemporanee” - l’emergenza ambientale e la crisi economica- e le possibili risposte messe a punto in altri campi del sapere - le potenzialità insite nelle nuove tecnologie “intelligenti”- per costruire nuove “icone”, nuovi slogan da diffondere in maniera a-critica su tutto il pianeta. Le parole di Gregotti, da un lato richiamano l’attenzione sui pericoli connessi a un’architettura che declina temi e problemi di scala internazionale come una “maschera” accattivante e sorprendente, che nasconde il “vuoto” di contenuti che la nostra disciplina sembra (ancora) attraversare e dall’altro, rappresentano un invito a tornare a riflettere sulla forma fisica degli edifici e dei vuoti, sul loro “carattere” inteso (ancora) come il segreto più prezioso dell’architettura (Quatrmère de Quincy, 1832) capace, attraverso la forma della pianta e dell’alzato e l’equilibrio delle masse, di definire il significato e l’identità dei luoghi.
Tuttavia una ricerca architettonica che voglia realmente interrogarsi sul suo senso e sul suo significato rispetto alla realtà, materiale e immateriale, nella quale si sviluppa e sulla quale vorrebbe minimamente impattare, non può fare i conti solo con il suo “più recente” passato o con la sua attualità, ma deve necessariamente spingersi più indietro. Se è vero che negli ultimi anni l’architettura si è misurata prevalentemente nell’ambito di una dimensione estetica, completamente indifferente a quella “etica” e se è vero che il recupero di quest’ultima non può tradursi in un’ adesione acritica ad un’architettura che trova le sue ragioni al di fuori della disciplina, è altrettanto vero che bisognerebbe interrogarsi un po’ meglio sulle ragioni che hanno portato all’attuale situazione. Al di là dei singoli protagonismi, delle fascinazioni subite per l’avvento di “nuovi” strumenti capaci, prima di generare nuove forme sorprendenti e inedite e poi di giustificare l’arbitrario attraverso “parametri” che assicurano l’equilibrio energetico piuttosto che la fattibilità economica, le ragioni del disimpegno prima e della fuga verso altre e più rassicuranti “certezze” poi, possono forse essere trovate anche nel fallimento di quelle idee di architettura e di città nelle quali avevamo ciecamente creduto negli anni ’60 e’70. Le grandi utopie urbane realizzate in quegli anni si imponevano sull’esistente con l’imperante rigore della propria geometria astratta, con il “fuori scala” non solo dei propri edifici ma anche dei vuoti urbani che rimandavano alla monumentalità di concetti spaziali desunti dalla storia come le acropoli, le agorà e le piazze. C’era in questi progetti l’ambizione di creare spazi destinati a un nuovo uomo–tipo che da questi stessi spazi doveva essere “educato” all’abitare e al vivere contemporaneo. Se dunque da un lato appare lecito richiamare l’architettura al suo ruolo e alle sue responsabilità sociali, è altrettanto importante preoccuparsi che questo nuovo impegno riparta anche dalla consapevolezza e dall’accettazione dei limiti e dei fallimenti di una stagione in cui le scelte architettoniche venivano imposte dall’alto e dall’adesione ad una pratica del progetto “dal basso”, più attenta agli individui e alla specificità dei contesti. Forse la città-intelligente può rappresentare il campo d’azione di una ricerca architettonica più consapevole ma anche più capace di accettare le sfide della condizione contemporanea.
La smart-city è un “territorio vasto”, il “luogo di incontro” di numerose competenze che devono trovare una sintesi. Muovendoci nell’ambito dei settori ERC il termine “Architecture” è rintracciabile tanto nel campo delle “Social Sciences and Humanities” come in quello delle “Physical Sciences and Engineering”. Mentre alcuni “settori disciplinari”, come la tecnologia, l’urbanistica o anche il design hanno individuato con chiarezza il proprio campo di azione rispetto alle questioni poste dal cambiamento in atto nelle nostre città, il fronte dei “compositivi” rischia ancora una volta improprie sovrapposizioni. Nella smart-city l’informazione è “materia prima”, una città intelligente è fatta da cittadini più informati, più consapevoli e capaci di avere parte attiva nella gestione del quotidiano così come nella prevenzione delle emergenze. Le nuove tecnologie sono parte integrante nella vita di questi individui 2.0, ma se il passaggio dalla city alla smart-city dal punto di vista dell’architettura significa soltanto rivestire i nostri edifici di una pelle “sensibile” in grado di comunicare messaggi, portando all’estreme conseguenze l’estetica postmodernista, o utilizzare la domotica per costruire edifici in grado di autoregolamentarsi per evitare sprechi, allora forse non abbiamo più molto da dire. Al contrario se questo passaggio investe la trasformazione di spazi e aree di margine in luoghi, la loro con-formazione fisica, il loro dimensionamento, la loro dis-posizione e la loro relazione allora per l’architettura si aprono nuove prospettive di ricerca.
Significativa da questo punto di vista appare l’ “invenzione tipologica” delle water squares progettate dal gruppo di ricerca olandese De Urbainsten e presentate alla biennale di Rotterdam del 2005, intitolata per quell’occasione “The Flood” e dedicata al rapporto tra l’acqua e la città. Le “water squares” sono spazi multifunzionali e flessibili, progettati per diversi tipi di utenti. Per la maggior parte dell’anno queste piazze sono luoghi asciutti e usati come aree attrezzate per lo sport e il tempo libero. In caso di piogge intense l’acqua raccolta dalle superfici impermeabili limitrofe viene convogliata in questo “bacino” dove viene trattenuta fino a quando il sistema fognario non è in grado di consentirne il regolare deflusso. Nel libro-fumetto (molto smart!) che racconta l’esperienza delle water-squares, Florian Boer, fondatore del gruppo De Urbanisten, sottolinea l’ intelligenza di un’idea creativa e innovativa che aderisce alla volontà di trasparenza dell’amministrazione rendendo “visibile” il denaro destinato alla realizzazione di infrastrutture per la gestione delle acque piovane. Generalmente questo tipo di opere si traduce in cisterne e bacini sotterranei che sono nascosti al cittadino, mentre nel caso delle water - squares diventano spazi pubblici che oltre a migliorare la qualità ambientale e urbana incrementano il senso civico e l’identità della comunità. Inoltre, le piazze non sono pensate come frammenti isolati ma sono parte di una strategia più ampia che è quella del “Rotterdam Waterplan 2”, il piano di gestione delle acque di Rotterdam che prevede entro il 2035 la realizzazione di un numero di water squares, distribuite in tutte i distretti della città, sufficiente ad raccogliere 570 milioni di litri d’acqua.
La sperimentazione è stata avviata su un piccolo numero di piazze, in modo da valutare l’efficacia tecnica di questa soluzione e solo successivamente l’esperienza verrà estesa all’intera città. Nate sull’onda dell’emergenza legata ai cambiamenti climatici questa nuove “forme urbane”, dai caratteri diversi e compositi, strutturano una rete distribuita su tutto il territorio di Rotterdam, creano nuove centralità in aree periferiche ma soprattutto alludono a un’idea di spazio pubblico “smart”, non inteso cioè come forma monumentale portatrice di memoria e novella interpretazione di antichi archetipi ma come struttura di relazioni in continuo mutamento, flessibile e aperta ad accogliere nuovi usi, nuove culture, nuove istanze. Parafrasando Manuel Gausa potremmo sostenere che la questione della città SMART accompagna, dunque, il passaggio dall’antico spazio pubblico, rappresentativo e unitario all’attuale spazio relazionale, più versatile interattivo e ambivalente (Gausa 2013) e forse anche quello dell’architettura da disciplina autonoma e\o arbitraria a parte integrante di una ricerca consapevole sul territorio e la città contemporanea.
Bibliografia
Boer F. (2010); De Urbanisten and the wondrous water square, Publishers, Rotterdam.
Owen D. (2010); Green metropolis. La città è più ecologica della campagna?, Egea, Milano.
Gausa, M. (2013); “Rinaturalizzare la multi-città” in Ricci M. (2013), Nuovi Paradigmi, LISt, Trento.
Gregotti V. (2011); “le ipocrisie verdi delle archistar”, sul Corriere della sera,18 febbraio.
Koolhaas, R., Boeri S. (2001), Mutation, Actar, New York.
Quatrmère de Quincy A. Ch. (1832), Dictionnaire historique d'architecture, trad. it Teyssot G., Farinati V. (a cura di) (1985), Dizionario storico dell’architettura, Marsilio, Venezia.
Ratti.C. (2013); Smart city, Smart citizen, Egea, Milano.
Sitografia
Di Dominci G. (2012); Smart cities e communities: l'innovazione nasce dal basso http://saperi.forumpa.it/story/65555/smart-cities-e-smart-communities-linnovazione-che-nasce-dal-basso