Abstract
L’articolo ripercorre il famoso asse della Castellana di Madrid come luogo rappresentativo del potere nella capitale spagnola, scegliendo di rileggere, dopo quarant’anni dalla sua progettazione, il noto intervento di Rafael Moneo quale uno dei momenti più significativi nella realizzazione di questo eccezionale fatto urbano. L’assetto planimetrico, il rapporto con il contesto, il carattere rappresentativo del muro in mattoni, via via fino alle scelte materico costruttive, sono riletti in funzione di questa interpretazione dell’asse monumentale urbano.
Nel corso della storia, l’architettura è stata uno strumento imprescindibile per la comunicazione di idee, dimostrando uno straordinario talento per apparire eminente, emblematica, rappresentativa, illustre, ecc. quando si tratta di trasmettere un messaggio di potere. D’altronde, la città, i politici, coscienti di questo potenziale, hanno saputo esigere da essa che rappresenti bene il suo ruolo. Pensiamo agli edifici che caratterizzarono l’Atene di Pericle, la Roma imperiale o quella dei papi, la Madrid illuministica, la Vienna liberale, la Mosca di Stalin (diversa da quella di Krusciov o di Breznev), la Barcellona di Maragall, la Parigi di Mitterand… Nel percorrere le capitali europee non risulta difficile discernere, leggendo tra le righe dell’architettura, i poteri che promossero la costruzione di alcune delle loro parti essenziali.
Indubbiamente questo è anche il caso del Paseo de la Castellana, l’asse che a guisa di spina dorsale attraversa Madrid da nord a sud. Nato nel secolo XVIII come Salón del Prado, l’originario Paseo andò trasformandosi in colonna vertebrale della città: verso sud, ramificandosi in un tridente che avrebbe affermato con il passare del tempo il suo carattere industriale e, verso nord, rappresentando la dignità della cultura e del potere economico schierando successivamente lungo il Paseo de Recoletos gli edifici rappresentativi della città ottocentesca. Ai primi del Novecento, Madrid non si oppose a quello che sembrava ormai essere un ordine gerarchico logico. E così, mentre a mezzogiorno la città è connessa alla stazione di Atocha e a uno sviluppo meno illustre, il Paseo de la Castellana, vale a dire, il prolungamento di Recoletos verso nord, presenta oggi in ognuno dei suoi tratti le tracce dei potenti impulsi che gradualmente le hanno dato vita. Nel punto in cui nasce, piazza Colón, gli edifici a torre di Rumasa (1967-76) costituiscono il portone di accesso a tutta una serie di costruzioni che contrassegnano il viale, che sfocia 6,5 km più a nord nel quartiere d’affari conosciuto come le Cuatro Torres, operazione speculativa sviluppata sui lotti di terreno dell’antica città sportiva del Real Madrid (2004-2009).
Percorrendo la Castellana oggi, e più concretamente il tratto che va da piazza Colón fino all’AZCA – il superisolato che ospita un enorme blocco di edifici per uffici e costituisce uno dei centri finanziari e commerciali più importanti di Madrid, concepito da Bidagor nel 1946, il cui master plan fu definitivamente approvato nel 1964 –, troveremo uno straordinario repertorio di edifici in altezza, frutto dell’allora vigente “Ley Castellana” (1953-78). Questa legge concedeva esenzioni fiscali del 90% del totale, per venti anni, alle aziende che se ne avvalevano, allo scopo di potenziare l’esecuzione del Piano Regolatore Generale di Madrid. In questo modo, molte aziende e società che avevano contribuito allo sviluppo economico negli anni sessanta comprarono lotti preziosi su entrambi i lati del Paseo de la Castellana, in larga misura occupati da villini – chiamati allora “hotelitos” -, e si proposero di dimostrare il proprio potere mediante la costruzione di edifici che, come fedele specchio dell’epoca, erano destinati a divenire icone della nuova tecnologia: i già menzionati edifici a torre di Rumasa, L’Unión e il Fénix di Gutiérrez Soto (1965), l’edificio IBM di Fisac (1967), il Banco de Bilbao di F. J. Sáenz de Oíza (1971-80), Bankunión di A. Corrales e R. Vázquez Molezún (1972-75), l’edificio Trieste (1972) o il Windsor (1974-78) di P. Casariego e G. Alas, la torre per uffici di M. Oriol e Ibarra (1974-78), l’Adriática di J. Carvajal (1978-79), etc. Scoprire adesso Bankinter di R. Moneo e R. Bescós (1972-76) tra le costruzioni che fiancheggiano questo tratto della Castellana è un’esperienza confortante. Intravederlo da calle Ortega y Gasset, sfruttando la pendenza della strada verso il bacino del ruscello Castellana che dette nome al viale, e osservare come l’elegante muro di mattoni si erge, silenzioso e nel contempo trionfale, dietro il volume delicato del villino del Marchese di Mudela, continua a essere, nonostante il passare degli anni, una grata sorpresa. Addentrarsi in calle Marqués de Riscal, lasciando indietro il fragore della Castellana, e recuperare la calma e il silenzio che i giardini dell’antico villino hanno saputo custodire, è una di quelle ricompense che talvolta l’architettura è in grado di offrire.
In quella “città del potere” che si affacciò per la prima volta sulla Castellana negli anni settanta, Bankinter decise di mostrare l’autorità dell’istituto bancario con una discreta eleganza e una densità di riferimenti che lo portarono a conquistare un luogo di rilievo nella storia dell’architettura spagnola. La prospettiva che nel tempo presente ci offrono i quaranta anni trascorsi dalla sua costruzione ci permette di verificare come la scelta di distanziarsi dagli interessi del momento connessi con il linguaggio o le tecnologie, privilegiando invece la volontà di rispondere mediante la disciplina allo specifico, abbia contribuito a fare in modo che l’edificio mantenga intatto un decoro inconsueto per quegli anni. La volontà dell’architettura di insediarsi senza stonature in un luogo già costruito, di risolvere i suoi problemi nel contesto, rispecchia quello scrupoloso rispetto nei confronti del patrimonio urbanistico e architettonico che riscontriamo anche in altri edifici posteriori di Rafael Moneo, come gli ampliamenti del Banco de España o quello del Museo del Prado, in cui l’architettura trova la sua ragione di essere nella città e nella funzione che in essa svolgerà.
Con quali strategie Bankinter riesce a ottenere la sua integrazione nella città, a entrare in dialogo con gli edifici vicini, a risolvere il programma ottenendo l’immagine di vigore e potere che l’istituto bancario aveva richiesto? In alternativa alle risposte degli altri architetti che si avvalsero della Ley Castellana demolendo gli antichi edifici presenti, in molti casi straordinari esempi di architetture aristocratiche, Moneo e Bescós proposero alla proprietà di conservare il villino esistente, sfruttando il volume consentito dalla normativa senza demolire la preesistenza. La determinazione di rinunciare a far prevalere la nuova immagine dell’edificio sulla città ottocentesca fu la prima di una serie di decisioni concatenate che risultarono cruciali per il progetto. La seconda consistette nell’addossarsi al muro divisorio dell’edificio residenziale adiacente situato in fondo al lotto, connettendosi così al costruito e consolidandolo. Questo vincolo di parentela doveva avvenire in modo tale che il nuovo volume non ostacolasse la visuale del palazzo contiguo. Il problema fu risolto ricorrendo a una direttrice obliqua che riduceva drasticamente la volumetria della nuova costruzione. Il taglio diagonale, autenticamente venturiano, generò una “prua” verso Marqués de Riscal che risultò efficace a vari livelli: esso infatti distanziava il volume edificato dal muro divisorio; trasformava il nuovo edificio in una parete verticale che fungeva da sfondo neutro per la delicata architettura del villino; infine contribuiva in modo sofisticato a manipolare la percezione dell’edificio, aumentando mediante la snellezza generata dal forzato scorcio la sensazione di altezza e monumentalità che l’istituzione bancaria richiedeva. Il progetto finì per essere, se vogliamo, la costruzione di un muro. E in un muro la definizione dei vuoti risultava essenziale. Oltre alla singolarità dei vani al piano di accesso, alla ripetizione rossiana che imprime la sua impronta ai piani destinati agli uffici, o alla generosità di quelli del retro ecc., quelli a doppia altezza corrispondenti alla zona adibita alla direzione esibiscono i bassorilievi in bronzo dello scultore Francisco López Hernández: pensati per essere percepiti con la velocità imposta dalla Castellana, alludono, con i loro ingarbugliati rami d’arancia, alla fertilità che ci si aspetta da un’istituzione prospera.
A partire da lì, il resto delle decisioni mirarono a sostenere un concetto già stabilito in modo estremamente chiaro: uno scultoreo svuotamento della “prua” al piano terreno permette di identificare l’ingresso e differenziarlo da quello del villino; un astratto pavimento di lastre di granito aiuta entrambi gli edifici a mantenere le loro rispettive autonomie, poiché ambedue vi si posano come oggetti indipendenti; la rampa di accesso al parcheggio, tra l’antica e la nuova costruzione, contribuisce a insistere su questa ricercata indipendenza nel separare fisicamente entrambi i volumi; l’utilizzazione dello stesso mattone pressato del villino crea una voluta continuità tettonica, cromatica e di tessiture. La perfezione nella realizzazione di questo astratto muro di calcestruzzo, concettuale, rivestito di mattoni senza malta che rivelano di non essere portanti per la delicatezza con cui sono stati disposti, è un deliberato gesto di distanziamento dall’estetica del brutalismo; architravi, davanzali e stipiti strombati per mettere in evidenza lo spessore del muro “romanico”, vengono ritagliati con nitidezza, evitando l’apparizione di altri materiali differenti dal mattone e dal bronzo.
Ragione, costruzione, forma, bellezza, potrebbero essere le parole chiave che oggigiorno sceglieremmo per definire Bankinter, un edificio ormai emblematico non solo per l’istituzione che rappresenta ma anche per la città di Madrid. Dal boom economico degli anni sessanta fino all’inizio della crisi attuale, Madrid è cresciuta incessantemente. Negli ultimi anni nuove aree occupate da banche e multinazionali si sono sgranate andando a colonizzare nuovi territori, come il Distrito Telefonica – un campus aziendale nella città – di Rafael de la Hoz (2004-2008), la città finanziaria del Banco de Santander – una banca trasformata in città -, di Kevin Roche (2002-2004), o la nuova sede del BBVA – un grande sole nascente a nord-est della città -, di Herzog e De Meuron, attualmente in costruzione. Anch’esse lasceranno la loro impronta in una città frutto di una società in continua trasformazione.
Il cinema offre in continuazione intuitivi vaticini sul futuro delle nostre città. Detroit, per esempio, ha prestato in varie occasioni la sua immagine reale di città fantasma in rovina: a Jim Jarmusch nel suo ultimo straordinario film Only Lovers Left Alive o a Paul Verhoeven in Robocop, che annunciava nel 1978 la pericolosa caduta delle grandi città nelle reti di esacerbate politiche neoliberalistiche. Vi è chi si è avventurato a stabilire avventati analogie con Madrid (il cartellone della nuova versione di Robocop del 2014 ha per sfondo le Quattro Torri). Noi preferiamo offrire una versione più ottimistica, recuperando alcuni episodi brillanti, come Bankinter, che hanno contribuito a fare sì che la Castellana sia capace di assorbire – con straordinaria magnanimità e versatilità – la diversità e disparità di una città in palpitante evoluzione.
Carmen Díez Medina è Professore Associato in Composición Arquitectónica presso la Escuela de Ingeniería y Arquitectura de la Universidad de Zaragoza. Laureata alla ETSA di Madrid, ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso la T.U. di Vienna. È attualmente coordinatrice del programma di Dottorato: Nuevos Territorios en la Arquitectura.