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Aimaro Isola
Enea e Anchise
A molti di noi, in fondo, tra amici, piace chiamarci con ironia Maestri.
Ciò ha un sapore antico, di governo del cantiere, di guida di maestranze: ma ora, più che prestigio, esser maestri sembrerebbe dare sicurezza e conforto.
Nel tempo lungo del disincantamento del mondo la devozione e l’ammirazione per la statura dei Maestri, per quelli nuovi, ma anche per gli Antichi Padri sembrano essere venute meno. Il Sublime, il non essere più all’altezza dei “forti” del passato, dei loro insegnamenti e delle loro etiche non ci spaventano più come terrorizzavano i romantici.
Disincanto verso la tradizione, verso l’idea del classico, dell’esemplarità, di una verità già data in qualche luogo. C’era una sacralità nel Maestro, ma come in ogni sacralità anche una “violenza”antica.
Il Maestro, come in un rito sacrificale, doveva custodire ed ostentare certezze per imporle. Doveva essere, infine, vittima sacrificale, nel tempo della emancipazione, da parte dei discepoli migliori, che ne facevano scempio.
Forse il Maestro diventa veramente Maestro nel momento in cui si ritira.
Mettendo in gioco se stesso si assenta come Maestro, cede il proprio spazio: è allora che il discepolo può aprire ed occupare uno spazio suo, può diventare se stesso.
“La virtù del Maestro consiste nel dare un dono che deve essere respinto”, dopo il sacrificio del Maestro “si avrà il grande meriggio”.
Da sempre il “vero Maestro” ed il suo sapere non solo è messo in dubbio, ma lui stesso incomincia ad ostentare il proprio dubitare. Socrate, come l’oracolo di Delfi, professando la propria ignoranza mira a creare, ingannandolo, uno stato di insicurezza nell’allievo (ma solo, Lui alla fine, darà la soluzione del quiz).
Uno strano nesso sembra tenere insieme, dall’origine, la fondazione e la progettazione di un luogo (città, casa, struttura) e la formazione del discepolo. La sacralità era attributo del Maestro, il culto ed il rito presiedevano in qualche modo alla conservazione, alla diffusione e alla tutela dei saperi, quindi alla formazione dei discepoli. Così anche il gesto che fonda e forma lo spazio costruito, che segna sulla terra limiti, traccia strade, appartiene, nel tempo, al sacro.
Formatività e Bildung sembrano ieri, ma ancor oggi, invocare una loro possibile trascendenza.
Se ormai da tempo insisto sul tema del paesaggio, sul valore euristico, ma anche effettuale che l’ambiguità stessa del termine veicola, è perché mi sembra di leggere, attraverso di esso, la storia e la messa in gioco dell’avventura della modernità ed il suo compimento. E’ proprio dal vuoto che la violenza ha creato sui nostri paesaggi nel tempo e recentemente, che si può aprire lo spazio travagliatissimo di un riscatto che si fa strada nel tempo. “Là dove è più forte il pericolo, là è anche ciò che salva”.
Paesaggio comporta koinè non soltanto di linguaggi, ma di generazioni, di ruoli, di discepoli e Maestri. Paesaggio che si protende nel nostro corpo come i nostri corpi si distendano nel paesaggio.
Corpus, plurale, non soltanto organico, ma connessione di res extensa e res cogitans .
Ecco che l’insegnamento diventa lavoro comune. Così la paideia raccoglie in sé il senso antico della philia , intesa non come generico altruismo, solidarietà, ma riconoscimento di un linguaggio e di un paesaggio comune, nello spazio, ma soprattutto nel tempo. Paesaggi che ci comprendono e che dobbiamo comprendere.
Il rapporto asimmetrico tra maestro e discepolo sembra rovesciarsi, così, in quello apparentemente simmetrico, intimo che si dà nell’amicizia: nella philia troviamo “l’altro come se stessi”, apertura dell’io al tu e dal tu all’io.
L’apparente simmetria dell’amicizia nasconde una dismisura, un disequilibrio una continua interrogazione che apre ad una misura nuova rivolta all’esterno, all’Altro. Tensione verso il fare, verso una felicità che una volta si chiamava eudaimonia , costruzione della polis.
Così guardiamo il mondo con ironia e píetas - che è rispetto per gli avi e per i Maestri, ma che può anche essere stima e amicizia per i figli - allievi.
Vorrei infine disegnare, a piè di pagina, un Anchise tombé en enfance, a cavalluccio sulle spalle di un figlio avviato a fondare nuove città, a cercare nuove avventure. Il vecchio è girato all’indietro verso Troia che brucia. Non vedo lacrime sul suo volto, ma un ammiccamento, un sorriso ironico, liberatorio (L’Angelo di Klee?).
Aimaro Isola
Già Ordinario di Composizione Architettonica e Progettazione Urbana è Professore emerito al Politecnico di Torino e Accademico di San Luca