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Luca Boccacci

L'INA-Casa in Emilia

Qualità dei quartieri popolari emiliani

 

Vittorio Gandolfi, Schema viario del Quartiere Montanara, Parma 1956

Vittorio Gandolfi, Schema viario del Quartiere Montanara, Parma 1956

 

Ricorre insistentemente nell’attuale momento di riflessione sulla città e sulle sue trasformazioni, la parola qualità (architettonica e urbana) a cui un’ampia congerie di operatori (primi tra tutti architetti e amministratori) si appella, e con una certa insistenza, nel tentativo di riuscire a conferire, finalmente, nuova bellezza alle nostre maltrattate città.

Così dal riscatto di parti urbane degradate alla riqualificazione di ambiti e spazi irrisolti, dalla valorizzazione di comparti dimenticati alla progettazione di nuovi quartieri ispirati ai più aggiornati criteri di sostenibilità (energetica, ambientale), eccetera, si sta dispiegando un diorama molteplice e multiforme di realizzazioni protese verso l’auspicato traguardo di un sostanziale miglioramento qualitativo (la tautologia è inevitabile) della città.

Che le nostre città risultino bisognose di cure, non foss’altro per governarne le fisiologiche trasformazioni, è un’ovvietà proclamata da tutti, ma se dall’enunciazione del male (per altro, nel merito, tutt’altro che scontato) si passa all’individuazione della terapia (magari capace di conferire la tanto auspicata qualità), allora la questione diviene ben più controversa, anche per quanto concerne le possibili chiavi di lettura.

Tanto che riguardando perfino all’interno delle tanto vituperate periferie delle nostre città, osteggiate fino all’improperio, certo discernendo caso per caso nel magmatico distendersi dell’edificato, è possibile estrarre alcuni casi importanti (e forse perfino virtuosi) proprio per la nuova qualità urbana (qualità ambientale, di ambiti relazionali, di qualità della vita della comunità insediata e magari anche qualità di disegno dell’architettura) che, in una particolare congiuntura storica, la cultura architettonica ha cercato, e a volte saputo, promuovere.

Ci si riferisce in particolare all’esperienza dei Piani INA CASA, su cui ormai esiste una crescente attenzione storiografica, che, ancorché suddivisa per settenni nel secondo dopoguerra, all’urgenza insorgente di corrispondere ai bisogni di una società civile da ricostruire (quali tra tutti quello di realizzare nuove case popolari da coagularsi nelle forme del quartiere), è si è cimentata col difficile compito di tentare di governare anche figurativamente il pervasivo cambiamento in atto. I nuovi insediamenti così si dispongono ricercando rinnovate modalità di radicamento, volta a volta diversificate, nel tentativo di istituire un nuovo rapporto architettura-città, traducendo un forte bisogno quantitativo in un fatto di natura anche qualitativa. Rapporto che, in controtendenza rispetto ai precedenti dettami del Movimento Moderno, rintracciava i legami delle proprie ragioni insediative anche all’interno della tradizione italiana (costruttiva, tipologica – la borgata, ecc. –, materica), coniugando dialetticamente certo imperante empirismo nordeuropeo, certo organicismo ma anche una sorta di razionalismo rivisitato, alla complessa situazione italiana.

Allora all’interno dell’ampio e composito panorama di realizzazioni INA CASA diffuse sul territorio nazionale, gli interventi nelle città emiliane acquistano una propria speciale significatività anche per le particolari qualità che, nei casi più importanti, questi assumono nel rapporto architettura del quartiere/costruzione della città.

Qualità che, per esempio, nel caso del quartiere Montanara di Parma si esprime, oltre alla propria conclamata riconoscibilità urbana, nella sua propensione diremmo poleogenetica di essere straordinario motore di urbanità (effetto del disegno di impianto, nonché dell’articolata polarizzazione dei servizi e degli spazi collettivi, a conferire qualità attrattiva ai luoghi del vivere comunitario); oppure quella che nel caso del Rosta Nuova di Reggio Emilia risiede anche nella capacità di riportare impianto e figura del quartiere nel solco della tradizione propriamente reggiana di fisiologica osmosi tra città e territorio, all’interno del quale, in organica complementarietà, il dispiegarsi delle attrezzature pubbliche costituisce il nucleo del vivere comunitario a scala non solo del quartiere ma per la città intera.

Una lezione, quella della stagione dei Piani INA CASA, con la quale crediamo sia ancora utile fare i conti per l’attuale cultura architettonica, nel rinnovato tentativo di rigenerare continuamente, anche nelle urgenze contingenti, i caratteri costitutivi autentici propri di ogni singola città.

 

Luca Boccacci, Docente a contratto in Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura di Parma

Franco Albini, Franca Helg, Enea Manfredini, Quartiere INA CASA Rosta Nuova, Reggio Emilia 1956-1960.
Nella home page:
Mario Pucci con Vinicio Vecchi, Edifici INA CASA in Viale Storchi, Modena 1950

Franco Albini, Franca Helg, Enea Manfredini, Quartiere INA CASA Rosta Nuova, Reggio Emilia 1956-1960. Nella home page: Mario Pucci con Vinicio Vecchi, Edifici INA CASA in Viale Storchi, Modena 1950