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Enrico Prandi
A. Rossi, Ricostruzione del Teatro Paganini, Parma 1964
Abstract
L’articolo, partendo dalla contingenza dei fatti che caratterizzano la nostra epoca, individua nel progetto della città compatta, la matrice di intervento per governare la decrescita della città contemporanea. Costruire nel costruito o intervenire nella città storica oggi deve essere l’occasione per ritornare a discutere alcuni dei temi della tradizione italiana riconosciuti come importanti nel dibattito internazionale della seconda metà del novecento) come lo sono stati il rapporto tra architettura e preesistenze ambientali (Rogers), una certa propensione alla costruzione della città attraverso Piani ideati in funzione delle architetture (Polesello) e la considerazione dell’architettura della città nella sua totalità (Rossi) e nelle sue parti (formalmente compiute) (Aymonino): il riconsiderare cioè la città come un’architettura di architetture (Canella).
L’Architettura, in quanto disciplina costantemente in rapporto con il mondo (culturale, sociale, economico) è soggetta ai mutamenti che in esso avvengono. A volte così dilatati nel tempo da rendere i cambiamenti non immediatamente percepibili se non attraverso lunghe restituzione storiografiche. A volte così repentinamente da imporre decisi ed a volte anche impensabili cambiamenti di direzione nel pensiero e nella ricerca architettonica e urbana. Ciò implica, come conseguenza indiretta, una selezione delle questioni teorico-pratiche ed un ritorno, tutt’altro che negativo, all’essenza stessa dell’Architettura.
Cosicchè in breve tempo l’opinione pubblica generale e specializzata sembra aver raggiunto un grado di maturità tale da rendere possibile il dibattimento su temi fino a pochi anni fa assolutamente impensabili. Dopo che negli ultimi anni in Italia ci si è occupati del tema generale della sostenibilità, del tema del costruire in altezza all’interno del grande problema dell’omologazione dell’architettura; dopo esserci occupati più della trasformazione urbana delle grandi aree periferiche che dell’architettura della città nel suo insieme, ecco ritornare prepotentemente, spogliato da qualsiasi (o quasi) tabu, il tema dell’architettura della città compatta.
Costruire oggi nei centri storici, oltre che a risuonare come un imperativo morale che pacifica ogni velleità di consumo del suolo apparendo così pratica sostenibile, appare persino possibile.
Persino perché si rileva spesso in questi casi di rivoluzione del pensiero un conflitto tra tempi diversi: il tempo dinamico della crisi e del cambiamento delle condizioni che richiede azioni tempestive e il tempo pressoché statico della burocrazia, delle norme e dei regolamenti (dei regolamenti e della normazione).
Chi oggigiorno volesse attuare una densificazione nel centro storico si scontrerebbe con un apparato normativo fortemente in ritardo con i tempi che a livello pianificatorio-previsionale ancora risente dell’impostazione falsamente positivista di fine secolo scorso. Fino a pochi anni fa, infatti, si è continuato a credere o si è preferito credere (ammettendo la buona fede) che la città potesse continuare la sua indiscriminata espansione verso la campagna perlopiù spontaneamente senza logiche complessive giustificabili ne di forma, ne di contenuto omettendo le prime avvisaglie del cambiamento, omettendo o travisando (ammettendo la buona fede) i dati concreti (economici, demografici, ecc). Si pensava che le città fossero destinate ad una crescita illimitata, ma soprattutto che il tema, nel frattempo tramutatosi in problema, della forma della città non esistesse o fosse ormai incontrollabile, ergo inutile da affrontare.
Chi, come il sottoscritto in questi anni, ha continuato a parlare di forma della città, come peraltro di morfologia e tipologia, ha finito per essere accusato di anacronismo, di arretratezza culturale, di essere (felicemente, aggiungo io) “fuori moda”. Tutto ciò mentre l’architettura internazionale affrontava, con esiti assai discutibili, i temi delle nuove città nei territori orientali in forte espansione demografica, delle smart cities di lusso, della continua competizione alla conquista di nuovi primati nelle forme e nelle dimensioni. Ciò, oltrepassando pericolosamente la soglia della carica figurativa del grattacielo di vetro di Mies, la carica utopica del grattacielo alto un miglio di Wright, la carica teorica del grattacielo della Chicago Tribune di Loos, solo per rimanere circoscritti su un unico esempio tipologico.
In questa condizione non è sufficiente limitare i danni congelando la situazione. Bisogna avere il coraggio di fare di più.
Il modello della decrescita riportato in auge recentemente da Serge Latouche è generalmente condivisibile, così come è possibile immaginare una derivata applicata alla città, la decrescita urbana, che si occupi di razionalizzarne l’uso attraverso specifici interventi (architettonici, edilizi, di recupero e trasformazione ma anche di nuova costruzione) anche gestionali al fine di ottenere un rapporto equilibrato tra città e campagna. Ovviamente per poter operare nella più completa consapevolezza è opportuno progettare la decrescita della città attraverso un approccio complessivo che tenga conto sia della funzionalità che della forma complessiva.
Senza nessun preconcetto il recupero e la trasformazione della città passano anche attraverso il recupero e la trasformazione del territorio nel quale, laddove se ne ravveda la necessità, bisogna operare anche trasformazioni inverse attraverso azioni di riprogettazione che possono prevedere anche demolizioni di parti cospicue. Un processo tanto coraggioso quanto rivoluzionario che la Regione Emilia Romagna nell’ambito dell’autonomia legislativa ha trasformato in strumento operativo (L.R. 16/2002 Norme per il recupero degli edifici storico-artistici e la promozione della qualità architettonica e paesaggistica del territorio) salvo poi applicarla in rarissimi casi. Tale legge contemplava interventi per l’eliminazione di opere incongrue definite come “le costruzioni e gli esiti di interventi di trasformazione del territorio che per impatto visivo, per dimensioni planivolumetriche o per caratteristiche tipologiche e funzionali, alterano in modo permanente l'identità storica, culturale o paesaggistica dei luoghi” attuati mediante progetti di ripristino e interventi di riqualificazione del paesaggio. Anche se non espressamente indicato si desume che tale norma avrebbe dovuto avere come campo applicativo privilegiato il paesaggio tra città e città, quello della dispersione e della conurbazione periferica.
Ciò che serve oggi, a distanza di solo un decennio dalla L.R. 16, sarebbe un apparato normativo che contemplasse una più flessibile possibilità di intervento soprattutto nelle aree considerate storiograficamente come sature ma che nelle odierne condizioni hanno un ulteriore potenziale da utilizzare strategicamente, a partire dai vuoti centrali che da temporanei, mentre le dispute tra conservatori e innovatori si consumavano, sono divenuti definitivi. A questo va poi aggiunto un deciso ridimensionamento del concetto di inviolabilità del centro storico
Costruire nel costruito o intervenire nella città compatta oggigiorno deve essere l’occasione per ritornare a discutere alcuni dei temi della tradizione italiana come lo sono stati il rapporto tra architettura e preesistenze ambientali<!--[if !supportFootnotes]-->[1], una certa propensione alla costruzione della città attraverso Piani ideati in funzione delle architetture<!--[if !supportFootnotes]-->[2] e la considerazione dell’architettura della città nella sua totalità<!--[if !supportFootnotes]-->[3] e nelle sue parti (formalmente compiute)<!--[if !supportFootnotes]-->[4]: il riconsiderare cioè la città come un’architettura di architetture<!--[if !supportFootnotes]-->[5].
Solo ora scopriamo che non abbiamo perso posizioni combattendo la battaglia di retroguardia in difesa dei valori più importanti della tradizione architettonica italiana. Purtroppo, però, abbiamo dovuto attendere che i nuovi maestri, i “nostri” maestri, cioè gli esponenti della generazione dei nati attorno agli anni Trenta, uno ad uno se ne andassero - prima Aldo Rossi, poi Gianugo Polesello, poi Carlo Aymonino ed infine Guido Canella - per recuperare un apparato teorico che tanto ha dato, ma che soprattutto tanto ha ancora molto da dare all’architettura italiana. E non solo.
<!--[if !supportFootnotes]-->Prandi Enrico è Ricercatore in Composizione architettonica e urbana alla Facoltà di Architettura di Parma e coordinatore del Festival dell'Architettura.
<!--[if !supportFootnotes]-->[1] Rogers Ernesto N., Il problema del costruire nelle preesistenze ambientali, relazione presentata alla Commissione di Studio dell’I.N.U. in preparazione del VI Convegno Nazionale di Urbanistica, ora in Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino 1959.
<!--[if !supportFootnotes]-->[2] Gianugo Polesello, La progettazione della città come architettura e come piano, in L’architettura italiana oggi. Racconto di una generazione, a cura di G. Ciucci, Laterza, Bari 1988.
<!--[if !supportFootnotes]-->[3] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966.
<!--[if !supportFootnotes]-->[4] Carlo Aymonino, Il significato delle città, Laterza, Bari 1976.
<!--[if !supportFootnotes]-->[5] Guido Canella, Un’architettura di architetture, in «Lotus» n. 7, 1970.
G. Samonà, Sede INAIL, Venezia 1950-56