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Luca Reale
Parlare oggi di città compatta ha ancora senso o ci riporta ad un dibattito superato e artificioso? Se ci riferiamo al contesto europeo il pensiero moderno, che ha prevalso sul piano dell’architettura e della tecnologia, fino a diventare lingua condivisa in alcuni campi (dall’arredo urbano ai mobili IKEA), si è dimostrato in fondo fallimentare nella pratica urbanistica. La pianta libera, che tanto successo ha avuto alla scala architettonica, non ha funzionato alla scala urbana.
Se la progettazione urbana appare in Italia priva di una regolamentazione adeguata, l’urbanistica sembra avere ancora l’illusione di potersi occupare essenzialmente dell’espansione, continuando a considerare quasi una contraddizione il contenimento del consumo di suolo. Sul piano normativo basterebbe in realtà ricalcare alcune legislazioni tra le più avanzate (Inghilterra, Germania, Olanda), sul piano culturale il tema comincia ormai ad essere considerato centrale anche nel nostro paese. Il lungo e complesso progetto di rivitalizzazione delle periferie delle grandi città – che impegnerà molte energie degli architetti europei nei prossimi anni – dà prova dei problemi di adattamento e trasformabilità, in una parola dell’incapacità di evoluzione, della città funzionalista. Pensata come modello, la città moderna cristallizzava lo spazio nella sua efficiente e calibrata struttura in cui viaggiavano separate funzioni e azioni dell’uomo. Le relazioni tra le parti erano affidate ad uno spazio aperto la cui apparente qualità intrinseca avrebbe dovuto garantire un ruolo connettivo. Curiosamente proprio l’abbondanza di uno spazio completamente pubblico, ma non sufficientemente strutturante, ha invece innescato un processo di degrado e abbandono determinato dall’assenza di responsabilità (è di tutti quindi non è di nessuno); a questo problema si aggiungevano la pressoché totale uniformità economico-sociale degli abitanti e l’eccessiva ripetitività di molte residenze economiche e popolari.
Il modello alternativo della città giardino, con la sua struttura e le sue regole di accrescimento si è presto confuso e dilatato in un indistinto sprawl, denunciando la sua matrice ideologicamente antiurbana, oltreché la propria fragilità costitutiva – “a diagram only”, è l’avvertenza che prudentemente Ebenezer Howard mette in calce agli elaborati grafici che illustrano la sua Garden City. Largamente diffusosi sul piano globale, lo sprawl in realtà non è un modello interno alle nostre discipline ma desunto da materie economico sociali e ben riassunto nell’ossimoro della nostra città diffusa. Se la città modernista, nonostante i suoi difetti può rappresentare oggi un’occasione di rinascita di alcune importanti parti di città - grazie ad un’ampia dotazione di spazio, alla presenza di attrezzature pubbliche e ad una chiara struttura di impianto - in questo secondo modello la tirannia del trasporto individuale su gomma ha generato alienazione sociale e culturale, ed è molto difficile immaginare una via di integrazione urbana per tali estese porzioni di territorio.
Appare invece evidente che oggi fattori come un’adeguata densità, un diffuso mix di funzioni e una coesistenza di ceti sociali differenti all’interno di uno stesso settore urbano siano condizioni non sufficienti, ma assolutamente necessarie, per poter parlare di un modello di città sostenibile. Tra le configurazioni urbane storicizzate non resta allora che tornare a riflettere sull’idea di città compatta europea, non tanto come un modello quanto una necessità, una condizione di partenza per ragionare sulla città contemporanea. Ad una sufficiente distanza temporale da revivals e postmodernismi, la città compatta sembra essere uno dei pochi esempi di permanenza nel nostro panorama urbano, certamente non nell’accezione pittoresca e neomedievale alla Krier o nelle proposte più storiciste del New Urbanism. La cultura della città europea, complessa e stratificata, ha trovato nella scansione dello spazio in isolati una forma non solo di durata e identità, ma anche un antidoto alla diseconomica e insostenibile città diffusa come alla generica ed estraniante periferia modernista. La rilettura dell’isolato urbano negli ultimi quindici anni e la sua ibridazione con la città moderna, in particolare in campo residenziale, rappresenta uno degli esempi più interessanti di sperimentazione architettonica e urbana. Se la città modernista era basata sulla pura ripetizione dell’edificio ottimale (per ventilazione, soleggiamento, dimensione e distribuzione degli alloggi) e la qualità urbana era affidata alla libera composizione dell’impianto più che alla qualità e alla differenziazione architettonica dei singoli edifici, la città compatta europea nelle sue esperienze recenti, semplifica molto lo schema urbano impostato su una griglia più o meno semplice, mentre la morfologia del blocco accoglie eccezioni e varianti: l’isolato così diventa aperto al paesaggio, passante e attraversabile anche dall’utente non residente, deformato in rapporto al contesto, dilatato a formare quasi un’unità di vicinato. La permeabilità urbana e la porosità morfologica diventano due aspetti centrali nel disegno del blocco urbano che non è più semplicemente desunto dalle regole insediative, ma centra molto spesso la sua qualità sul rapporto tra spazi aperti interni ed esterni, riportando in primo piano il tema della continuità tra progettazione architettonica e urbana e concentrando l’attenzione sull’interscalarità tra gli spazi, sui passaggi intermedi dal pubblico al privato. Ma soprattutto l’isolato contemporaneo fa proprie tutte le “conquiste” del moderno, definite, all’epoca, proprio in antitesi al blocco ottocentesco. Le esigenze dell’abitazione in termini di comfort ambientale (affaccio trasversale degli alloggi, soleggiamento della zona giorno, visuali interne, corretta distribuzione e flessibilità dell’alloggio) diventano prioritarie rispetto alle questioni urbane e del rapporto con il contesto. L’ibridazione è compiuta, l’isolato è ora progettato “dall’interno”, proprio come l’edificio modernista; la logica ottocentesca della città che si forma per blocchi a partire dal disegno delle strade, delle piazze, degli spazi urbani è completamente rovesciata, ma non più ideologicamente rinnegata.
Progettare l'isolato vuol dire infine lavorare sul riuso, sulla trasformazione o sulla completa sostituzione di manufatti o parti di città. Il riciclo del suolo urbano può diventare per gli architetti l’occasione per recuperare credibilità nei confronti della società attraverso l’elaborazione di idee innovative più che di soluzioni formali sofisticate ma spesso gratuite. La densificazione e l'innesto di nuovi frammenti nell'esistente, la ricompattazione delle periferie destrutturate, l’inserimento di attività diversificate nei tessuti più deboli e omogenei sono operazioni in grado di segnare una netta reazione all’insensato consumo di suolo degli ultimi venti anni; la città europea torna così a trasformarsi prevalentemente crescendo su se stessa, riutilizzando le proprie forme, reinventando spazi e usi delle proprie strutture.