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A. Rossi, G. Grassi, Progetto di concorso per l'Unità residenziale San Rocco a Monza, 1966
L'etnologo inglese James Georges (Georgos in greco significa contadino) Frazer ci racconta dell'attenzione e la sacralità con i quali i primitivi facevano uso del suolo, al punto che Shomalla, un vecchio profeta indiano, capo della tribù nordamericana dei Wanapum, resistette fino alla morte all'insistenza dei bianchi che lo volevano obbligare a lavorare la terra.
Nelle “Vite parallele”, Plutarco ci racconta che il primo gesto che Alessandro Magno compie per la fondazione di Alessandria d'Egitto è il tracciato con la farina bianca sulla sabbia del deserto del perimetro, che delimita la città. Per essere pragmatici, come ci richiedono i tempi, dovremmo recuperare almeno un po' di questa parsimonia e consapevolezza.
Nei paesi in cui il suolo a disposizione è poco, cioè nei paesi piccoli, come l'Olanda o nei paesi affollati, come il Giappone, la questione è stata posta con chiarezza fin dall'inizio. Nei Paesi Bassi, il Paese più densamente popolato dell'Unione Europea, fin dal 1965 lo Spatial Planning Act regola la politica fondiaria. In Olanda, la politica fondiaria precede quella urbanistica e la produzione del suolo edificabile è pubblica: la concessione in “diritto di superficie” consente al cittadino di costruire e mantenere la propria casa su un fondo, che rimane pubblico. (Marcelloni 1987)
Con i suoi oltre 35 milioni di abitanti, il territorio di Tokyo-Yokohama è considerato la più grande regione metropolitana del mondo. I 23 quartieri che costituiscono Tokyo in senso stretto danno alloggio a 8 milioni e mezzo di persone. Per amore di semplicità (ma anche per ragioni culturali e, infine, per cause di forza maggiore: lo spaventoso terremoto del 1923, le distruzioni di vaste zone del paese durante la seconda guerra mondiale) i giapponesi hanno deciso di non preoccuparsi della conservazione del proprio patrimonio storico architettonico, di non dare peso a termini come “struttura urbana” o al concetto di “permanenza” e di considerare il suolo come un piano, sul quale i manufatti possano essere demoliti e sostituiti, ogni volta che occorre. Mediamente il ciclo di vita di un edificio è di circa 20 anni, dopo di che il suolo viene liberato e reso disponibile per un nuovo intervento di rinnovamento.
Da noi, si potrebbe parlare di “rintanamento”, piuttosto. L'italiano non si preoccupa dello spazio pubblico, finché il disturbo (o “rumore urbano”) non lo raggiunge in cucina. La sua preoccupazione non è tanto la qualità del paesaggio, quanto la difesa del proprio terreno edificato. La casa è piantata al centro del lotto il più lontano possibile dalla altre case, il recinto del lotto è il più alto e fitto che si possa immaginare, il volume della casa, ovviamente, è spinto fin dove gli indici di edificabilità non possono arrivare.
Io non dico che non si debbano integrare, rinnovare finanche sostituire gli strumenti che avevano guidato il disegno della città e dei nuovi quartieri residenziali nel secondo dopoguerra (e il piano INA-Casa), ma dico che bisognerebbe sostituirli con altri e non scambiare strumenti con nessuno strumento. Così come, se le nuove forme dell'organizzazione sociale non possono essere soddisfatte dagli schemi tipologici consolidati, questi possono essere reinventati e tradotti, finanche traditi, ma non devono venire meno le ragioni profonde, che li hanno generati. Tali regioni profonde, liberate dal pregiudizio e dai vecchi condizionamenti ideologici, erano l'idea di una città costruita per parti vecchie e nuove, complementari le une alle altre. I nuovi quartieri residenziali rappresentavano una “alternativa reale” alla frammentazione e alla pulviscolarizzazione della proprietà fondiaria e del suolo, alla città della speculazione edilizia e del “rintanamento”.
Ma forse questa è veramente un'altra storia...
Lamberto Amistadi, Researcher for the Faculty of Architecture of the University of Parma.