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La ricerca impossibile. L'immaginazione nel progetto di architettura


Editoriale
La ricerca impossibile.
L'immaginazione nel progetto di architettura


“La ricerca impossibile. Ovvero il teatro senza spettacolo” è il titolo del programma proposto da Carmelo Bene per la sezione teatro della Biennale di Venezia nel quadriennio 1988-92. L’intento era quello di promuovere “laboratorio e ricerca”, fare un “teatro senza spettacolo” in cui l’idea stessa di teatro veniva sottratta alle strutture convenzionali della comunicazione e della rappresentazione per restituirlo alla scena autentica del gioco, dell’arte viva e dell’espressione interdetta.

La ricerca impossibile in Architettura riguarda la convivenza al suo interno di una parte che può essere ascritta alle convenzioni e alle regole della rappresentazione, la sua natura tecnico-linguistica (téchne) e di un’anima (arché) di cui non si può dire e che appartiene alla sfera dell’arte e dell’espressione.

Il campo semantico in cui l’architettura è chiamata ad esprimersi è la città. È evidente come il nostro tempo sia caratterizzato da un istinto ipertrofico alla comunicazione, che J.L. Nancy ha definito “iper-rappresentatività”. Un istinto che nasce e s’impone alla nostra epoca nella misura in cui essa si convince che il significato, la bellezza e l’uso di ogni cosa possano essere ridotti a contenuti comunicabili univocamente. Contenuti tecnologicamente certificati messi a disposizione di tutti, senza ombre e ambiguità, eliminando ogni residuo d’ignoto, ogni eccedenza di spiritualità e intimità.

Nella città dell’architettura il contenuto espressivo non può essere comunicato analiticamente sotto forma d’informazione, ma lo può essere sincreticamente nella forma architettonica e nella messa in opera dell’immaginario simbolico-figurativo, cui essa si riferisce e che contribuisce ad inventare e riattivare continuamente. Tale parte fondamentale della natura urbana è affatto improduttiva: essa non produce niente, non comunica niente, non vuole spiegare niente. E, come per il teatro di Carmelo Bene, corrisponde alla sua parte più vitale: essa produce lo spazio “vuoto” in cui assumersi la responsabilità di esistere e di desiderare.

Per questa parte, la ricerca in Architettura è impossibile. Mentre tutti i programmi di ricerca nazionali ed europei richiedono la descrizione degli obiettivi finali, dei risultati da raggiungere e delle ricadute economiche, questa natura primigenia dell’Architettura (arché) può essere esperita solo attraverso la fascinazione espressa dalla forma ritrovata. Appartenendo alla sfera di “ciò di cui non si può parlare” e che non può essere comunicato univocamente, il contenuto espressivo dell’architettura non può essere oggetto che di un’esemplificazione di carattere persuasivo e fideistico, che abbiamo chiamato “prove figurative” e che corrispondono a progetti in grado di attingere a questo mondo sotterraneo ed invisibile di significati, di cui si nutrono e che sono illuminati dai desideri dell’uomo.

Questo numero di FAmagazine contiene sia articoli di carattere teorico, tra cui quello di Fernando Espuelas della Scuola di Architettura dell'Università Europea di Madrid, che altri più espressamente progettuali come testimonianze o “prove figurative” del tema in oggetto. Si tratta dei progetti del Teatro Elisabettiano di Danzica di Renato Rizzi, dei progetti per sei case, una piscina galleggiante e tre teatri dell'architetto newyorkese Jonathan Kirschenfeld e di una parte della città di Padova ad opera di Gino Malacarne.

Lamberto Amistadi, Ildebrando Clemente

 
Pablo Picasso, Las Meninas, 1957; Diego Velàzques, Las Meninas, 1656.

Pablo Picasso, Las Meninas, 1957; Diego Velàzques, Las Meninas, 1656.



Se Dante fa Beatrice novenne, è perché deve scriverne e perciò lei, gentilmente, non deve esistere. Che cos’è la bambina? Cosa non è, intanto? Non è donna. È deliziosa perché non è. Donna è. Ed è tutt’altro che “bello”. Fare delle bambine delle donne in minore è volgare. Questa Beatrice non è donna-lilliput; non siamo nel pigmeismo della femmina. Siamo nella mancanza della donna: disiata, purchè manchi, ecco.


Io dubitava e dicea “Dille, dille!”

fra me: “dille” dicea, alla mia donna

che mi disseta con le dolci stille;

ma quella reverenza che s’indonna

di tutto me, pur per Be e per Ice,

mi richiamava come l’uom ch’assonna.


La bambina non è. Attraverso la bambina, la donna stessa non è. Bisogna proprio non apprezzare questa età della donna che, non essendo tale grazie a lei, ci meraviglia. […] La bambina,provvidenza incosciente dell’onnipotenza, è un miracolo, perché, mancandosi come donna, è tuttavia reale e viva. È opera d’arte. […]. Bambina è la vita e basta; manca ed è: bionda, occhi azzurri verdi neri viola. […]Beatrice bambina. Beatrice è un nome e al tempo stesso un nome convenuto, quasi la cifra dell’innominabile. È quel che manca in un nome:


non sapeano che si chiamare


Trasalire in “Bea” e “ice”. È l’afasia della nominazione. La parola che manca in Beatrix (nella felicità).Se la parola è un dono in bocca a chi non l’usa per dire altro dalla parola stessa, che sarà mai smarrire la parola. E allora ecco che il vecchio Schopenhauer ritorna ancora quell’educatore che Nietzsche riconosceva: santa Cecilia – così il maestro chiude il suo superbo capitolo sull’arte – abbandona i suoi strumenti musicali e si lascia trascinare in cielo dagli angeli, fuori dalla tela stessa, dallo specifico della musica:


Che se ne fa delle armonie degli angeli,

quando ha trovato gli angeli in persona?

E allora ecco che l’infanzia bambina è l’afasia del nominare, è il venir meno della parola. È la fine dell’arte. Schopenhauer s’apre all’ascesi; io m’incanto in quest’attimo di grazia assoluta che non più gli artisti, ma soltanto i santi possono meritare. L’eroismo è superato. Bambina: parola perduta. Bambina presente = donna assente = parola che nel dirsi vien meno.


“Dille, dille!”


E allora la voce, che dalla tonalità maggiore, scende incontro al suo occaso nell’allegretto in minore, sola possibile tonalità per andare incontro alla bambina-vita che innocentemente ci corre diventando incontro; la voce perde la voce. La voce perde se stessa. Musicalmente si fa silenzio; e “qui l’arte vien meno / qui respirano la terra e il fato”. Si verificano solo i miracoli. Tutti il resto è scontato.


Carmelo Bene,LA VITA BAMBINA





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