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Carlo Quintelli
Peter Carl, Judith di Maio, Steven Peterson, Colin Rowe, Roma interrotta, Nolli: ottavo settore, L'Aventino e l'Orto botanico, 1978
Voltarsi indietro volgendo lo sguardo alla città costruita. Come a proporre una didascalia per un’immagine simbolica, pittorica (Friedrich), cinematografica (Kubrick) o letteraria (Yourcenar), capace di trasmettere un diverso modo di percepire la città, dove l’architetto gira le spalle alla campagna e contempla il già costruito del limite urbano. Voltarsi indietro può oggi significare numerose cose, tra cui: essere disponibili ad una diversa modalità di sviluppo insieme urbano e territoriale, senza equivoci sulla serenità di una decrescita (Latouche) da non intendersi in senso regressivo bensì evolutivo; individuare ancora una volta la città quale ambito fondamentale di elaborazione delle strutture antropiche collettive; riflettere sulle risorse spaziali e relazionali contraddette, o non comprese, di molta città mal-costruita che costituiscono già da oggi la materia prima di una possibile strategia progettuale. Inoltre, per apparente paradosso, l’attenzione interpretativa che si rivolge ad una struttura condensata e centrica quale quella della città costruita, può risultare la via più efficace per sollecitare il destino di una campagna solo così in grado di cercare una propria specificità fisiologica e paesaggistica. Infatti il rapporto città-campagna si riattiva efficacemente attraverso la peculiarità vocazionale delle parti, secondo una complementarietà che scambia e non compete, che confronta i caratteri e non li rende ambigui, e dove le forme spaziali giocano partite differenti: rispettivamente della densità e della rarefazione.
Come per l’angelo benjaminiano, il voltarsi indietro è un modo di avanzare non solo tra i fenomeni, dallo spazio territoriale dell’insediamento sparso alla città costruita, ma anche nella storia, attraverso la memoria dei luoghi e dei fatti che li hanno trasformati. In questo senso una maggiore riflessività storica del progetto torna ad imporsi, non tanto o solo sul piano iconico, ma su quello della conoscenza delle cose reali che la contemporaneità presenta ma non sempre spiega del proprio essere divenuta; un progettare con la storia, come ci ha insegnato Guido Canella, “in rapporto non solo allusivo ma anche strutturale”.
Di fronte a tale tema e alla sua complessità materiale, funzionale e formale, l’attitudine selettiva, introspettiva e critica del progetto non può non prevalere su quella desiderante e proiettiva, per altro comunque e sempre necessaria. Il procedimento compositivo non si avvarrà della scrittura, sulla pagina bianca dello spazio indifferenziato, ma della ri-scrittura, dell’appunto, della postilla. Il rapporto con la concretezza del costruito, e di chi lo abita, costringe l’interpretazione progettuale a penetrare i fattori strutturali del luogo, ne decanta la gratuità immaginifica contingente e, nella necessità di approfondire, ne ricava responsabilità etica.
Questa riflessione sembra allora suggerire alcune conseguenze: principalmente quella di adottare un approccio progettuale che prenda le mosse dagli interni, quelli, per intenderci, della corporeità urbana. Pervasivamente, attraverso gli spazi aperti pubblici, semi-pubblici e privati, il processo progettuale potrà operare una rigenerazione che si basa su funzionalità e forma dell’interiorità urbana. Un’architettura degli interni che affronti il deficit della città senza ricorrere a compensazioni espansive ma piuttosto per logica di modifica e sostituzione della propria struttura morfologica e funzionale, secondo modalità che affrontino prioritariamente il significato degli spazi rispetto a quello degli oggetti architettonici. Una strategia questa che, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, presuppone una città aperta e predisposta allo scambio con l’esterno proprio in virtù di una sua rivitalizzazione, di una rimessa in potenza del tessuto abitativo, non solo edilizio ma anche sociale, spesso inerte e perifericamente predestinato.
Operare per un’architettura degli interni della città costruita non può ovviamente ridursi ad un’utopia d’esercizio ne d’altra parte può affidarsi alla relatività dello spontaneismo fenomenologico, dove a volte la metafora del villaggio-favela dell’autocostruzione prevale sull’idea di città, anche all’interno di quella occidentale. E poi del resto, a ben guardare, oggi gran parte delle nostre periferie può già considerarsi “autocostruita”, nel senso di un’edilizia addizionata, particolaristica e completamente estranea alla dimensione problematica dell’affrontare un disegno complessivo di città. Il ruolo del progetto non può quindi essere ridimensionato semmai se ne cercheranno più adeguati statuti metodologici e modalità di sviluppo processuale. Dove la ricerca, come sempre nelle svolte evolutive dell’azione antropica, possa giocare un ruolo propulsivo e incondizionato.