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Anna Del Monaco
La sede dell'Architectural Association a Londra
Visitare scuole di Architettura come l’AA, non può che generare un forte effetto, persino maggiore che visitare altre scuole di simile orientamento, come la Columbia (NY), l’Angewandte (Vienna), la Sci-Arch (Los Angeles), cioè, scuole che esplorano per missione e per statuto i confini disciplinari dell’architettura, il discorso sull’architettura, lo specifico dell’architettura.
La struttura organizzativa dell’AA, l’appassionata vivacità cultuale dei docenti (indipendentemente dall’età), il numero degli studenti, l’ambiente fisico (nel caso dell’AA una casa a schiera di 600 mq a Bedford Square che ospita 500 studenti in totale) possano condizionare gli esiti del prodotto accademico, la possibilità di fare ricerca attraverso la didattica, la rispondenza e l’incisività di una istituzione nel dibattito internazionale. L’effetto dunque è quello della visita ad un luogo esclusivo, nato come club, come scuola serale, come associazione culturale, fondata nel 1847 nel quartiere di Bloomsbury da due apprendisti architetti ventiquattrenni che rivendicavano il valore dell’educazione artistica dell’architetto (in un momento storico in cui l’architetto in Gran Bretagna non era formato ufficialmente da nessuna istituzione, ma dagli studi professionali sebbene a pagamento), combattevano il sistema professionale, auspicavano la riduzione della distanza fra questo e il sistema delle accademie d’arte e reclamavano la possibilità di sperimentare ed esplorare novità e alternative al modo di fare architettura corrente.
L’Architectural Association continua da 150 anni a difendere il suo carattere di esclusività, la tradizione del cimento artistico in architettura, la formazione intesa come produzione di nuove idee contro la tradizione delle universitas intese come luoghi di produzione di “conoscenza passivamente acquisita” (secondo una posizione culturale ideologicamente ostile all’educazione gesuitica diffusa nel sud Europa) e l’aspirazione di formare intellettuali intesi come coloro che inventano le idee e non coloro che le utilizzano.
La profonda differenza rispetto ai casi italiani sta nel fatto che all’AA non esistono posti fissi e che su 120 docenti solo 5-6, provvisti sempre del classico contratto annuale, insegnano là da 30 anni, costituendo, inevitabilmente e appassionatamente, una Faculty. Essi non hanno diritto ad alcuna pensione da parte della scuola, non dirigono nessuna struttura, i programmi sono gestiti dai pochissimi 43-45enni, probabilmente i loro allievi migliori. Gli anziani quindi agiscono come garanti dell’identità, proteggono il carattere della scuola, l’atmosfera culturale, lo statuto, la tradizione a sperimentare in libertà. Il Motto della scuola è Design with Beauty, Build in Truth.
Potrà sorprendere che nonostante le cospicue tasse pagate dagli studenti (in media 15.000 pound all’anno) la prestazione dei docenti, quelli giovani soprattutto, sia pagata grosso modo quanto un assegno di ricerca italiano, per 2 giorni a settimana di lavoro. Certo i responsabili dei programmi, circa 7 docenti, avranno un contratto più consistente full time. Nel caso dell’AA i giovanissimi teachers (tutti fra i 30 e i 45 anni) rappresentano più dell’80% del corpo docente. Ciascuno di essi insegna spesso in altre università e fa attività professionale sperimentale e consulenze. Questa condizione è giudicata come occasione di arricchimento per l’AA, soprattutto se è svolta con successo e non viene per nulla ostacolata. Dà alla scuola la possibilità di scegliere quello che le serve realmente negli anni, all’interno di un chiaro progetto culturale che si rinnova ad ogni cambio di direttore.
L’AA difese tutto questo appassionatamente negli anni ’70, in un momento topico della sua storia, difese soprattutto la sua indipendenza dal tentativo di assorbimento da parte dell’Imperial College of London, rischiando di fallire e chiudere, soprattutto grazie al voto dei propri studenti che permise al Consiglio di rimuovere il direttore – che intendeva entrare nel sistema accademico formale – e di sostituirlo con Nicholas Boyarsky (ex studente) che traghettò per vent’anni la scuola verso l’attuale assetto, facendole conquistare il rango internazionale che oggi la caratterizza e, naturalmente, risollevandone le finanze.
Molte scuole europee, molte università e, in particolare, quella italiana, nascono nel quadro istituzionale della definizione delle professioni, con l’obiettivo di definire la figura dell’architetto come professionista equamente competente nelle discipline storiche, della rappresentazione e in quelle strutturali. Si tratta della tradizione dell’universitas Humboldtiana che, a confronto con quella delle Beaux art, è evoluta in organismi più complessi.
È evidente che l’oggetto e il soggetto di interesse, l’architettura e l’architetto, nei due modelli sono invertiti. Può sembrare una osservazione banale, ma gli effetti di queste diverse impostazioni non possono che essere radicalmente differenti e, per certi aspetti, inconfrontabili.
Certo non avrebbe senso replicare i “processi” dell’AA, non avrebbe veramente alcun senso con le nostre dimensioni e la nostra storia.
Tuttavia interessante sarebbe recuperare le parti più radicali e inesplorate del nostro passato, attorno a questi temi e, con naturalezza, lavorare sul nostro repertorio e con le nostre competenze e con le nuove tecnologie intese come generatrici di libertà di ricerca sul linguaggio. Tecnologie, condizioni e volontà di ricerca che forse mancarono attorno ai nostri maestri negli anni sessanta del secolo scorso, quando l’architettura italiana era ancora uncanny, fuori dall’ordinario.