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Eduard Bru, Enric Llorach
Joan Miró, Sans titre (Dessin-collage), 1934 (Galerie Jan Krugier & Cie, Geneva)
La crisi ha a che vedere con il cambiamento, non con la catastrofe.
I cambiamenti, spesso, si rivelano utili, se non addirittura necessari. Lo sarà anche questa crisi?
Per apprezzarlo dobbiamo prima staccarci dal luogo comune che spesso è concesso a tutto ciò che è "nuovo" attribuendogli valore di permanente, inevitabile, migliore... senza finire necessariamente nell’Angelus Novus di Benjamin!
Ricordo Cicerone e suoi migliori coevi. Dovettero passare più di mille anni per arrivare un'altra volta a un livello paragonabile di capacità intellettiva, discorsiva, intellettuale.
Nel frattempo, i pensieri fondamentali, come fondamentali sono molti dei recenti discorsi nel nostro ambito: l'architettura come esibizionismo. Nessuna riflessione sull'uso, nessun sistema, nessun fair play con l’insieme, nessuna armonia, nessuna misura, nessuna attenzione al passare del tempo o al cambiamento d'uso, nè all'idea di manutenzione e di una ragionevole cura del costruito: gesto solo, unico, archiripetuto.
L’architettura della trovata come l'architettura fascista che non lascia aprire le finestre - perché non le mette - mentre si riempie la bocca di argomenti sulla sostenibilità.
Sì, la tempesta della crisi non deve necessariamente portarci a una situazione peggiore.
Eduard Bru
Cercle d'Architecture Research Group
ETSAB UPC
http://cercle.upc.edu
”Forse i due pittori che hanno più influenzato il nostro secolo sono Pablo Picasso e Marcel Duchamp. Il primo per le sue opere, il secondo per un lavoro che è l'antitesi stessa della nozione moderna di opera d’arte."
Octavio Paz (1)
Scrivendo di pittura moderna, lo scrittore e saggista Octavio Paz ha introdotto Picasso e Marcel Duchamp come le due facce di una stessa medaglia. Secondo Paz, Picasso ha definito l’opera moderna mentre Duchamp l’ha rifiutata. L’opera del pittore catalano Joan Miró è frapposta (inserita/interposta) tra i due.
Quello che Paz potrebbe stare cercando di dire (starebbe dicendo), è che il lavoro di Picasso anticipa la critica strutturalista, mentre Duchamp anticipa l’apparato teorico del post-strutturalismo. Esattamente come Giorgio de Chirico punterà nella direzione di una critica psicoanalitica.
Ciò significa che Picasso interroga la natura linguistica della pittura mettendola continuamente in crisi. Attorno a un ideale classico e mediterraneo che si costruisce e distrugge a una velocità vertiginosa, Picasso decostruisce deriddaneamente la pittura fino a spogliarla di quello che è: una rappresentazione bidimensionale. Questo accomodamento disciplinare conduce al campo critico del pathos del lavoro e della personalità dell’autore. Questa domanda troverà più avanti il suo culmine nell’Espressionismo Astratto degli anni cinquanta americani.
Duchamp, tuttavia, interroga non tanto la natura dell’opera in sé, quanto piuttosto la sua gestione e la giustificazione istituzionale. Tale inclinazione nella concezione dell’opera è estremamente politica e spersonalizzata. E per fare questo, Duchamp deve distorcere l'immagine del suo autore, il genio moderno, fino alla sua sparizione virtuale.
Georges RAILLARD: Lei ora lavora sempre con gli stessi colori.
Joan MIRO: Il nero, il rosso, il blu, il giallo e il verde, mescolati con i due anteriori. E alcune piccole sfumature. (2)
GR: Si orienta attraverso le forme o immagina contemporaneamente i colori?
JM: Attraverso le forme. Il punto chiave per me è la forma. Se la forma è raggiunta al primo stadio, allora tutto è salvo. I colori vengono automaticamente. Per esempio, lì c'è un angolo che è rosso; dunque, rispetto a quest’angolo rosso, un’altra superficie della tela dovrà essere blu, rossa, ecc. (3)
L’opera di Joan Miró presenta un’interessante dicotomia: l'interpretazione del suo lavoro sembra collocata in un contesto puramente linguistico, nella creazione di uno stile, o meglio di una cosmogonia nel suo caso, la definizione di un nuovo linguaggio che gli è proprio, e di conseguenza unico. Ebbene, tale valutazione è corretta.
Cionodimeno, la prima opera di Miró è già un compendio di Picasso e Matisse, apparentemente incompatibili in quel momento, più l'influenza dei dadaisti che Miró aveva potuto conoscere a Barcellona prima della fine della prima guerra mondiale. In realtà, quello che fa Miró è a priori qualcosa di impossibile: unire Picasso, Matisse e Picabia.
Dall'incontro di Picasso e Matisse viene la lezione che è divenuta abituale per Miró, un lavoro alla ricerca di uno stile che si andrà perfezionando fino a spostare la pittura in altre forme, come la ceramica, gli arazzi e la scultura. Quindi non c'è molto di diverso da quello che aveva potuto fare Picasso nella sua fase tardiva.
GR: A volte sembra che lei sia più dadaista che surrealista ...
JM: Anche a me sembra così. Nel surrealismo ci sono cose che mi hanno lasciato indifferente, come l'aspetto eccessivamente letterario. (4)
Tuttavia vi è in Miró un’incrollabile radice dadaista che attraversa tutta la sua opera e recentemente ha portato alla critica e a una revisione delle sue posizioni più politiche. A differenza di Picasso, Miró ha una biografia quasi inconsistente. In una certa misura, la vita personale di Miró è paragonabile alla vita medio-borghese che i suoi genitori avevano immaginato per lui quando cercarono di farlo studiare contabilità e fargli dimenticare la pittura. Si sposò ed ebbe una figlia, questo è tutto.
Non è così per Picasso, su cui la critica non ha cessato di interpretarne le relazioni personali. Fino al punto di farle diventare, in una certa misura, reali. La bellezza di Fernande Olivier era bohemien, quella di Olga Koklowa classica, quella di Marie-Thérèse Walter spigolosa e atletica, quella di Dora Maar fotografica e documentaria, mentre la bellezza di François Gilot era mediterranea e quella di Jacqueline Roque era enfatica e stranamente iberica. E in ciascuna di quelle rispettive direzioni volgeva la pittura che le accompagnava.
Se si dovesse trovare un equivalente per l’opera di Miró, questo non sarebbe altro che il discorso sulla società di massa, della quale egli si sente parte, e che lo ha notevolmente interessato. Miró ricerca la possibilità di una pittura non borghese, cosa che non fu sempre possibile. Periodi come L'assassinio della Pittura (1929-1931), o Pittura Selvaggio (1934-1936), trovano un'interpretazione tutta interna all’ottica dadaista.
JM: In tutta la mia vita ho preferito l’aggressività. (5)
In questi due periodi Miró smette di dipingere per dedicarsi al collage, al disegno e ad alcune piccole costruzioni. Sono entrambi periodi di sfiducia verso la pittura come valido mezzo di rappresentazione, da un punto di vista politico e sociale. E ritornerà a essa solamente in modi più o meno tortuosi: come le immagini dalle cartoline acquistate in Olanda nel 1928 alcuni mesi prima del suo matrimonio, i dipinti fatti con il collage verso il 1932, o il ritorno alla figurazione oscura e premonitoria nel 1937 con il suo periodo chiamato Realismo Tragico. La sua fiducia nella pittura si interrompe spesso, senza trattarsi necessariamente di una esplorazione materiale, come la critica abituale ha voluto vedere il più delle volte. Queste crisi sono piuttosto esercizi di dadaismo esacerbato.
GR: La prima parola della conversazione è "catalano".
JM: E’ da quarantacinque anni che lavoro per la cultura catalana. (6)
GR: Forse il linguaggio delle forme, in un paese che ha subito una lunga censura ...
JM: E’ proprio così. Abbiamo dovuto lavorare sotto terra perché avevamo una museruola, (prosegue parlando con la mano davanti alla bocca), e ciò ha continuato a operare all'interno di ciascuno di noi. La poesia e la pittura hanno sostenuto la vitalità del nostro Paese. (7)
Così, per Miró, l'evoluzione sociale e politica dell'Europa, e in particolare del suo paese, la Catalogna, influenzarono profondamente e in vari modi il suo lavoro, il cui pathos si configura dal collettivo. Indubbiamente, questo vale anche per Picasso – basti ricordare Guernica (1937) - ma in Miró non sono casuali né l'assenza di una trepidante biografia, né i suoi famosi silenzi. Miró evita consapevolmente il suo ruolo di autore nella quale debba concentrarsi qualunque tipo di attenzione per reindirizzare il nocciolo della critica verso l’opera.
Tali periodi di crisi, così come le sue espressioni di forma, interrogano l’opera moderna con una retorica negativa: si domandano se la pittura è capace di continuare a costituire un mezzo adeguato per la rappresentazione della società di massa. E questo non è altro che la domanda che Marcel Duchamp aveva lanciato ben prima con i suoi ready-made, e che presto dovette abolire la pittura nella polemica nata attorno al suo dipinto ad olio Nudo che scende le scale, 1912. I suoi colleghi cubisti respinsero il quadro per non essere del tutto cubista e sì invece, e purtroppo per lui, qualcosa di futurista.
GR: Lei ha orrore dei musei.
JM: Oh, sì, oh, oh (smorfia). (8)
Cioè l'opera di Miro si sente interposta nel campo della critica tra Picasso e Duchamp, e questa è un'altra delle contraddizioni che Miró risolve egregiamente. Dopo il Miró creatore di mondi e idioletto che piaceva alla critica strutturalista, e anche dopo il Miró surrealista - Breton lo considerava il più surrealista di tutti – ci appare un Miró che va d’accordo con una revisione vicina alla critica istituzionale. La violenza latente in quasi tutta la sua opera, inoltre, non fa che rafforzare quest'ultimo punto di contatto con la critica.
GR: Non entra mai regolarmente in laboratorio?
JM: No, mai. La tensione è sempre più viva. Più invecchio, più forte è la tensione. Questo disturba mia moglie. Quanto più vecchio, tanto più divento matto, aggressivi o malvagio, se lo vuole sapere.
GR: Nel suo lavoro.
JM: Con le persone no. Per esempio, dico sempre a Dupin: voglio morire dicendo "merda". (9)
Tra le giocolerìe di Miró c’è quella di passare per un pittore egocentrico e quasi infantile, un pittore che non può ignorare in nessun momento un’interpretazione artistica di quello che è successo in campo politico. O anche, quella di passare per uno dei migliori pittori dall'uso del colore, all’escatologia, alla violenza latente, al disegno o al collage come alternativa al colore, e anche alla combustione dei tessuti.
JM: Lei sa che io amo molto gli animali e i piccoli insetti. Ero affascinato dagli insetti. Ricordo che la ragazza bretone, Simone, mi regalò un libro sugli insetti, il libro di Fabre. Mi appassionò. Sono affascinato da tutto: mosche, zanzare ... (10)
GR: Ma mentre siamo qui a parlare, senza una radio, forse hanno appena annunciato la morte di Franco. Questa scossa potrebbe mettere in moto qualcosa!
JM: Ah, sì! Ovviamente! (11)
Si tratta in definitiva un pittore permeabile a quello che lo circondava, dai più piccoli insetti nella campagna vicino alla casa di famiglia a Montroig a una guerra colossale come la seconda guerra mondiale. Miró prefigura anche, come altri pittori surrealisti della seconda generazione che si trasferirono negli Stati Uniti nel corso della guerra, il movimento artistico che trasformò la città di New York nella nuova capitale mondiale dell'arte: l’Espressionismo Astratto. Questo è stato il culmine per la critica strutturalista, che volle delimitare l'attività pittorica allo strettamente disciplinare. Una pittura che evitava la rappresentazione, il carattere bidimensionale, fatta di campi di colore e di ciò che i critici hanno chiamato all-over, una stesura più o meno omogenea di tutta la superficie del quadro.
Questa definizione tanto precisa di ciò che dovevano o non dovevano fare, fece sentire a disagio gli stessi artisti formalisti. Tuttavia, già nel decennio degli anni Cinquanta, altri artisti come John Cage, Robert Rauschenberg e Jasper Jones, ereditarono in gran parte il discorso di Duchamp con il quale si erano regolarmente frequentati a New York, dove vivevano. Il suo lavoro influenzò gli anni sessanta in alcune proposte che ricusarono quasi frontalmente il movimento che aveva dominato la decade anteriore, e che pure modificò sostanzialmente la critica di arte.
Il minimalismo, con Donald Judd e Robert Morris al timone, e molte delle cose che sono successe più tardi e che arrivano fino alle proposte più attuali, vennero già solo concepite nell'incontro dell’opera tra lo spettatore e il luogo. Per il minimalismo quella era l'opera d'arte: qualcosa di relazionato all'esperienza psicologica ma anche fisica di un spazio tridimensionale, vale a dire, un'esperienza architettonica. Fino al punto in cui il movimento immediatamente posteriore, il postminimalismo, tirò fuori le proprie opere dalle gallerie e dai musei per completare quelle esperienze in luoghi non mediati da istituzioni, come ad esempio nell’opera di autori come Robert Smithson, Gordon Matta-Clark o Dan Graham, che spesso manifestarono il proprio interesse per l'architettura.
Miró non fu mai un pittore pensieroso, allo stesso modo in cui è chiaro che gran parte delle proposte artistiche della seconda metà del ventesimo secolo si sono gradualmente avvicinate a ciò che è specificamente architettonico: il lavoro con lo spazio. Al giorno d'oggi ci sono molte proposte artistiche che non vengono concepite senza conoscere il luogo dove verranno esibite. Tuttavia, e benché risulti paradossale, l'architettura ha continuato ad allontanarsi da quello che costituisce il suo luogo naturale. L'architettura si è andata facendo come un fatto bidimensionale – immagine - per la sua condizione di architettura fotografata e trasmessa attraverso i media.
Ragioni di ciò si trovano nelle differenze tra le due discipline. In un contesto tardocapitalista, l'architettura, immobile, deve trovare un modo di pubblicizzarsi che sia in relazione con l'immagine riprodotta, ma anche, e con una grande conseguenza sulla progettazione architettonica, con il carattere iconico reclamato dalle leggi darwiniane della concorrenza del mercato. Pur non essendo un fenomeno nuovo – quello era precisamente il contesto dell’architettura modernista nella Catalogna della fine del XIX secolo - l'influenza del mercato ha guidato l’architettura, negli ultimi decenni del secolo scorso e all'inizio di questo, verso una corsa di spropositi iconici quasi sempre fuorvianti e di poca qualità.
E' dunque l'intersezione di due discipline in direzioni opposte, ove ciascuna di esse si allontana da quello che le è sempre appartenuto: l’arte si è diretta verso l’architettura evitando l'autonomia prescritta dall’epoca dell’illustrazione, ma anche l'architettura si è diretta verso l'immagine fotografica e infografica, cosa più simile alla pittura che si può trovare nel mondo digitale, meravigliosamente intuito da pittori tardoimpressionisti come Georges Seurat e Paul Signac nel XIX secolo.
Mentre i cambiamenti nel mondo dell'arte hanno presentato un’infinità di proposte valide, l’architettura-immagine, o architettura-spettacolo come è stata molte volte denominata, ha supposto un profondo indebolimento del discorso architettonico. E se l’irruzione della crisi economica restituisce l’architettura a un’intimità con il luogo e a un impegno per la qualità dei materiali e dello spazio, essa l’avrà restituita al suo luogo naturale.
(1) OCTAVIO PAZ, Apariencia desnuda. La obra de Marcel Duchamp, Alianza Forma / Era, Madrid, 1973, p.15
(2) GEORGES RAILLARD, Conversaciones con Miró, Gedisa, Barcelona 1988, p.108. Versión original Ceci est la couleur de mes rêves, Seuil, París 1977.
(3) Idem, p.114
(4) Idem, p.195
(5) Idem, p.75
(6) Idem, p.21
(7) Idem, p.165
(8) Idem, p.56
(9) Idem, p.35
(10) Idem, p.72
(11) Idem, p.44
Enric Llorach
Cercle d'Architecture Research Group
ETSAB UPC
Joan Miró, Collage, 1929 (Centre Pompidou, Paris)