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Guilherme Wisnik
Vilanova Artigas, Rodoviaria de Jau, San Paolo 1973
“Architettura paolista”, “Scuola paolista”, “Brutalismo paolista”, o “Brutalismo caboclo [1]”, sono alcune delle definizioni attribuite all'opera di un gruppo di architetti di San Paolo guidati da Vilanova Artigas per un ventennio a partire dagli anni '50 [2]. Le caratteristiche principali di questa corrente sono, l'adozione di un partito strutturale importante nella definizione della forma, l'abbondante impiego di calcestruzzo (armato o precompresso), l'uso di volumi compatti sovrastati da una copertura traslucida, la predominanza di testate cieche che ostacolano una relazione più diretta tra interno ed esterno, l'enfasi nella creazione di una particolare fluidità e trasparenza della spazialità interna che vede alternarsi patii, giardini o grandi vuoti capaci di introiettare attributi propri del paesaggio, ossia degli spazi esterni all'interno dell'edificio.
Realizzati in una città priva di bellezza naturale, caotica e costruita grazie alla potenza predatrice della speculazione immobiliare, questi edifici volgono le spalle al tessuto urbano, tentando di ricostruire – al loro interno – spazi per una nuova socialità: collettiva e austera. Si tratta di una città laboratorio. È proprio l'urbanità, infatti, ad essere l'orizzonte essenziale dell'architettura paolista, in radicale contrapposizione ai “soprammobili” propri della cultura borghese dell'abitare, che vede nell'”agorafobia” il complemento simbolico di un'ipertrofia dei valori legati all'intimità del comfort [3].
Che si tratti di abitazioni della classe media, di edifici scolastici, club o stazioni, per esempio, ognuno di essi è trattato alla stregua di una grande attrezzatura pubblica dotata di strutture che coprono grandi luci. In esse viene privilegiato l'impiego di rampe al posto delle scale “capricciose” e, nei casi più radicali, si arrivano ad eliminare le finestre nelle stanze da letto o nelle aule, si inseriscono pareti che non arrivano al soffitto e vengono utilizzati materiali scandalosamente urbani in ambienti domestici come accade, ad esempio, per il pavimento d'asfalto che, letteralmente, entra nel soggiorno della Casa Millan (1970) di Paulo Mendes da Rocha.
Pur tenendo conto del contrasto tra l'architettura paolista sopra descritta e la grande leggerezza di quella carioca che l'ha preceduta [4], è impossibile non notare una sorta di ridefinizione delle matrici dell'architettura del paese nel passaggio tra gli anni '50 e '60. Momento, questo, che tiene conto, alla stregua di una sorta di background, del profondo cambiamento – cui è attribuito il nome di brutalismo - dell'opera di Le Corbusier nel contesto economico e culturale del dopoguerra.
Ciò che accomuna le due esperienze è, in linea generale, l'uso del cemento armato come massa scultorea - alludendo ad una valorizzazione simbolica del peso e dell'opacità in contrapposizione alla leggerezza e alla trasparenza - nonché la messa in mostra dei segni del processo costruttivo (le venature del legno trasferite sulla superficie del cemento), facendo dell’edificio l’immagine della storia del lavoro dell’uomo).
Riassumendo, si nota in tutti questi “brutalismi” una riduzione espressiva dell'architettura alla sua realtà tettonica, all'interno di un'operazione estetica che si carica di istanze di carattere essenzialmente etico.
Artigas, tuttavia, non ha mai accettato di buon grado di essere definito “brutalista”, tanto da arrivare a ironizzare sulla definizione del critico italiano Bruno Alfieri che ha parlato della sua opera come una ricerca brutalista [5]
Se, da un lato, il brutalismo di Le Corbusier rappresenta un volontario passo indietro circa il progresso tecnologico proprio del Movimento Moderno, il brutalismo di Artigas si volge in avanti rispondendo alle specificità locali del Brasile per superare la sua arretratezza. In questo senso, il suo modello di sviluppo per il paese evita sistematicamente di cadere nella valorizzazione della creatività popolare o artigianale tipica di un'estetica terzomondista: Vilanova era, infatti, fermamente convinto che tutta la forza creatrice e trasformatrice dovesse partire da un progetto realizzato a partire da un corpus tecnico illustrato e supportato dallo Stato.
Guilherme Wisnik, Architetto e Docente alla Facoltà di Architettura di San Paolo del Brasile
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[1] Il termine caboclo non conosce una traduzione univoca e precisa in Italiano. Si avvicina a una certa connotazione data all'italiano “nostrano”; le accezioni sono tuttavia molteplici. Indica una commistione tra bianchi e indios, solitamente abitanti del cosiddetto interior. Contiene attributi di mescolanza e vita selvatica, è meticcio, mulatto. La definizione del caboclo, porta con sé altri due termini: Interior e Sertão Il termine interior fa riferimento in senso lato a tutto il territorio brasiliano lontano dalle città costiere, per questo, appunto, interno. Non comprende, tuttavia le città non costiere come ad esempio San Paolo, Brasilia, Manaus, Belo Horizonte. Il caboclo, abita il Sertão, che indica, in senso ampio, le zone dell’interno, lontane dalla costa, incolte e scarsamente popolate, caratterizzate dal predominio di una natura violenta e primitiva sull’uomo e sulle opere dell’uomo (definizione contenuta nel Glossario del romanzo di João Guimarães Rosa, Grande Sertão, Feltrinelli, Milano, 2007.[N.d.T.]
[2] Oltre a Vilanova Artigas è importante citare architetti come Paulo Mendes da Rocha, Joaquim Guedes, Carlos Millan, Fábio Penteado, Pedro Paulo Saraiva, Abrahão Sanovicz, Jon Maitrejean, Ruy Ohtake, Giancarlo Gasperini, Décio Tozzi, Sérgio Ferro, Rodrigo Lefèbvre, Flávio Império, João Walter Toscano, e, de certa forma, Lina Bo Bardi.
[3] Cfr. Walter Benjamin, Esperienza e povertà, in Franco Rella, a cura di, Critica e Storia. Materiali su Benjiamin, Cluva, Venezia, 1983
[4] Malgrado notevoli eccezioni, come l' edificio del Museo di Arte Moderna di Rio de Janeiro (1953), di Affonso Eduardo Reidy che può essere considerato un anello di congiunzione tra le scuole carioca e paolista.
[5] Bruno Alfieri, João Vilanova Artigas: ricerca brutalista, «Zodiac» nº 6, 1960.
Vilanova Artigas, Faculdade de Arquitetura e Urbanismo, San Paolo 1968