Il Dock 7 dello scalo 3 dell’antico Puerto Madero di Buenos Aires è stato per anni un deposito in disuso affacciato sulle sponde del Rio della Plata. Il suo recupero e riuso, avvenuto a partire dal 1995, ha reso un nuovo significato alla più generale risistemazione della passeggiata del porto fluviale, regalando così una nuova immagine della capitale argentina. L’intervento ha visto riportare a nuova vita tutti gli edifici dell’antico porto, ripensandoli come “contenitori funzionali metropolitani” in grado di ospitare in un unico involucro, spazi per il lavoro artigianale, abitazioni, commercio e attività professionali. Il presupposto del progetto partiva dal rispetto dell’impianto architettonico preesistente, luogo della storia di un importante pezzo di Buenos Aires, con il fine di ridare nuova dignità ad un’area urbana che aveva perso le sue funzioni e la sua vitalità, apportando così un nuovo sviluppo economico che ne fa, ad oggi, uno dei più ricchi e importanti luoghi turistici della città.
Stessa strategia si tenta di applicare, in questi ultimi anni, in un’altra importante città: il porto fluviale sul Rio Paranà di Rosario, all’interno del quale un edificio industriale viene ripensato come contenitore di funzioni miste che permetteranno all’intera area di riacquistare funzioni capaci di risolvere le necessità di una città contemporanea. Tra gli interventi si nota il riuso di enormi silos che oggi ospitano il museo di Bellas Artes, simbolo dell’intensa attività culturale della città latino-americana.
Negli interventi citati il comune denominatore è la riqualificazione di edifici, lascito di una fase industriale ormai sorpassata, che oggi hanno perso il loro motivo d’essere. In entrambi gli esempi l’alternativa sarebbe stata la demolizione, che avrebbe avuto costi notevolmente maggiori nonché problematiche di smaltimento dei resti, non sostenibile soprattutto da un punto di vista ambientale.
Lo studio economico degli interventi è stato di certo un aspetto decisivo nell’elaborazione delle strategie d’intervento, in un paese che, come l’Argentina, vive un’importante crisi economica che oscilla, con picchi più o meno drammatici, da ormai un ventennio.
Anche nel mondo occidentale, la crisi economica degli ultimi anni ha riportato alla luce i temi del “riciclaggio” dell’architettura. In Italia già da diversi anni si dibatte intorno a tali problematiche: nell’ottobre del 2003 usciva un numero de "l’industria delle costruzioni", a cura di Alessandra de Cesaris, che approfondiva quei temi oggi al centro di una esposizione in uno dei più prestigiosi spazi museali italiani (il MAXXI di Zaha hadid). Sicuramente, in questo momento storico, il mondo dell’architettura risulta molto più sensibile a quelle tematiche che appaiono come la possibile svolta per uscire dalla stasi paralizzante dell’economia, che lascia spazio solo ai grandi nomi supportati da enormi investimenti, i quali prediligono il packaging al prodotto d’architettura. L’enorme patrimonio immobiliare dismesso dall’industria e non solo, riacquista interesse in quanto in esso potrebbe essere contenuta la risposta al degrado di molte aree urbane, soprattutto periferiche, oggi interessate da una quasi totale assenza di qualità architettonica e paesaggistica. La risposta però contempla come unica possibilità il riuso e la rifunzionalizzazione di tali spazi, escludendo quindi ogni fenomeno di demolizione che causerebbe oltre a un maggiore impegno economico anche notevoli problemi ecologici legati allo smaltimento. D’altro canto la permanenza di enormi quantità di metri cubi lasciati in totale stato di abbandono non potrebbe considerarsi una risposta sostenibile nè da un punto di vista di uso di suolo, oggi bene così prezioso, ne a causa del degrado che tali edifici in disuso apportano alle aree urbane a cui appartengono.
In realtà la pratica del riuso dell’edilizia industriale dismessa contiene, nelle sue premesse, un fenomeno culturale che potremmo definire “spontaneo”: verso la fine degli anni ‘80 e per tutti gli anni ‘90 del Novecento fino ad arrivare ai nostri giorni, i relitti dell’industria sono stati il luogo dell’espressione artistico-culturale di un movimento giovanile globale e anarchico che si identificava attraverso la produzione di musica techno. Le TAZ (Zone Temporaneamente Autonome) trovano, all’interno dei “rifiuti architettonici” della società contemporanea, lo spazio adatto all’espressione del movimento culturale che ruota intorno al fenomeno della techno music. Edifici industriali come habitat naturale delle nuove forme d’arte, nel tempo, hanno quindi trovato una loro “struttura” riconosciuta ed hanno dato il via ad una serie di interventi che ad oggi hanno conquistato una loro definizione ed identità morfologica. La Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli utilizza gli spazi dell’antica fabbrica automobilistica torinese del Lingotto. Lacaton e Vassal nel Palais de Tokyo, edificio del 1937, nato per l’esposizione internazionale dismesso nel 1974, rimodellano e riadattano, alle necessità di un importante centro culturale, gli spazi bui e ridotti di ciò che nel 1985 era diventato un grande laboratorio destinato alle tecniche della fotografia. E infine il caso dell’High Line, infrastruttura ferroviaria newyorchese, oggi parco urbano che ospita eventi culturali nonché laboratori di vario genere.
Tali eventi, soprattutto legati al riutilizzo di organismi architettonici dismessi si legano con facilità a fenomeni che potremmo definire a più piccola scala: il riuso, o forse meglio il riciclo, è una prassi che ha visto nascere felici espressioni artistiche. Da Duchamp, che ribaltava un orinatoio per creare una fontana a Fernando e Humberto Campana che oggi progettano oggetti di design ricavandoli da utensili di vita quotidiana, prende il via la nuova sensibilità verso il problema degli scarti che, da materiale destinato alle discariche diventano la base per lo sviluppo di una nuova cultura ambientale che cerca di riparare ai danni del consumismo sfrenato. Lo stesso concetto si allarga alla scala maggiore degli oggetti architettonici riutilizzando gli stessi principi di economia e sostenibilità. E’ importante però notare che in architettura il riutilizzo del patrimonio costruito è un fenomeno che ereditiamo dal passato: quando si riutilizzavano i templi pagani per i nuovi luoghi sacri cristiani, quando la struttura del teatro di Marcello diventava il palazzo Corsini o semplicemente quando gli ambiti domestici romani diventarono gli spazi di vita privata nel medioevo, non si parlava di avanguardia strategica dello spazio urbano ma semplicemente di normale economizzazione dell’ambiente costruito. L’ambiente costruito è, ed è sempre stato, la “materia prima” dell’architettura, sia di quella residenziale attraverso cui tutte le città di lunga storia si sono stratificate e costruite, l’una sull’altra, sia di quella dei grandi edifici speciali che, dietro l’apparenza della novità, del fasto, della grande opera, celano sempre, un’attenzione “economica” al contesto, al preesistete, al già costruito, che va di pari passo con la complessità e la ricchezza architettonica del “nuovo”.
Anna Rita Amato, Architetto, dottoranda presso il Dipartimento di Architettura e Progetto della Sapienza Università di
Roma.