Se un fenomeno insediativo arriva ad assumere i connotati della città ciò appare evidente innanzitutto attraverso la sua caratterizzazione economica, quale fattore strutturale al tempo stesso determinante e dirimente. Determinante per la capacità di rendere dinamica e qualificata la materia insediativa nel divenire “città”, secondo uno sviluppo, nell’esperienza storica, prevalentemente ma non necessariamente espansivo. Dirimente poiché in grado di costruire identità attraverso fisiologie peculiari modellate sui fattori storico-geografici e di ruolo quindi anche di natura politica.
Nella classificazione di Max Weber ritroviamo una vera e propria personificazione della città attraverso il suo ruolo economico, ma sempre più oggi quel modello fisionomico sembra perdere di efficacia di fronte ai fenomeni globali di un’evoluzione capitalistica che ha alimentato l’insediamento diffuso, la replicazione dei tipi urbani, la liquefazione di un corpo unitario o perlomeno articolato di città.
In questa dinamica paradossale di massima relativizzazione e al tempo stesso omologazione del fenomeno urbano, appare però chiaro che dopo la fase espansiva e di sopravvenuta crisi del mercato causata dalla bolla speculativa immobiliare, il rapporto tra economia e città non può più realizzarsi attraverso i meccanismi sinergici coinvolgenti finanza, rendita fondiaria e settore immobiliare. Il processo di continua rigenerazione necessario al mantenimento dello status di città dovrà riappropriarsi delle sue funzionalità peculiari, tornando a farsi strumento di opportunità produttive, logistiche, rappresentative, contesto per contesto ma all’interno di una scena multi scalare delle relazioni urbane e territoriali. In parallelo, secondo una vocazione storicamente comprovata, la città dovrà inoltre riscoprire una sua economia in chiave comunitaria, di elaborazione ed accumulazione del valore sociale, culturale e civile attraverso una rinnovata formula di cittadinanza.
All’interno della ricerca di nuove, sempre più necessarie, strategie economiche da parte delle città, la forma urbana dovrebbe risultare una componente tutt’altro che secondaria. In realtà, nella sperimentazione applicata di nuova economia produttiva e sociale a cui si accennava, spesso prevale, come reazione alla recente bulimia edificatoria, l’univoca quanto liquidatoria identificazione tra dato formale e dato materiale della città, nel contesto italiano rappresentata, spesso comprensibilmente, dall’appellativo della cosiddetta “cementificazione”. Le forme involontarie o velleitarie riscontrabili in molti paesaggi urbani rischiano infatti di rappresentare tout court, agli occhi di una vasta opinione pubblica spesso anche qualificata, il senso di una forma architettonica che ha fallito il proprio compito urbano in termini di funzionalità, vivibilità se si vuole bellezza ma soprattutto, almeno credo, di identità.
Rispetto a questo tanto comune quanto equivoco generalizzare, il tema alla moda della smart city, ad esempio, sembra porre l’alternativa di una città immateriale e sostanzialmente poco propensa al dato formale, a favore di un funzionalismo facilitante realizzato attraverso le nuove tecnologie informatiche ed ambientali. Ancora una volta, per altri versi e con altri strumenti, la risposta funzionalista promette di dare risposta ai problemi della città. Difficile però pensare che ciò possa avvenire a prescindere dal dato delle forme urbane, attraverso un’organicità basata quasi esclusivamente sul sistema nervoso - ieri delle infrastrutture di trasporto oggi della comunicazione – e quindi priva di tessuti, muscoli, forme corporee (spaziali, plastiche, figurative).
Al contrario, proprio volendo dare adito all’importanza dell’immagine nei processi di riconfigurazione economica della città, puntare su un’economia delle forme integrata a quella delle funzioni produttive, degli stili di vita, della socialità, di un’identità continuamente ricercata sembra essere la strada obbligata per liberare tutte le potenzialità dell’essere città. Evidentemente ciò dovrà avvenire fuori da ogni episteme, compresa quella che nichilisticamente tende ad esorcizzare qualsivoglia episteme formale, anche quella dell’angolo retto secondo Zaha Hadid, a favore di un gioco interpretativo capace, come sottolinea Cacciari, di “dare forma alla contraddizione della città” quale presupposto per tenere insieme il molteplice secondo il significato comunitario del bene comune: materiale, sociale non meno che delle forme estetiche.
Non riconoscere la necessità di una economia della forma urbana significa ridurre fortemente il potenziale di elaborazione valoriale della città a favore di un territorio nulla più che insediato e de-urbanizzato, secondo l’opportunismo delle azioni individuali e la dislocazione di oggetti edilizi o pur apprezzabili architetture di design. Una condizione questa che dal punto di vista della non-città potrebbe mettere sullo stesso piano la banalizzazione della periferia residenziale romana dei palazzi delle ultime speculazioni e quella degli edifici “griffati” della ricostruzione del centro di Pechino.
Esercitare un’economia della forma urbana, oltre che dimostrazione del portato etico del progetto, significa al contrario ordinare tutta la materia urbana disponibile e potenziale, materiale ed immateriale, formale e priva di forma in una struttura al più alto tasso possibile di relazione reciproca, necessità, significatività. In questo senso la scienza della forma/e della città, con gli interpreti pubblici e privati chiamati a praticarla e il portato umanistico e partecipativo che ne consegue, dovrebbe risultare il principale strumento per la messa a punto di una strategia di rigenerazione della città.
Carlo Quintelli
Direttore del Festival dell’Architettura