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Renato Capozzi
A sinistra: Giuseppe e Alberto Samonà, Concorso per gli Uffici della Camera dei Deputati, Roma, 1967. A destra: G. Samonà e Egle Tricananato, Sede dell’Inail, San Simeone, Venezia 1950-56.
L’opera e la riflessione di Giuseppe Samonà - inscritta nel dibattito italiano (de Solà-Morales, 2001; Capozzi, Orfeo, Visconti, 2012) sull’eredità della tradizione e l’analisi della città della storia e sul tema della continuità/discontinuità del progetto moderno - è sintetizzata dalla teoria dei vuoti urbani, dal ruolo dell’edificio pubblico, e dalla ricerca sul linguaggio. Questi temi sono affrontati in tre progetti paradigmatici: la sede dell’Inail a Venezia, il concorso per gli uffici della Camera dei Deputati a Roma e la Banca d’Italia a Padova, quali ‘condensatori’ di valori civili, esiti di ricerche linguistiche e verifiche di teorie sull’architettura e la città. Teorie e progetti: risposte ‘riuscite’ su cui ritornare a riflettere per radicare il progetto non in solipsistiche immagini bensì in un sapere razionale e intellegibile (Visconti, Capozzi, 2008) fatto di forme adeguate, memorie e analogie. ‘Architetture urbane’ e altrettanti modi di affrontare il delicato rapporto dell’intervento contemporaneo - che ha l’ambizione di essere ancora monumento che «fonda e regge» (Gadamer, 1960; Prandi, Amistadi, 2010) - con i caratteri della città antica in cui «[…] l’edificio pubblico diventa il laboratorio sperimentale della città […cui] è affidato, quando viene costruito nella città antica, il compito singolare di tentare un rapporto biunivoco “architettura-città” capace di andare oltre la querelle “antico-moderno” ed in grado di mostrare il senso della storia; di quella contemporanea in rapporto con quella antica» (Samonà in Semerani, 1982, 7). Per Samonà «l’edificio pubblico […] è soprattutto un’occasione per rimisurare sulla tematica della città antica un’aporia: la città antica è compiuta nella sua forma e nella sua immagine, ergo è impossibile intervenire in essa con le parole dell’architettura moderna» (Semerani, 1982, 8). Un’aporia che Samonà prova a risolvere nei suoi scritti, sempre interroganti, e in questi ed altri progetti esemplari.
La teoria dei vuoti urbani (Marras, 2006) come possibilità di rendere intellegibile l’intima struttura e il carattere generale della città si traduce in «[…] una volontà rinnovatrice che vuol indicare come valori significanti universali quelli che la città antica configura […] istituendoli a far da stimolo per la formazione attuale della città. Con questi atti del progettare, mentre da un lato si conquista l’unità del tessuto storico, dall’altro si annulla quanto è superfetazione, ingombro, discontinuità nell’organizzazione di questa forma unitaria da definire, lasciando ai vuoti in cui più non si costruisce, dopo aver demolito le architetture incongruenti con l’antico, l’eloquenza di caratterizzarsi come vuoti architettonici, come vedute della città storica per brani di un discorso figurativo esterno, come segnali di ricchezza che, rivitalizzando le articolazioni, imprima ai monumenti un prestigio e un carattere altamente significativo che si può attribuire al segno della nostra civiltà, e non di quella antica» (Samonà, 1975). Da queste premesse derivano sia Novissime - con l’ambizione di ridefinire la forma generale di Venezia attraverso i suoi iati interni ed esterni - sia la Camera dei Deputati che si staglia nel cielo a determinare un grande riparo collettivo. Nel primo la forma urbis della Venezia insulare è riconquistata, come nel Bordone, col distacco prodotto con l’entroterra e con la liberazione al suo interno di alcuni vuoti significativi, ridiventando il «centro di un sistema di relazioni» (Fabbri, 2012, 38) con l’entroterra, la Laguna ed il territorio. A Roma - tramite la liberazione del suolo e i grandi pilotis lobati sorreggenti volumi a réaction poétique tra le nuvole (come in El Lissitzky o in Mart Stam) e conclusi dalla mano aperta - è riconquistato il vuoto per rivelare l’intima struttura urbana fatta di parti differenti, monumenti e luoghi civili. Due progetti in cui l’edificio pubblico «si aggiunge alla città, ma è esso stesso una città, l’eterogeneo urbano, la complessità urbana con tutto il suo spessore culturale; a riprova che la scala in architettura non è mai quella banalmente fisica» (Samonà, 1975). L’Inail, con la ‘citazione’ dell’altana e le sofisticate modanature, e la Banca padovana, con le facciate bifronti (l’una porticata e merlata e l’altra vetrata e articolata a definire un volume), paiono in bilico tra “gotico metafisico”, surrealismo e citazioni perrettiane/lecorbusieriane. A Venezia è riproposto il carattere ‘trasparente’ e ‘ricamato’ del palazzo patrizio riducendolo al ‘segno-facciata’ attraverso esilissime membrature ad ordini sovrapposti slittati con materiali e grane: dall’acciaio al vetro, dall’intonaco al laterizio, fino alla pietra istriana. A Padova si lavora con l’ibridazione/contrappunto degli idiomi espressivi in ragione dei caratteri urbani differenti di cui la banca è ‘specchio riflettente’ e locus di ri-composizone. La banca - con ambiguità (risolte forse da Albini a Parma) e coraggioso sperimentalismo - ricombina/sintetizza tutti i sintagmi prima indagati: il fronte come ‘repertorio’ di elementi desunti dalla tradizione (invertito nel rapporto vuoti-pieni rispetto all’Inail), lo spazio pubblico (‘ridotto’ nel portico e nella galleria trasversale), i materiali e le nuove tecniche costruttive e il montaggio di oggetti plastici con l’auto-citazione dei pilotis, chiamati a decorare/sostenere l’angolo.
Architetture che risemantizzano forme convenzionali «radicate nelle cose continuamente ripetute» - fatte di scansioni e ripetizioni controllate in cui s’inserisce «un edificio architettonico che crea un sistema spaziale chiuso iconograficamente all’interno della fila elencale» (Samonà, 1982, 15-26) - proiettato alla città nuova e alla natura spesso negata (il Canal Grande o il canale interrato Tito Livio). Una natura ritrovata, un vuoto come ‘spaziatura’ che «svolge un ruolo fondamentale di elemento di riscontro della forma compiuta della città» (Marras, 2006, 132) in cui si possano «scoprire finalmente le condizioni di sintesi e di analisi con cui la natura […] presenta le sue immagini nello spazio. Queste immagini non sono più quelle di una volta […]» (Samonà, 1982, 25), sono appunto quelle del nostro tempo e del nostro abitare sempre e di nuovo.
Riferimenti bibliografici
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e l’avvenire delle città negli stati europei. Bari: Laterza
Gadamer, H.G. (1960). Verità
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Renato Capozzi, redattore della rivista FA Magazine, è PhD in Composizione architettonica presso lo IUAV e Ricercatore in Composizione Architettonica e Urbana dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.