Abstract
Quotidianamente ci capita di percorrere in auto omogenee, desolate e spesso ermetiche zone residenziali. Sono le periferie della contemporanea città diffusa. Viste da lontano assomigliano ad un grande “dripping” che ha cancellato i confini e annullato le differenze tra le parti. Questa “identità negativa” nata dalla mediocrità e dall’ordinaria ripetizione di villette bi, tri, quadri familiari, case isolate sopra la collina accuratamente recintate, un’infinità di capannoni, di infrastrutture attorno alle quali si insediano i grandi centri commerciali e i luoghi del divertimento è una apparizione continua di presenze edilizie solitarie che raccontano una esistenza inevitabilmente noiosa e un po’ falsa, dai comportamenti omologati e rassegnati a lunghi giorni di incomunicabilità, fatta di vite tutte troppo simili in spazi omogenei. Per tutte queste ragioni il “caso” del recupero del complesso Nave-Arts Hall in Santiago del Cile, sospeso tra la valorizzazione dei sistemi culturali e una visione poetica dell’impegno sociale dell’architetto, mi pare un’angolatura significativa dalla quale articolare una riflessione sulle possibili strategie di cura del malato. In quest’opera di Smiljan Radic’, si respira un’aria fresca, propria di una nuova energia e vitalità, rappresentata da un’architettura che guarda da un’angolatura positiva le sfide che la contemporaneità le propone. Questo lavoro a Santiago del Cile ci insegna soprattutto che la nostra visione del mondo dipende dai punti di vista dai quali lo osserviamo. Da luogo “assente” dove la forma si presenta come frammento, diviene luogo dell’”invenzione” e dell’”ambiguità poetica”. Lo spazio più intrigante è il tetto, 750 mq di pura invenzione urbana. Da qui si vedono le Ande, ma la cosa più straordinaria è il circo che Radic’ pone sul tetto. Pura invenzione poetica.
Quotidianamente ci capita di percorrere in auto omogenee, desolate e spesso ermetiche zone residenziali. Sono le periferie della contemporanea città diffusa. Ciò ormai accade non solo nei grandi agglomerati urbani ma anche in quasi tutte le piccole città di provincia. La realtà che le accomuna è un’immagine che non funziona, dispersiva e noiosa. Sono città dotate nella loro parte di recente formazione di poche strutture collettive e di inesistenti centralità spaziali, con le infrastrutture di servizio e i simulacri dello spazio pubblico relegati all’interno di estranianti centri commerciali. Gli fa eco la città storica comunque sempre più trasformata in una parodia urbana, animata da un ipotetico sistema turistico-commerciale, sotto la spinta di improvvisate visioni culturali. Così la città contemporanea, frammentata e multietnica, vista da lontano assomiglia ad un grande “dripping” che ha cancellato i confini e annullato le differenze tra le parti. Un luogo “assente” dove la forma compiuta di un tempo si presenta come frammento, dove il territorio ereditato da secoli di storia non descrive più sistemi relazionali, poetici, simbolici, ovvero il “genius loci” di una comunità. Questa nuova immagine, risultato sterile di un incesto che combina tragicamente la città vecchia di secoli con le sue recenti espansioni, non è quindi, cosa altra, ma è la combinazione sciagurata delle due parti. Gli edifici sfitti, le aree degradate figlie di una crisi sempre più aggressiva, gli opifici dismessi, mettono in discussione il concetto di centro come fatto al contempo morfologicamente unitario e socialmente articolato.
Questa “identità negativa” nata dalla mediocrità e dall’ordinaria ripetizione di villette bi, tri, quadri familiari, case isolate sopra la collina accuratamente recintate, un’infinità di capannoni, di infrastrutture attorno alle quali si insediano i grandi centri commerciali e i luoghi del divertimento è una apparizione continua di presenze edilizie solitarie che raccontano una esistenza inevitabilmente noiosa e un po’ falsa, dai comportamenti omologati e rassegnati a lunghi giorni di incomunicabilità, fatta di vite tutte troppo simili in spazi omogenei. All’interno di questo scenario sembrano essere tracciati i destini figurativi delle città contemporanee. Così la narrazione quotidiana di questi luoghi scorre lenta senza particolari vibrazioni, in un coma latente che consuma continuamente il tempo e lo spazio. Cosa fare? Per salvare la città non è più possibile immaginare una sostituzione del nuovo, oramai strutturalmente radicato nel territorio. Sembra più convincente un’ipotesi che partendo dalla verifica dello stato comatoso del paesaggio urbano, sviluppi interventi specifici e mirati di rigenerazione, sicuramente prima culturale che urbana. E’ necessario ora ritessere i fili interrotti delle relazioni sociali e del disegno urbano, ovvero costruire i margini di un discorso comune. Rinnovare quei valori condivisi sui quali si fonda il senso comune dello spazio pubblico e i valori di una comunità. Il tema da affrontare è dunque quello di rammendare le lacerazioni culturali e ritessere lo spazio comune che nella città contemporanea è lo spazio pubblico, l’unico ancora in grado di parlare del significato più autentico del costruire lo spazio collettivo. La possibilità di rigenerare ampie parti della città diffusa con interventi specifici coincide con un’idea strategica nella quale la città nel suo complesso non si sviluppa più in estensione ma satura il vuoto di spazi e di valori che oggi le appartengono come bubboni da curare. Ci si interroga su quali oggi sono ancora le battaglie da vincere e i territori da conquistare per affermare un’idea di architettura quale luogo condiviso della qualità della vita, realizzabile anche con costruzioni semplici e strumenti limitati, in circostanze difficili, anche in luoghi di frontiera. Si sta affermando oggi una nuova visione della società e dell’architettura rivolta ad un’idea ampia al centro della quale stanno temi quali l’inclusione sociale, la rigenerazione di luoghi devastati dalle guerre, dalla speculazione, dal malaffare e la ricerca di modelli insediativi capaci di migliorare la qualità dell’ambiente edificato e conseguentemente la qualità della vita delle persone che lo abitano. Contemporaneamente è necessario fare una seria riflessione su una visione di sviluppo che in molte zone del pianeta è oggi ancora sostenuta da un arrogante capitalismo, verso una nuova nozione di “crescita”, sostenuta da un’idea di città, non più autoreferenziale come riportano le cronache di molte riviste patinate, l’elenco degli esempi sarebbe lungo, tra Medio Oriente, Russia e Asia, esortando ad un impegno per un ambiente edificato migliore che tenga conto complessivamente della risorse e della forza di tutti. Ricerche comuni in tal senso a diverse geografie e a molti architetti sul pianeta oggi sono in corso e raccontarle tutte nella peculiarità e nel carattere che ognuna di esse dimostra sarebbe impossibile. E’ importante capire che comunque non è più immaginabile il “fast-food” globalizzato dell’architettura, “buono” per tutte le occasioni a diverse geografie e che il lavoro sul territorio deve essere fatto in maniera chirurgica, caso per caso, nel senso della cultura e della tradizione dei diversi territori. Per tutte queste ragioni il “caso” del recupero del complesso Nave-Arts Hall in Santiago del Cile, sospeso tra la valorizzazione dei sistemi culturali e una visione poetica dell’impegno sociale dell’architetto, mi pare un’angolatura significativa dalla quale articolare una riflessione sulle possibili strategie di cura del malato. In quest’opera di Smiljan Radic’, si respira un’aria fresca, propria di una nuova energia e vitalità, rappresentata da un’architettura che guarda da un’angolatura positiva le sfide che la contemporaneità le propone. Questo nuovo atteggiamento, comune a molti architetti bravi ma non necessariamente noti, che non cadono nello sconforto per la scarsità di mezzi a loro disposizione, in cui la creatività, anche se costretta da mille vincoli, trova la propria forza e dignità anche nelle piccole vittorie quotidiane che rendono però felice molta gente. Queste opere, come quella di Radic’, ci parlano della capacità di raccontare con creatività e intelligenza il rapporto fondativo tra la cultura, la storia, l’architettura ed il paesaggio. Questo lavoro a Santiago del Cile ci insegna soprattutto che la nostra visione del mondo dipende dai punti di vista dai quali lo osserviamo. Da luogo “assente” dove la forma si presenta come frammento non più in grado di descrivere i sistemi relazionali, poetici, simbolici, ovvero il “genius loci” di una comunità, diviene luogo dell’”invenzione” e dell’”ambiguità poetica”. Nave, edificio dedicato alle arti sperimentali è costruito a partire da un’azione di svuotamento. L’edificio esistente devastato da anni di incuria e degrado, dopo diversi incendi e il terremoto del 2010 presenta quale unico elemento di pregio e ancora passibile di restauro la facciata. L’idea è quella di ristrutturarla ricostruendola nelle sue parti mancanti trasformandola in una sorta di maschera con dei grandi occhi, le finestre, che permettono di guardare dal di dentro la città circostante che diviene sfondo per le azioni artistiche e gli spettacoli che si svolgono all’interno del centro culturale. Gli spazi principali sono la Black room, uno spazio versatile, senza scenario fisso di 750mq, con una pista da ballo. La White room, dedicata alla ricerca, con laboratori e spazi espositivi e infine un residence per artisti. Lo spazio più intrigante è il tetto, 750 mq di pura invenzione urbana. Da qui si vedono le Ande, ma la cosa più straordinaria è il circo che Radic’ pone sul tetto. Pura invenzione poetica. Come nel Don Chisciotte di Borges il circo ci parla di due opere nell’identità dello stesso linguaggio. La prima errante nel paesaggio, usata per gli spettacoli circensi, fortemente ancorata al suolo con corde e tiranti. La seconda, uguale alla prima, posta sul tetto di un edificio pubblico a Santiago del Cile. Questa identità formale mette in discussione la dialettica tra originale e copia, come se l’architettura si potesse direttamente tradurre in un edificio altro. Una copia perfetta dove l’originale è cancellato e forse anche l’origine. Quasi a dire che se il mondo si potesse esattamente raddoppiare perderebbe ogni origine ed ogni fine per diventare quel volume magico, degli infiniti possibili della ripetizione che è lo spazio scenico del teatro e del circo. I due circhi sono identici ma quello sul tetto è infinitamente più ambiguo, e l’ambiguità è una ricchezza. Come noi oggi vediamo ed interpretiamo il circo sul tetto attribuisce alla sua forma nuovi significati, diversi da come noi avremmo potuto vedere il circo sul suolo. Non è quindi una semplice e banale copia. Radic’ con quest’opera ci spiega che la verità storica non è quindi solo ciò che avviene ma quello che noi giudichiamo sia avvenuto. La forma si stratifica di diversi significati nel tempo dell’opera stessa. Per tale ragione l’ambiguità per Radic’ diventa un’opera gravida di significati e ricca di possibili interpretazioni. Nel 1929 Le Corbusier progettò per l’eccentrico milionario e collezionista d’arte messicano Charles de Beistegui un appartamento, oggi andato distrutto, al numero 136 di Avenue des Champs Elysées a Parigi. Il terrazzo dell’appartamento, punto privilegiato da cui osservare la città ci conduce nei meandri di un’opera evidentemente ambigua, elogio al paradosso e al mondo surrealista. Nell’attico parigino come nel tetto di Santiago si confondono volutamente l’aperto col chiuso, il sopra con il sotto e il passato con il presente, la realtà con la magia. Luoghi ambigui dove anche il limite tra il dentro e il fuori è rarefatto come quello tra la realtà e il sogno. Per inventare una nuova città bisogna guardare quindi il mondo con occhi nuovi.
Lo stato comatoso del paesaggio urbano può essere rianimato da azioni e interventi specifici di rigenerazione, sicuramente prima culturale che urbana. E’ necessario ora ritessere i fili interrotti delle relazioni sociali e del disegno urbano, ovvero costruire i margini di un discorso comune. Rinnovare quei valori condivisi sui quali si fonda il senso comune dello spazio pubblico e i valori di una comunità. Forse immaginando una architettura fondata sul senso di comunità e coesione, con uno sguardo nuovo, poetico e coraggioso, penso sia possibile, come fa Radic’ nel Nave-Arts Hall in Santiago del Cile, ripensare dei progetti che diano risposte allo sfascio urbano che oggi abitiamo.
Bibliografia
Boschetti A., De Lucchi M., Freyrye L. (2011) SuperUrbano. Sustainable Urban Regeneration. Marsilio, Venezia.
Aa.Vv. (2014) Ecoquartieri-Ecodistricts. Strategie e tecniche di rigenerazione urbana in Europa. Marsilio, Venezia.
Aa.Vv. (2013) "Smiljan Radic 2003-2013. The game of opposites". El Croquis, 167
Crespi G. (2015), "Smiljan Radic & Loreto Lyon, Cantina Vik, Millahue, Cile". Casabella, 851-852
Radic S. (2007) "NAVE, Centro per le arti e lo spettacolo, Santiago del Cile, Cile". Casabella, 857, 4-5.
Radic S. (2017) "Atelier Correa, Cile". Casabella, 872, 59.
Crespi G. (2007) Le Corbusier - Le poème de l'angle droit. Electa, Milano.
Vittorio Longheu, laureato in architettura all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia nel 1988, inizia la propria attività professionale nel 1989 affrontando, nel corso degli anni, la progettazione di molteplici temi: edifici polifunzionali, commerciali e direzionali, complessi direzionali e turistico alberghieri, diverse tipologie abitative, edifici e spazi pubblici.
Ha sempre affiancato l’attività professionale a quella di ricerca e di insegnamento presso varie università in Italia quali l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, l’Università degli Studi di Ferrara, Università di Bologna, Facoltà di Architettura “Aldo Rossi” e attualmente il Politecnico di Milano.
Partecipa a varie conferenze in Italia ed all’estero ed ad alcune mostre tra cui “Laboratorio Italia” Roma, la “Biennale di Venezia”, "Giovane Architettura Italiana", Busan, Korea. Vince il "Premio Architettura-Città di Oderzo, il "Premio Nazionale di Architettura Luigi Cosenza, il Design Plus, Francoforte. Nel 2014 ha pubblicato il volume “Le forme e il tempo”. I suoi lavori sono pubblicati nelle più importanti riviste nazionali ed internazionali.