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Abstract
Il 23 aprile, giorno della nascita e della morte di William Shakespeare, è stato inaugurato il tetto apribile del nuovo Teatro Elisabettiano, che sarà inaugurato il prossimo settembre a Danzica.
L'evento diventa l'occasione per celebrare allo stesso tempo le potenze plastiche del simbolo, che, disseminate nella metafisica dei luoghi (e della memoria), guidano le forze alla 'forma' e i valori e gli ideali che hanno sostenuto il tormentato processo storico della città baltica e della nazione polacca.
William Shakespeare (1564-1616) nasce e muore nello stesso giorno: il 23 aprile. Quella data diventa ora l'occasione per un altro duplice evento. Commemorare il genio inglese e inaugurare le ali del tetto apribile del nuovo teatro a lui dedicato e che sarà completato entro il prossimo settembre a Danzica. Un evento 'simbolico' e concreto allo stesso tempo. Quella sera una folla di oltre tremila persone gremiva le tribune appositamente montate a ridosso delle mura storiche, di fronte alla lunga sagoma scura del nuovo edificio. I muri di mattoni neri, resi ancora più evanescenti dal buio, sembravano per incanto un immenso sipario spalancato sull'immaginazione del pubblico. In effetti le cose mutavano i loro ruoli abituali.
L'edificio del teatro era il vero protagonista. Gli spettatori attendevano la sua 'recita'. Ma il programma dell'evento dipendeva da un altro fattore. Dal tempo atmosferico. La sensazione generale era comunque quella di assistere alla celebrazione di un rito. E poiché ogni rito ha la propria liturgia, nel nostro caso l'offerta sostituiva il sacrificio. La cerimonia iniziava con l'omaggio delle maschere. Era l'offerta al 'protagonista'. Un lungo corteo sfilava sugli spalti come gli spettri nella mente di Amleto. Quelle sagome danzanti erano spinte dal vento. Soffiava da nord, freddo, ad oltre venti nodi. Persistente, spegneva anche le speranze affidate al copione. La sorpresa, infatti, doveva venire da un grande pallone dal diametro di 12 m. Nascosto nel ventre del teatro avrebbe dovuto spuntare fin sopra le ali, quando si fossero aperte, come una magnifica luna sorgente. Emblema di un mondo nuovo già avvenuto e di un altro che stava per avvenire. Ma quei venti boreali soffiavano in un'altra direzione. Solo le ali si aprirono. Per motivi di sicurezza non fu possibile alzare il pallone. Il tempo aveva deciso diversamente. Aveva voluto restituire al 'teatro', al suo solitario gesto alato, la dimensione 'sacrale': di Danzica, della Polonia.
Dobbiamo però chiarire subito l'uso dei termini 'sacrale' e 'simbolico'. Il tetto apribile ha certamente una motivazione tipologica che appartiene alla storia del teatro elisabettiano del XVII sec. Erano strutture prevalentemente a corte aperta, come il Globe, illuminati dalla luce naturale. E se questo è indiscutibile dal punto di vista storico, non lo può essere dal punto di vista simbolico. La tecnica contemporanea, con le sue infinite possibilità costruttive, è totalmente indifferente al senso (all'ideale) e completamente vincolata al significato (al pratico). Mentre il 'simbolo', per le sue proprietà metà-linguistiche, è totalmente vincolato al senso e liberamente svincolato dal significato. Le potenze plastiche del simbolo sono disseminate nella metafisica dei luoghi (e della memoria) e guidano tutte le forze alla 'forma'. E per uscire dall'astrazione del ragionamento possiamo dire che i 'luoghi' metafisici, sempre immanenti o incorporati nei luoghi fisici, non sono altro che la densificazione dei valori e degli ideali decantati lungo il tormentato processo storico della città baltica e della nazione polacca. Il problema da risolvere, allora, non riguardava tanto la realizzazione pratica di un tetto apribile. Una soluzione a piani scorrevoli, per esempio, era senz'altro più economica da finanziare e più facile da realizzare. Piuttosto dipendeva da quel senso di 'ritualità' che si voleva infondere al movimento dell' 'apertura'. Aprire le falde di un tetto come fossero due ali incernierate su muri maestri che si innalzavano sull'edificio raddoppiandone l'altezza, avrebbe avuto ripercussioni sull'intera impostazione formale del teatro. I carichi maggiori non erano dati dalla statica dei materiali, ma dalla dinamica delle forze che agivano in alto. Anzi, sopra il tetto. Le ali, comportandosi come due gigantesche vele sotto l'azione del vento avrebbero moltiplicato gli sforzi che dovevano poi essere scaricati nelle fondazioni. Come avere una diga sul tetto. Ormai era chiaro. Questo tipo di 'apertura' avrebbe influenzato definitivamente il 'carattere' complessivo dell'edificio. Il ritmo delle nervature verticali, l'anello murario orizzontale, l'ancoraggio al terreno, tutto era necessario per dare forza alla colonna interna della luce verticale, la quale svuotando l'artificio funzionale della costruzione lo smaterializzava, trasformando il teatro in una corte esterna, ma soprattutto in un vortice per l'immaginazione (doppiamente funzionale). Ed è proprio da lì che si rigenera il soffio potente della storia e della coscienza del popolo polacco. Da quella cavità sgorgano le folate del vento nordico. L'urlo di Oscar Matzreath che frantuma i vetri delle finestre, (il personaggio principale nel romanzo "Il tamburo di latta" dello scrittore gedanense Gunter Grass, premio Nobel della letteratura nel 1999) anticipa di vent'anni le urla degli operai dei cantieri navali Lenin a Danzica. Quelle grida si ripetono come un eco incessante contro ogni sopruso e violenza del potere come della convenzioni sociali. Di allora e di ora. Sono così forti da frantumare nel 1989 l'intera 'cortina di ferro' e ridisegnano completamente i confini geopolitici dell'Europa centrale. Il leader di Solidarnosc, Lech Walensa, con l'aiuto non tanto sotterraneo di Papa Karol Wojtyla, riceverà, proprio per questa sua volontà di acciaio, il Nobel per la Pace nel 1983. La costruzione del nuovo teatro a Danzica come poteva allora ignorare queste potenze ideali, metafisiche, dello spirito polacco? Come poteva ignorare l'insegnamento e l'opera di un altro grande uomo e regista, Jerzy Grotowski, che pensava al teatro come 'cerimonia rituale', alla 'santità dello spazio scenico'?
Ecco allora dove il 'simbolo' e il 'sacro' si uniscono. Non in una futile definizione, ma in una possibile rappresentazione. In una reale costruzione. Il movimento di apertura delle ali, queste braccia metalliche che si protendono in alto verso il cielo (altra analogia con i film 'L'uomo di marmo' e 'L'uomo di ferro' di Andrzej Wajda, Oscar alla carriera nel 2000, lavori dedicati al movimento sindacale di Danzica) non sono altro che un gesto di ringraziamento, di gratitudine nei confronti di quello spirito polacco e di quegli ideali che ancora oggi ci dovrebbero accomunare. Il teatro, con la 'cerimonia rituale' dell'apertura delle ali rinnova e perpetua (almeno questo è l'auspicio) la liturgia della devozione: alla città di Danzica, e alle sofferenze di un popolo che sono alla base dei valori e della nostra dignità umana.
Renato Rizzi è Professore Associato in Composizione architettonica alla Facoltà di Architettura dell’Università IUAV di Venezia. Attualmente è impegnato nella costruzione del teatro elisabettiano di Danzica.