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Snøetta, Biblioteca di Alessandria, Alessandria d’Egitto, 1989-2001
Abstract
L’autore si interroga sull’esistenza della critica, sul suo stato di salute e sui modi per esercitarla. Luoghi critici si pone l’obiettivo, non di ridare dignità alla critica o ai critici, quanto piuttosto di verificare le possibilità di costruire gerarchie di valore che non attendano i tempi necessariamente lunghi della storiografia. Nove aspiranti critici sono invitati a scegliere altrettante architetture (o spazi urbani) per provare a mostrarne pregi e difetti.
I.
Esiste la critica d’architettura? E – se esiste – quali sono i suoi metodi, parametri di giudizio, inevitabili virtù e vizi capitali? Chi è autorizzato a parlare d’architettura, e perché? Come si forma il giudizio in architettura, quando in gioco è l’architettura contemporanea, vale a dire quegli edifici, città o territori che nascono e crescono (oppure muoiono) intorno a noi? Esiste un linguaggio specifico della critica d’architettura, che non diventi gergo esoterico? Quale rapporto si può ancora costruire tra storia e critica? E infine: è possibile che la critica d’architettura riesca a svolgere un ruolo protagonista nell’indirizzare le scelte che consentono la costruzione delle città e del territorio contemporanei?
Non è facile rispondere a queste domande, soprattutto senza rispondere alla prima, cioè senza sapere se la critica d’architettura è ancora viva oppure sia una maniera di parlare d’architettura evitando, per mera comodità, gli scogli della filologia e della storia.
A oltre dieci anni dalla morte di Manfredo Tafuri, sembra giunto il momento in cui si può ricominciare a parlare del tema, verificandone i confini e le capacità conoscitive e interpretative. L’architettura, anche in Italia, è ormai al centro degli interessi d’un pubblico sempre più vasto, che mal sopporta di non comprendere il senso di quel che accade intorno anche se non sembra aver a disposizione tutti gli strumenti per la formazione del giudizio. Pertanto l’obiettivo dell’iniziativa Luoghi critici, ospitata dall’edizione 2006 del Festival dell’Architettura di Parma, non è ridare dignità alla critica o ai critici, quanto piuttosto verificare le possibilità di costruire gerarchie di valore che non attendano i tempi necessariamente lunghi della storiografia.
Nove (aspiranti) critici sono invitati a scegliere altrettante architetture (o spazi urbani) per provare a mostrarne pregi e difetti. L’insieme di tali architetture dà luogo a una mostra documentaria, parte integrante del progetto in quanto occasione per riflettere su quali possono esser i parametri omogenei, anche dal punto di vista iconografico, per ogni possibile esercizio di critica.
Scegliere i critici e scegliere le architetture è già stato un esercizio di critica, forse quello che finisce inevitabilmente per condizionare l’intero progetto. Chi scrive ha scelto i primi: ciascuno poi ha scelto un caso esemplare, su cui proporre un esercizio di critica. Il risultato è un panorama parziale, troppo parziale forse, che tuttavia intende essere un primo, piccolo contributo alla rianimazione d’una pratica ormai moribonda, almeno in Italia[1].
II.
Non è detto sia sfortuna, ma la critica d’architettura – in quanto tale – non fa parte delle aree disciplinari conosciute dall’università e dalla ricerca italiane. Del resto, e non soltanto in Italia, non esistono cattedre cui aspirare e non si trovano manuali di teoria o good practice da consultare: una professione fantasma o un mestiere clandestino, si direbbe. Chi è il critico d’architettura, posto che nessuno autorizza altri ad esserlo o a dichiararsi tale? Non è facile rispondere, anche se si possono fare ipotesi sulla base di quanto accade con maggior frequenza. In prima approssimazione, sono tre i mestieri che finiscono per esercitare un diritto di critica, non meglio definito: gli architetti, i giornalisti, gli storici dell’architettura e della città contemporanea.
Tutti hanno diritto, com’è ovvio, di dir la propria su questo o quel progetto; tutti possono sentirsi in dovere di parlar bene o male di questa o quella architettura. Gli architetti per dovere deontologico, i giornalisti per dovere di cronaca, gli storici perché quasi ogni narrazione non fictional sembra ormai ricadere tra le loro possibilità. Il punto, tuttavia, non è chi esercita il diritto di critica, bensì in cosa questo diritto consista e come lo si possa esercitare. È una questione di strategie culturali e metodi conoscitivi, rispettando i quali si acquista diritto di critica, senza i quali si può soltanto aspirare alla chiacchiera.
I critici invitati a Parma – si desume dal curriculum di ciascuno – hanno spesso a che fare con la storia dell’architettura. Non è una scelta programmata, ma forse non è nemmeno casualità. Tra architetti, giornalisti e storici, è il mestiere di questi ultimi in particolare che ha riflettuto sui modi in cui è possibile costruire un giudizio critico narrando vicende avvenute, non importa se poco o molto tempo fa: è un dato da tenere in conto. Dal canto loro, i giornalisti seri hanno sempre insegnato come osservare la realtà, indagandone anche gli aspetti meno evidenti, al fine di ricostruire un quadro all’inizio non scontato: un lavoro, in fondo, non così distante da quello dello storico. Inoltre, storico e giornalista sembrano esercitare entrambi un lavoro che ha molto a che vedere con quello del poliziotto o del giudice, sempre attenti alle prove prima della formulazione del giudizio (crisis, appunto).
In questa prospettiva, gli architetti sono piuttosto gli indagati: sembra imprudente affidar loro le indagini.
III.
Una parte delle difficoltà che incontrano critica e critici d’architettura sembra legata all’incertezza del proprio statuto scientifico. Ad esempio, è tutt’altro che chiaro quali siano i confini entro cui si può esercitare una critica. Se, infatti, è alquanto evidente che luoghi come il Duomo di Parma o il giardino di Colorno sono oggetti di storia, maggiore incertezza sussiste per luoghi altrettanto celebri (ormai) come il Museo Guggenheim di Bilbao o Potsdamer Platz a Berlino. All’atto del giudizio ciascuno costruisce qualche barriera, che però poi risulta quanto mai debole. I primi sarebbero opere d’arte, i secondi no: è la distinzione più inconsistente (ma anche quella più frequente). I primi sarebbero abbastanza antichi da disporre di fonti consolidate e dunque sarebbero materiali per la storia, i secondi no: talvolta, tuttavia, occorrerebbe soltanto cercare fonti consolidate, anche per oggetti di studio più recenti, recentissimi. I primi sarebbero oggetti desueti, privi di qualunque capacità d’incidere sul presente, laddove i secondi sarebbero materiali vivi, ancora operanti: eppure, a sentire molti architetti, negli immaginari sembra sopravvivere con maggior facilità il Partenone che lo stadio di Monaco di Baviera.
In realtà, tutto sembrerebbe poter essere oggetto di critica. Ancora una volta, è meglio far riferimento alle possibili strategie culturali che si muovono dietro a un progetto critico. Da questo punto di vista, è più importante chiedersi perché parlare di un’architettura piuttosto che di un’altra, e in che termini. In termini assai provvisori, si potrebbe dire che lo storico non può tollerare un obiettivo diverso, per il suo lavoro, dalla ricostruzione della verità storica (qualunque cosa questa significhi); il critico, dal canto suo, è chiamato a giudicare un’opera nella misura in cui questa significhi anche qualcos’altro, possa diventare metafora d’un atteggiamento più generale, nel presente e magari nel futuro: d’un gusto, d’una tendenza, persino d’una moda frivola e transitoria. Con questi termini la storia non può avere commercio, ma la critica sì. Allo storico che scrive del Partenone interessa poco sapere quanti architetti postmoderni ne conservano il modello accanto al computer, mentre al critico che scrive dello stadio di Monaco deve interessare quanto tale costruzione può costituire lo specchio d’uno scenario, attuale o prevedibile. Ancora una volta, si tratta di strategie e metodi, non di oggetti: si può scrivere una critica del Partenone o una storia dello stadio di Monaco senza invertire l’ordine delle cose.
IV.
La vita del critico d’architettura, in queste condizioni, è resa difficile dalla difficoltà d’individuare le sedi adatte al suo esercizio. In Italia, la situazione è deprimente: i giornali semplicemente ignorano l’ambiente costruito, a meno che non ci sia da parlare (anche se giustamente) di scandali edilizi o scempi territoriali. Qualche architetto famoso scrive, è vero, ma talvolta lo fa per accreditare la propria opera o screditare quella altrui – e così facendo vanifica ogni sforzo critico, anche quello bene intenzionato. Spesso si scrive (o si è costretti a scrivere) d’architettura scrivendo d’altro: di libri, di mostre, di viaggi. È uno scenario paradossale, con pochissime eccezioni, in cui si recensisce di tutto, dai reality in televisione alle riedizioni di dischi degli anni cinquanta, eppure, quando occorrerebbe parlare semplicemente di un’architettura inaugurata di recente, ci si attende quanto meno che l’architetto sia una star mediatica. Tale scenario paradossale pare talvolta mimato persino da riviste specializzate, che talvolta sembrano scrivere di tutto tranne che d’architettura: tant’è che, in edicola o libreria, risultano poi largamente ignorate dai lettori specializzati per eccellenza, vale a dire dagli studenti e dai professionisti.
In questi casi – è vero – ancora prima del problema critico viene il problema informativo. Quali informazioni occorre dare d’un’architettura perché poi il lettore possa seguire il critico nel suo ragionamento? Non è affatto chiaro, né ai critici né agli iconografi che s’occupano di illustrare le suddette pubblicazioni. I manuali di deontologia professionale dei giornalisti potrebbero aiutare molto in tal senso, ad esempio ad eliminare qualunque sottinteso, qualunque allusione a codici all’apparenza condivisi, qualunque sarcasmo o compiacimento che possa essere confuso con l’informazione. Ma – si sa – dietro a chiunque si metta al computer a scrivere due righe si nasconde Roberto Longhi o almeno Alberto Arbasino: rischiare di non farlo vedere, nello spazio di 4.000 battute, sarebbe un delitto.
V.
Come sempre accade nei territori dell’incertezza, nemmeno Luoghi critici riuscirà a chiarire tutti i dubbi sull’esercizio della critica d’architettura. Troppi sono i mestieri in campo, più o meno interessati, troppe le variabili in gioco. Se, tuttavia, solo così fosse, non sarebbe valsa la pena nemmeno pensare un progetto che, invece, ha come obiettivo primario non tanto dar le coordinate epistemologiche della critica d’architettura, quanto rilevarne la sua assoluta necessità.
Non si tratta di offrire un utile servizio agli studenti più volenterosi o ai professionisti meno cinici: la critica d’architettura deve poter (ri)conquistare un suo ruolo culturale come strumento per la costruzione della coscienza civile e politica dei cittadini, democraticamente chiamati a decidere del loro spazio vitale, per via diretta o indiretta, ma con assoluta consapevolezza. Ancora una volta, l’interesse non è sull’oggetto di cui si discute (museo d’arte o stazione ferroviaria, villetta di geometra o mega-villa di archistar), ma su come se ne possa discutere, e perché. La critica deve (tornare a) essere lo strumento principale attraverso cui ogni cittadino, non soltanto architetto o urbanista, riesce a comprendere quel che sta accadendo al corpo delle città, all’ambiente costruito. Fallire ancora una volta questa missione, forse l’unica che valga davvero la pena, sarebbe il definitivo segnale d’uno scollamento tra architettura e società civile che rischierebbe di confinare l’architettura al ruolo di gioco sofisticato tra anime belle.
[1] Questi gli accoppiamenti tra critici e luoghi critici:
1. Fabio Mangone - biblioteca di Alessandria, (Alessandria d’Egitto, Snøetta)
2. Federico Bucci - Kiasma (Helsinki, Steven Holl)
3. Roberto Dulio - Ara Pacis (Roma, Richard Meier)
4. Michele Bonino - Archivo General de Navarra (Pamplona, Rafael Moneo)
5. Matteo Agnoletto - Centre Georges Pompidou (Parigi, Renzo Piano e Richard Rogers)
6. Marco Biraghi - Ciudade de Cultura da Galicia (Santiago de Compostela, Peter Eisenmann)
7. Chiara Baglione - BMW Zentralgebäude (Lipsia, Zaha Hadid)
8. Sergio Pace - mercato di Santa Caterina (Barcellona, Eric Miralles e Benedetta Tagliabue).
9. Alessandra Coppa - chiesa del Santo Volto (Torino, Mario Botta)
Snøetta, Biblioteca di Alessandria, Alessandria d’Egitto, 1989-2001