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Leonardo da Vinci, Mappa di Imola, 1502
Abstract
Il concetto di “città in estensione” di Giuseppe Samonà è l'occasione per riflettere sul significato del fenomeno urbano oggi. L’autore lo fa attraverso nove punti, da “estensione” a “polisemia”, passando per “scala”, “metodo” e “funzione”, che diventano i termini di un nuovo glossario ragionato per la città europea, per un approccio cosciente allo studio e al progetto di quello che lui chiama “il dilemma territoriale”.
A
partire dalla nozione di “città in estensione” di Giuseppe Samonà.
1. Estensione: una constatazione ed un paradosso.
La constatazione: il fenomeno dell'estensione territoriale delle grandi città iniziato nel 20° secolo ha assunto oggi proporzioni inquietanti. Città come Parigi, Shanghai, Sâo Paulo, Città del Messico sono diventate vere e proprie megalopoli. I problemi comuni, che esse generano (demografici, di densificazione e/o di diffusione; di circolazione e di residenza; di repentini cambiamenti economici ed ambientali; di rapporto con la natura...) ci portano a parlare di “mondializzazione”, di ricerca di un nuovo “paesaggio” alla scala del territorio, che risponda alla questione della “globalizzazione”, economica, culturale, sociale. I fenomeni che accompagnano tali mutazioni sono stati denunciati come nefasti, oppure, al contrario, considerati come ineluttabili o ancora interpretati come il segno di una nuova modernità. Ne è un esempio il concetto di Oecuménopolis di Konstantinos Doxiadis, l’urbanista d’Islamabad, che ha proclamato, nel 1960, che da Pechino a New York gli stessi problemi richiedono le stesse soluzioni.
Nel corso dell’ultimo secolo, l’urbanistica tedesca, francese, italiana, inglese, americana, ha cercato in tempi e momenti diversi, di risolvere la stessa questione: quella della dispersione e della diffusione legata alla metropolizzazione. Ma non si è posta sempre e con la dovuta perseveranza la domanda se tale fenomeno poteva esprimersi in modo diverso e secondo diverse soluzioni in funzione dei paesi e delle città in questione.
Ed ecco che appare il paradosso presente nelle pratiche e nei discorsi correnti: da una parte si parla di Mondializzazione e dall’altra di Identità. La domanda che ci si pone riguardo ai territori metropolitani è la seguente: alcuni discorsi oppongono la mondializzazione all’identità (la prima impedirebbe alla seconda di esprimersi) e altri tentano di trovare un equilibrio tra la mondializzazione e le identità. Contrariamente agli economisti, ai politologi, ai sociologi, ai filosofi che, per quanto riguarda le questioni della mondializzazione economica, si suddividono in altromondialisti e in mondialisti liberali (la lettura della crisi della Grecia ne è un esempio), gli urbanisti affrontano in modo unanime la questione ricercando un equilibrio possibile. I progetti per la Grand Paris hanno dimostrato che tale discorso unanime da parte degli architetti-urbanisti si esprime attraverso l’idea che l’attuale metropolizzazione, con tutti i problemi che essa genera, sia ineluttabile ma che essa possa cercare una pacificazione attraverso il mantenimento delle identità locali o la ricerca di nuove specificità, attraverso l’equilibrio tra il materiale (paesaggio fisico) e l’immateriale (fattore umano, culture dell’abitare, usi e pratiche…).
Il passaggio di scala a cui si assiste oggi tra progetto urbano e progetto di territorio è un dato di fatto. Da più di 25 anni, e soprattutto in Francia, malgrado i diversi metodi, approcci e definizioni, il progetto urbano è stato affrontato circoscrivendo “pezzi” di città ben definiti: zone industriali o portuali dismesse da ristrutturare, spazi pubblici, parchi e zone verdi da creare, quartieri abitativi da risanare, grands ensembles e alloggi sociali da migliorare, quartieri giardino perifierici da riordinare, luoghi dove sviluppare nuovi mezzi di trasporto collettivi. La sinergia tra i diversi attori - i politici locali, regionali e nazionali, le collettività pubbliche e le imprese private, i tecnici e gli utenti, ecc. – è stata considerata come la conditio sine qua non della riuscita del progetto urbano. La ricerca di un consenso è stata la regola principale e ogni fallimento è stato attribuito alla sua assenza.
Ciò ha portato ad un cambiamento nel modo di intendere la problematica, riscontrabile sia nelle dottrine - che non esprimono tutte una teoria - che nei programmi proposti agli architetti-urbanisti, e ha provocato opposizioni corporativiste tra urbanisti “puri”, ingegneri e architetti-urbanisti.
Cos’è dunque il progetto di territorio? Esso è definito da un insieme di entità diverse, a volte collocate entro confini fisici precisi e rigidi, dati dalle infrastrutture o da elementi geografici, a volte imprecisi e vaghi. I limiti di uno spazio da pensare non sono più i limiti amministrativi, della logica fondiaria, dell’accordo micro-politico, ma sono quelli della percezione, della coerenza interna del progetto, del paesaggio (in greco «topion» che significa spazio e luogo, «topos»). Un progetto di territorio è allora l'invenzione di un insieme composto da sottoinsiemi, che formano una figura. Esso provoca un cortocircuito tra il frammento e la visione d’insieme, la sua figura: si tratta di una visione del “paesaggio” secondo le varie accezioni del termine (a cominciare dalla definizione data dalla «Convenzione europea del paesaggio»).
Nello stesso tempo appare un dilemma, legato all’incoerenza tra tale figura d’insieme e i frammenti di cui essa è composta. Si può allora avanzare l’ipotesi che l’obiettivo del progetto è quello di ritrovare una nuova coerenza d’insieme pur mantenendo l’identità del frammento. Il dilemma riguarda l’estensione del territorio e la difficoltà a leggere le relazioni tra frammento ed insieme. La figura diventa allora inoperante in quanto, data l’estensione del territorio metropolitano, come è possibile la ricerca di una sola identità? E se si tratta di articolare più identità, come è possibile che un progetto renda conto simultaneamente dell’uno e del molteplice?
E il dilemma si complica per ragioni ideologiche, politiche e di visioni del mondo in quanto, come ho già affermato, da una parte si legge il fenomeno della metropolizzazione a partire dal punto di vista della mondializzazione - le funzioni delle metropoli e la loro forma che sembrano presentare infrastrutture identiche e rendere identiche tutte le metropoli – e dall’altra si rafforzano le identità dei singoli frammenti.
Oggi sappiamo che costruire la città e il territorio non è una scienza. E’ un’azione che si nutre di approcci multidisciplinari e, nello stesso tempo, è il frutto della visione della cultura personale dell’architetto-urbanista. L’autonomia non è frutto dell’arbitrio ma della capacità di creare un “racconto spaziale”, una coerenza interna costruita a partire dalla composizione di elementi disparati. Il disegno è allora la formalizzazione di questo bricolage sapiente.
Nella sua Autobiografia scientifica Aldo Rossi scrive sul “doppio senso del tempo”: fenomeno atmosferico e fenomeno cronologico. Ma nel termine “cronologico” si nascondono altri “tempi”. Il tempo della storia e il tempo della memoria. La città europea possiede la qualità secolare di non confondere tali due temporalità che appartengono, la prima al mondo intellettuale, la seconda al mondo dell’esperienza e del vissuto. In seguito agli studi degli storici, antropologi e sociologi francesi, gli architetti francesi e italiani tra gli anni 1930 e 1970 hanno saputo distinguere tra, da una parte, il tempo dell’esperienza, delle pratiche e dei modi di vita - il tempo dell’oralità - e, dall’altra, il tempo degli strati e dell’osservazione dei diversi strati - tempo della scrittura, dell’archeologo, dell’architetto.
Ma la museificazione forzata, il livellamento del tempo della memoria e del tempo della storia non rischiano di confondere ciò che appartiene alla “permanenza” e ciò che appartiene alla “trasformazione”? Non rischiano di togliere forza allo zoccolo archeologico, cioé al ragionamento spaziale tra ciò che deve essere perennizzato e ciò che può essere trasformato? Nello stesso tempo, un altro rischio di tale amalgama non è quello di museificare la tipologia e di degradare il rapporto tra luogo e tipo, quale lo intendeva Samonà?
Da una parte le reti si estendono, con macchine sempre più perfezionate, legate alla domanda di non lasciare nulla racchiuso all’interno dell’area metropolitana e all’idea che ciascuno possa muoversi dove e quando lo desidera. Rivendicazione leggittima mi si dirà.
Ma l’idea della mobilità per “tutti” non lascia spazio alla questione sociale e culturale dell’immobilità di una certa parte della popolazione. Il nuovo tornante della storia della città e del lavoro, legato alla storia del consumo della città-territorio, viene adottato come modello per il progetto di territorio[1]. E la rivendicazione di una riduzione del tempo passato nei trasporti diventa sinonimo di rivendicazione del tempo legato al consumo di merce e di spazio, come, a livello geostrategico ed economico, dimostra l’esempio dell’eccessivo consumo del rapporto spazio/tempo e l’ipertrofia degli aeroporti delle compagnie dei voli low-cost.
Si può percepire lo spazio in più maniere in funzione della propria cultura, del proprio stato psicologico, delle ragioni dello spostamento. Ma quando si è architetti e si ha come obiettivo di fare un progetto per un certo luogo, la percezione di quest’ultimo dipende dal mezzo di trasporto e dall’estensione dello spazio da percorrere. In funzione della scala del progetto, si deve cercare di conoscerne lo spazio e di “percorrerlo”, di sentirne gli “odori” e i profumi, di coglierne i colori e le forme. Come percepire allora uno spazio di diversi chilometri quadrati da attraversare con un treno ad alta velocità? La distanza e il mezzo di spostamento implicano un salto di scala e quindi di metodo. Non si progettano allo stesso modo un quartiere, un settore industriale in disuso e un territorio che si può cogliere, nella sua estensione, solo grazie ad un’immagine satellitare. Se per l'urbanista è possibile concepire un piano regolatore a partire da una carta alla scala 1:20.000 oppure 1:50.000 (si tratterebbe allora di una suddivisione spaziale delle funzioni economiche in senso largo), l'architetto-urbanista adeguerà il metodo alla scala. Il suo metodo sarà quello dei ritagli e del lavoro per sequenze, in modo da poter cogliere e capire ciò che è afferrabile e che costituisce la realtà da prendere in considerazione: città, pezzi di città, villaggi, paesi, fiumi, ruscelli, campi e valli, colline, piane coltivate, foreste e boschi disegnano una geografia e una topografia storica che non si può leggere se non attraverso sequenze spaziali. Non si può progettare un territorio - e soprattutto il territorio europeo, con la sua storia e la sua stratificazione sociale, culturale, spaziale - come si progetta un oggetto architettonico. Occorrono “strumenti architettonici” che permettano di lavorare ad ogni scala. La differenza è data dal grado di astrazione: i concetti astratti per progettare un edificio sono di tutt’altro ordine rispetto ai concetti astratti per progettare un territorio.
«Con gli strumenti architettonici noi quindi favoriamo un evento,
indipendentemente dal fatto che esso accada; […] Perciò il dimensionamento di
un tavolo, o di una casa, è molto importante; non come pensavano i
funzionalisti, per assolvere una determinata funzione[2] ma per
permettere più funzioni.
Infine per permettere tutto ciò che nella vita è imprevedibile.»[3].
Tale affermazione di Aldo
Rossi può essere letta come una metafora: come può il progetto architettonico,
finito, costruito materialmente, accogliere, malgrado la sua indispensabile
“certezza”, l’incertezza dell’imprevisto sociale? In altri termini, come può
l’aspetto sociale - l’”immateriale” - trasformare e alterare le funzioni
prestabilite dall’architetto? Se ciò è più facile da concepire alla scala
dell’edificio, dovrebbe esserlo anche alla scala del territorio, in cui più situazioni e configurazioni si succedono. Ma spesso noi architetti-urbanisti,
perché non afferriamo l’ampiezza del problema, confondiamo forma e configurazione.
Confondiamo contesto (per definizione
statico) e situazione (per
definizione dinamica e cangiante).
La costruzione dello spazio non è una pratica narcisistica: è una pratica che ha bisogno dell'apporto di altre discipline. Costruire lo spazio è una pratica poietica (nel doppio senso del termine poiesis, creazione e forma del fare) e creazione “poetica”, che non è autosufficiente: si tratta di una “poetica collettiva”. In questo modo l’urbanistica si apparenta all’epos: un racconto collettivo, un racconto di azioni collettive racchiuse e strutturate all’interno di un’opera. Nel nostro caso si tratta di un racconto spaziale, di un “racconto di un territorio”, internamente coerente e che integra dei racconti parziali, esattamente come l’Odissea è composta da storie autonome che si integrano nell’insieme: il viaggio epico di Ulisse.
Se è chiaro che l’urbanistica, in quanto cultura e azione cosciente, nasce in Europa all’inizio del 20° secolo, lo è anche il fatto che in ogni paese le pratiche urbanistiche sono differenti, anche se legate spesso alle stesse dottrine. Ciò dipende dal fatto che i regolamenti, le leggi, le logiche degli attori, le scale, le storie delle città, le politiche e le strategie sono altrettanto differenti. Basta osservare le politiche urbane in Francia e la loro differenza rispetto all’Italia, malgrado la porosità delle idee tra i due paesi. Si è creduto che, in seguito alla mondializzazione e alla globalizzazione, e a causa dei modelli formali imposti ovunque dalle grandi personalità dell’architettura, le pratiche legate alla costruzione del territorio fossero intercambiabili. Ma, lo ripeto, non si costruisce il territorio come si produce un oggetto di architettura.
Il progetto del territorio non è monosemico, non ha dappertutto gli stessi significati e gli stessi valori. Il rapporto, non tanto tra “fattori naturali e fattori umani”, quanto tra cultura della natura e cultura urbana, differisce non solo per ragioni climatiche e “naturali”, ma soprattutto per ragioni di “cultura”, di visione legata alla civilizzazione. E allora la questione fondamentale diventa: quale forma di civiltà presente futura vogliamo costruire?
Yannis Tsiomis. Architetto, vive e lavora a Parigi. È professore Ordinario di progetto urbano all'Ecole d'Architecture de Paris “La Villette” e direttore di ricerca all'EHESS. Ha fondato nel 1987 l'Atelier AYTA e nel 2009 l'Atelier CMYT. Ha realizzato numerosi interventi di riqualificazione urbana e progetti di edifici pubblici, culturali e abitativi.
[1] «De la ville industrielle et industrieuse à la ville commerçante et consommatrice», Entretien avec Nancy L. Green, in Libérale ou libérée. La ville monde. Mouvements, 39/40, 2005, pp. 25-30.
[2] Sottolineatura mia (YT).
[3] Aldo Rossi, Autobiografia scientifica, Milano 1999, p. 13