Molto probabilmente chiunque si sia sintonizzato su MTV nel lontano ottobre 2002, sarebbe capitato sul video musicale del primo single post-boyband di Justin Timberlake. Il videoclip mostrava il cantante che danzava e flirtava davanti ad un minimarket 7-Eleven sul Pacific Avenue di Virginia Beach. Circondato da muscle car, BMX e adolescenti gironzolanti, l’ambientazione suggeriva un’urbanità suburbana molto americana, che per alcuni 1, per alcuni, rappresentava forse il primo incontro con la catena minimarket. Però, mentre il videoclip dipingeva il 7-Eleven come un luogo di scambio sociale, il suo edificio in mattoni lo classificava come una tipologia piuttosto superata. Una sorta di distributore di benzina ben-attrezzato ma senza benzina, capace di poter essere inserito in qualsiasi tessuto urbano che potrebbe offrire abbastanza spazio per accomodare un parcheggio fuori misura?
Al contrario: se Timberlake fosse sceso qualche centinaio di metri lungo Pacific Avenue su una delle bici presenti nel suo video, si sarebbe ritrovato di fronte ad un'altra filiale 7-Eleven, seguita, ad intervalli regolari, da numerosi altri minimarket – ripetendosi come in uno sfondo dei primi cartoni animati della Disney. Una vista su una mappa più grande dimostra che l’equazione che definisce questa trama viene da una strategia commerciale che cerca di dominare le aree riducendo la distanza fra i siti dei negozi ad un raggio di un miglio e mezzo per siti indipendenti (come quello nel video clip). Un intervallo ridotto ad un mero quarto di un miglio per negozi urbani “walk-up” 2 (con sportello d’accesso). Ma per implementarsi e raffinarsi totalmente su questa seconda scala più piccola, la 7-Eleven ha dovuto prima girare le spalle alla “Autostadt” americana, alla ricerca di un tessuto urbano adattato che avrebbe trovato altrove.
In ultima analisi il Giappone risulta essere il focolaio urbano fertile di cui la 7-Eleven necessitava. Trasferitosi nel novembre del 1973, sei mesi dopo ha aperto il suo primo negozio, lanciando operazioni 24-ore su 24 dal 1975, verso la fine del 1979 aveva già raggiunto 1000 negozi acquisendo la sua holding americana (ormai fallita) nel 1991 e continuando una crescita costante che attualmente conta un totale di 18000 negozi – un terzo delle sue filiali mondiali 3. Sebbene in Giappone la 7-Eleven è leader del suo segmento di mercato, operando quasi 1 minimarket su 3, il franchiser è stato rapidamente affiancato nella sua crescita da altre catene come Lawson, FamilyMart o Circle K Sunkus. Complessivamente, operano 55000 negozi (1 per 2320 abitanti), raggiungendo 5% delle vendite annuali al dettaglio in Giappone 4.
In giapponese, i minimarket si chiamano “konbiniensusutoa”, accorciata in konbini, una parola di prestito traslitterata e pronunciata nella sintassi della lingua giapponese dall’inglese “conveni(ence store)”. La loro “giapponesizzazione” ed espansione rapida, è stata favorita dall’alto numero di pendolari di mezzi pubblici, dallo sviluppo precoce della logistica altamente computerizzata, dal basso tasso di criminalità nel Paese (un prerequisito per orari continuati) e, alla fine, anche dal suo tessuto urbano molto specifico. In effetti, anche se le città giapponesi sono sinonimo di urbanizzazione, possono sempre offrire momenti meno “fitti” – quindi tranquilli e confortevoli. Un tipico isolato a Tokyo è circondato da palazzi alti per abitazioni e uffici, che nascondono una complessa rete capillare di vicoli stretti affiancati da abitazioni monofamiliari.
Questa condizione ibrida è il risultato di regolamenti sulla prevenzione degli incendi, soprattutto quelli introdotti dopo i due roghi importanti a Tokyo: il grande terremoto Kanto nel 1923, e i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Imparando da queste sciagure, il governo ha marcato le strade principali come rotte d’evacuazione in caso d’emergenza e le zone limitrofe conseguenti come zone commerciali. Consentendo un incremento nel rapporto dei solai di questi edifici, le conseguenti “torri a matita” formano una sorta di mura cittadine che circondando le zone residenziali basse e impediscono l’estensione di un incendio da una zona all’altra. Yoshiharu Tsukamoto, co-fondatore dell’Atelier Bow-Wow, paragona la morfologia di questi villaggi urbani a dei profiteroles, che si chiamano, shūkurūmu in giapponese – una traslitterazione derivata dalla lingua francese (pâte à) choux, e dalla lingua inglese cream.
Questa parola ibrida descrive due qualità molto diverse: una esterna e dura (lo choux) che è simultaneamente veloce e caratterizzata da traffico veicolare cittadino, e una interna e morbida (il cream) presentando una scala più lenta e umana che è stata amplificata nel corso del tempo dalle sempre maggior suddivisioni di lotti privati 5. La 7-Eleven si avvicina a questi quartieri “creando negozi incentrati sulla comunità che comprendono le caratteristiche della zona commerciale”. Attraverso questa contestualizzazione, sono determinati il design e le dimensioni dei negozi (30-250m²)6, e il loro inventari flessibili vengono adeguati alle esigenze del quartiere. La realizzazione del sogno di un Metabolista, come sostengono gli architetti Hiromi Hosoya e Markus Schaefer: “Sono soggetti ad una strategia, non una forma; una rete, non un’architettura; un algoritmo, non un’ideologia. La loro presenza urbana è puro processo.”7
Questi fattori producono un'urbanità altamente “vitaminizzata”, nella quale i Konbini sembrano aver contribuito nel livellare il paradigma fra abitare collettivo e individuale. Se la loro über-compatibilità era la premessa per la loro installazione, il loro contributo nel formalizzare e consolidare questi ambienti “cremosi”, ma sempre metropolitani, hanno anche facilitato un certo tipo di architettura. Raramente passa un giorno in cui “emittenti di architettura” come ArchDaily o Dezeen non ci salutino con una nuova casa giapponese8. E mentre ci possiamo spiegare la dimensione, l’ubicazione e la stravaganza di questi progetti basati su fondamenti storici e culturali, il design di tanti sarebbe inimmaginabile altrove, dove l’individualismo e l’auto-sufficienza determinano sempre più istericamente gli elementi delle case suburbane: box, piscina, giardino, cortile, etc.
L'evidenza di una mentalità che ha imparato ad esternalizzare certe componenti "fondamentali" dell'abitare individuale si può infatti trovare in alcune delle case giapponesi più note degli ultimi decenni. Mentre la Casa Curtain Wall di Shigeru Ban (1995) si era sempre limitata ad affrontare e mescolare gli antagonismi dello spazio privato e aperto, la Casa Moriyama di Ryue Nishizawa (2005) aveva già fatto esplodere i volumi che costituiscono una “casa”, mentre la Casa NA di Sou Fujimoto (2010) procede a dissolvere gli spazi interiori ed esteriori. Progetti che hanno come precondizione che i servizi della citta' sono sempre raggiungibili, sempre aperti e disposti ad offrire esattamente quello che si cerca. Con il loro inventario flessibile, i negozi tipo 7-Eleven sono una sorta di punto culminante pragmatico di omotenashi, un termine al cuore dell’ospitalità giapponese, che descrive l’intuizione dei bisogni dell’ospite da parte dell’ospitante.
Oltre al cibo, i Konbini offrono servizi di bancomat, servizi postali di consegna e di pagamento (utenze e imposte), di biglietteria e recentemente anche servizi comunali con l’emissione di permessi di residenza (juminhyo). Essendo teoreticamente esattamente quello che si cerca – sia come turista, abitante o lavoratore di una zona – i Konbini anticipano anche i bisogni di un’intera città, sia a livello micro che meso.. Mentre luoghi per interazione informale e sociale come il chiosco tedesco, la boulangerie francese, il bar italiano o le “latterie” polacche sono vincolati ad un’unica funzione e con orari limitati, i Konbini hanno il surplus di rendere “la metropoli” disponibile 24 ore al giorno, a pochi metri dall’uscio di ogni abitante. Un picco di attività è possibile ovunque ed in qualsiasi momento; la metropoli è sempre pronta.
Note
1Anche se la 7-Eleven è il più grande operatore di minimarket nel mondo, si trova in solo 16 Paesi.
2 Strategic Retail Management, Zentes, Morschett, Schramm-Klein, 2a edizione 2011
3 Annual Report 2014, Seven & i Holdings Co. Ltd.
4 lawson.jp/en/about/business/
5 Una manovra spesso necessaria per i successori di proprietari terrieri, dovuta alle alte imposte di successione applicate in Giappone (fino a 50%)
6 Regulation, Distribution Efficiency, and Retail Density, David Flath in Structural Impediments to Growth in Japan, National Bureau of Economic Research (2003)
7 Tokyo Metabolism, Hiromi Hosoya, Markus Schaefer in The Harvard Design School Guide to Shopping, Rem Koolhaas et al. (2001)
8 Due case Sou Fujimoto si trovano la controparte sul Top 10 of the Most Visited ArchDaily Projects of All Time. La sua controparte più orientata al design, Dezeen, presenta persino un suo archivio con più di trecento di queste delizie: #japanese-houses.
Andreas Kofler è architetto, urbanista e scrittore freelance, basato a Parigi e Tokyo. Ha lavorato per OMA/AMO, I’AUC e Dominique Perrault, prima di co-fondare Weltgebraus. La maggior parte dei suoi progetti implicano una declinazione multidisciplinare, come il lavoro su la Grande Parigi (DPA/l’AUC), la Grande Moscova (l’AUC), Prada (AMO).