Prato, Italia. Lungo una strada tranquilla della zona industriale ‘Macrolotto 0’, le finestre rotte di fabbriche fatiscenti sono rattoppate di cartone, carte, e quadrati di tessuto. La strada è vuota, tranne qualche furgone bianco indolente al bordo del marciapiede. Ma non è proprio deserta, la strada è in realtà pullulante di vita. Da tutte le pareti e da tutte le finestre emana il suono inconfondibile di macchine da cucire.
La strada continua oltre lotti vuoti fitti di erbaccia, quindi un insieme di condomini alti, le loro pietre bagnate di pioggia e il bucato appeso ai loro balconi. Compare qualche faccia dall'alto; un uomo che fuma una sigaretta, un bambino incuriosito, seguito dalle urla della madre che l’aspetta.
Poi la strada costeggia un campo totalmente reclamato dalla natura, con l’eccezione di un gruppo di fichi che crescono sopra un appezzamento di erba meticolosamente spuntata. Nella lontananza ci sono le coperture argentate a forma di barile della storica città-fabbrica. A sinistra gli edifici bassi del campus di una scuola. Le sue facciate forate di forme geometriche presentano un aspetto nobile, in accordo con un modello di Suprematismo architettonico popolare negli anni 60, anche se questi edifici sono stati completati nell’ultimo decennio. Al bordo del campus compare una strada larga con macchine che passano velocissime. Vicino al negozio di telefonini e alla gelateria vi è una donna cinese con un marsupio che vende il corpo per denaro e abita da sola nella piazza.
Prato rappresenta uno studio di crescita collaterale nell’industria tessile, che ha influenzato la condizione architettonica. Negli anni del dopoguerra, i pratesi hanno sviluppato metodi di specializzazione in parallelo al modello di produzione di massa dei loro concorrenti in Giappone e nell’Europa Orientale. Hanno dissolto i loro grandi stabilimenti integrati a favore di piccole aziende subappaltate, focalizzate sulle tecnologie anziché sulle tendenze. Già negli anni 80, la fabbricazione artigianale pratese aveva mostrato un valido modello produttivo, le cui banche, i sindacati e le associazioni industriali si sono sistemati per aumentare ulteriormente la flessibilità di legami interaziendali1. Inoltre, era negli anni 80 che è cominciato il flusso di immigrazione cinese. Dal lavoro tessile subappaltato, i cinesi hanno sviluppato un’industria di abbigliamento centrata sulle “pronto moda”. Le “pronto moda” sono final firms, normalmente con dieci impiegati al massimo, che ideano, tagliano e commerciano indumenti finiti, producendo lavori tutti con l’etichetta “Made in Italy”. Il successo di questi “prontisti” sta nel loro opportunismo – importano tessuto di più bassa qualità dalla Cina, producono indumenti fuori dal calendario regolato dalla moda italiana e sfruttano manodopera cinese locale2. Il loro giro d’affare continua a crescere nei processi secondari come tintura e stampa, mentre la fabbricazione tessile italiana si sta rapidamente restringendo.
La disaggregazione fisica della città rispecchia questo modello dispersivo di specializzazione. La città-fabbrica rappresenta una fusione dell’abitare, del lavoro e degli spazi civici il cui modificatore comune è l’impresa subappaltatrice familiare. Il rapporto fra famiglia e lavoro nell’epoca post-bellica ha sviluppato una tipologia unica di fabbrica a Prato, in cui il capanno della fabbrica e la casa familiare condividono un cortile3. Una mappa della zona industriale accanto al fiume Bisenzio mostra la condizione della città-fabbrica negli anni 90 (Immagine 1). La griglia della città è un patchwork di edifici industriali di diverse dimensioni, che svolgono tutte le fasi del processo di tessitura. Gli isolati sono divisi e mescolati con palazzi residenziali a scala ridotta oltre a condomini con ampi varchi di spazio comunale e commerciale. In una città dove il lavoro piuttosto che il tempo libero ha definito la ricerca di identità, il dominio dello spazio è incompiuto. Ciò nonostante, è stata l’autorità dell’accumulazione capitalista che ha guidato la composizione della città. Il fatto che i lavoratori cinesi svolgono lavoro frammentario, per molte ore, con i loro figli dentro lo stesso spazio caotico, si può vedere come un’esacerbazione di una condizione consueta. Più preoccupante è lo stato delle fabbriche dove lavorano e vivono i cinesi. Un rogo mortale nel dicembre del 2013 ha rivelato la mancanza di vigilanza sulla sicurezza del lavoratore e dell’edificio tra le pronto moda della città. Eventuali uscite erano bloccate da cumuli di tessuti infiammabili, mentre i lavoratori dormivano in piccole stanze al mezzanino. I supervisori cinesi della fabbrica, che dormivano in una camera vicino alla porta principale, sono riusciti a salvarsi. I fratelli italiani proprietari, che affittavano e mantenevano l’edificio sono stati processati4.
La vera rivelazione è la difficoltà di attribuire la colpa. Spinti da campagne politiche di destra, gli italiani hanno definito gli insuccessi della propria economia per via dei successi del business cinese a grandi linee xenofobiche. Incolpano i cinesi di aver rubato i loro posti di lavoro, anche se le pronto moda rimangono un’industria separata dai tessuti italiani, mentre i tessuti, globalmente, si sono arresi alle forze della produzione di massa. Essi accusano lo sfruttamento e gli abusi sui lavoratori da parte degli imprenditori cinesi, anche se le lamentele sono sorte contro gli imprenditori italiani. Attribuiscono il degrado fisico della loro città alla presenza cinese, anche se i proprietari italiani continuano ad affittare i loro spazi insalubri mentre chiudono un occhio sul loro utilizzo. Nonostante la collusione di forze culturali, il risultato di questa polarizzazione è sempre più una invisibilità per i cinesi. Nella sua forma più insidiosa, il lavoro racchiude la vita dei lavoratori, che non occupano uno spazio fisico dignitoso durante il giorno, ma vivono e muoiono nell’ombra del loro lavoro.
Ma prendiamo in considerazione questa alternativa, dove l’industria collaterale pratese dimostra la sua autorità. Durante una visita recente, mi hanno condotto lungo una strada tranquilla dentro il cortile di una fabbrica circondata da una serie di palazzi ad un piano solo. Alcuni avevano le imposte chiuse e sembravano abbandonati, ma altri erano in uso. Una porta dava su una stanza con file di macchine da cucire e piani di taglio. Da un capanno non molto più grande di una vasca, è arrivata una donna che portava piatti di cibo caldo, portandoli nell’officina. La porta dell’edificio accanto portava un crocifisso rosso; lì dentro, lo spazio è stato suddiviso in un santuario grande e una serie di sale da comunione più piccole. Attraversandole, ho trovato una cucina minuscola, non molto più larga dell’apertura alare di un uomo adulto, incastrata fra due pareti esterne e rivestita di plastica. Alcune donne stavano davanti ad una fila unica di fornelli, preparando cibo per la congregazione. (Immagini 2-6)
Mi hanno informato che il palazzo era in affitto, non di proprietà, ed è stato convertito in chiesa. Le pareti erano intonacate in maniera grossolana e le stanze erano senza riscaldamento. La dimensione irrisoria della cucina rappresentava una violazione delle norme di sicurezza, ma tecnicamente si trovava all’esterno. La sua ubicazione fra due edifici rispecchia l’ultimo gesto di una serie causale di conversione abusiva, però rappresenta anche l’inclinazione per momenti di ozio, o relax, in un luogo di lavoro. Il ronzio delle macchine da cucire dalle pareti attorno anima la cucina, e la chiesa. Se le fabbriche a Prato sono operative sette giorni alla settimana, l’ubiquità di spazi insoliti reclamati dalla griglia esistente potrebbe indicare che il lavoro non è senza soluzione di continuità come temiamo.
Durante la stessa visita, un rappresentante dal centro di commercio ha condiviso con me le sue speranze per la decadente industria tessile italiana, e anche per la sua xenofobia. Nella visione sua visione, i giganti della fast fashion globale come Inditex o H&M non solo spingeranno le aziende tessili verso tessuti utilitari, ma imbriglieranno anche la capacità produttiva delle pronto moda, unendo le eterogenee industrie pratesi ed aumentando la scala della sua produzione5. Perché questa forma di investimento porti benefici all’innovazione e imprenditorialità locali, dovrebbe fidarsi del lavoro subappaltato e della produzione su scala ridotta per fornire una filiera centralizzata. Cioè, la trasformazione fisica dello spazio non deve essere né grandiosa né utopica, ma irrisoria o invisibile. Perché la fabbrica convertita in chiesa e la sua cucina possano funzionare come conoscenza intrinseca e risorse per la costruzione, le condizioni per la loro costruzione devono essere coltivate. Infatti, furono le stesse condizioni di specializzazione collettiva che generarono la classica griglia della città-fabbrica. Quindi la tragedia della globalizzazione può essere riconosciuta ed esacerbata tramite una negoziazione diasporica di identità.
1 Michael J. Piore and Charles F. Sabel, The Second Industrial Divide: Possibilities for Prosperity. New York: Basic Books Inc., 1984, pp. 213-16, 226-29.
2 Antonella Ceccagno, “Chinese Migrants as Apparel Manufacturers in an Era of Perishable Global Fashion: New Fashion Scenarios in Prato,” Living Outside the Walls: The Chinese in Prato, (a cura di) Graeme Johanson, Russell Smyth e Rebecca French. Newcastle upon Tyne: Cambridge Scholars Publishing, 2009, 42-74.
3 E’ stato Bernardo Secchi ad usare per prima il termine mixité per descrivere gli spazi pubblici e privati, produttivi e residenziali, che costituiscono l'impianto di Prato. Il suo racconto, con piani e schemi dettagliati, è stato pubblicato come Un progetto per Prato: Il nuovo piano regolatore (Firenze: Alinea Editrice, 1970).
4 Marco Imarisio, "Fai sparire tutti i macchinari" I due italiani del rogo di Prato, Corriere della Sera, 21 marzo 2014, pagina 21. Erika Kinetz, “Fire Exposes Illegal Chinese Factories in Italy,” www.bigstory.ap.org, October 20, 2014.
5 La rappresentante desidera rimanere anonima grazie alla natura speculativa dei suoi commenti. L'intervista è stata condotta il 22 Maggio, 2014 nel centro di commercio, Prato, Italia.
Mei Lun Xue è architetto e Responsabile di Progetto presso il Fast Retailing Group, la cui sussidiaria primaria è la marca d'abbigliamento Uniqlo. Ha preso un Master in Architettura all'Università di Princeton nel 2013. Attualmente lei è di base a Parigi.