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Thomas Mical

La dispositio informale della "Soft Machine"

Jan Kaplincky, Selfridges Building a Birmingham (2003)

Jan Kaplincky, Selfridges Building a Birmingham (2003)

Abstract
Questo saggio affronta i termini concettuali e le conseguenze di una forma “soft” di dispositio vitruviana come possibilità attuale della relazione tra architettura e città. La tendenza verso il “morbido” e l'informale nell'architettura e nel progetto urbano genera nuove modulazioni concettuali  del tessuto urbano. I processi sociali di assemblage di componenti corrispondono oggi ad un avanzamento, in cui una dispositio “soft” ordina le mutevoli fasi/spazi della vita urbana e sostituisce la precedente logica modernista astratta delle macchine, dello spazio striato e del determinismo funzionale.

Lo scarto verso sistemi aptici, pneumatici e “morbidi”, che animano le pratiche artistiche e architettoniche delle neoavanguardie del dopoguerra, si può far risalire alle sperimentazioni letterarie di William Burroughs, specialmente l'affascinante figura della “soft machine” nell'omonima novella “cut-up” del 1961. (1) Qui, il corpo umano, come “macchina morbida” originaria, sostituiva il determinismo tecnologico, ripensando e rivificando l'obsoleto nucleo epistemico del progetto dello spazio. La “soft machine” come figura retorica corrispondeva dunque ad una richiesta di ammorbidire le strutture concettuali e i tessuti urbani che dominavano la tarda (post-umana) età della macchina. (2) Negli anni '60, coerentemente con i dettami delle economie industrializzate, che producevano macchine e ordinavano sistemi (3), l'edilizia e la pianificazione concepivano ordini e configurazioni convenzionali, costituiti da griglie e rigide strutture spaziali funzionaliste. Fin dall'origine vitruviana, le prime macchine seguivano due modelli di movimento: lineare e ciclico, a diverse scale, in combinazioni multiple di macchine, che producevano altre macchine e definivano l'aspetto della città. (4) L'industrializzazione del processo edilizio nei primi anni del XX secolo, inconsciamente,  è stata accettata come il modello dominante per tutte le decisioni del dopoguerra, condizionandone l'immaginario e l'inconscio. (5) Il lento movimento da un'età della macchina a un'età dell'informazione, da processi architettonici indirizzati dall'industria edilizia a processi architettonici orientati da sistemi di controllo cibernetico, la declinazione “machinic” dello spazio vitale (e dei valori) era lo sfondo culturale, che irradiava dall'umanità della “soft machine”.

La crescita di intelligenze architettoniche avanzate – definite qui come domini di conoscenza interconnessi e interrelati, che nella loro relazione favoriscono la crescita di altre architetture e non possono produrre nuovi schemi senza e al di fuori dell'architettura – esercita una pressione sulle pratiche architettoniche e urbanistiche, e specialmente, una sempre maggiore attenzione verso l'interfaccia tra architettura e città. La crescente complessità delle relazioni nei sistemi edilizi in evoluzione e l'emergere di sistemi cognitivi sempre più complessi inducono ad immaginare nuove visioni e pratiche progettuali a tutti i livelli dell'interfaccia mutevole tra architettura e città. In precedenza, le scene di città “reattive”, incorniciate da superfici high-tech piuttosto che low-tech e offerte come scorci di vita a episodi nell'età della televisione dall'estetica degli anni '70, ha sollecitato la città e i suoi spazi a ripensare la natura dei propri processi progettuali, operando formativamente dietro e oltre le strutture convenzionali del piano orizzontale (6): l'animazione video ha rinforzato la capacità visionaria dei progettisti di assorbire esperienze cinematiche, “sezioni mobili” di città come dispositivi di controllo aperti, cioè mescolando e intrecciando apparati e percezioni di macchine “soft” e “hard” allo stesso tempo – un modello di dispositio  operazionale permanente e continuo. Per l'architetto (e in minor misura per il pianificatore) la composta e calcolata micro-disposizione dell'ordine interno di scatole metalliche e organismi spaziali, di consuetudini e codici ha guidato la formulazione di programmi funzionali, che hanno fatto da contorno ad una formatività estetizzante, basata su una una logica per edifici/macchina/oggetto secondo linee guida e criteri di performance, che regolano il sociale attraverso (o intorno) all'estetico.

La svolta millenaria dell'architettura verso l'atmosferico e l'affettivo indica, nell'ipermodernità in cui viviamo, sia un movimento che ci allontana da processi e protocolli di progettazione lineari, sia il segnale di una maggiore sensibilità e riflessività delle forze (intese come cause) che indirizzano configurazioni architettoniche e urbane maggiormente reattive, adattabili e sostenibili. In particolare, la crescita dell'effimero e del contingente come nuove forme di modelli generativi “soft” e l'aumento dei processi aperti non segnano tanto una virata dalle precedenti forme di controllo e di calcolo, quanto un innalzamento degli obiettivi, che questi avanzati strumenti di prefigurazione consentono. Cominciato negli anni '90, lo sviluppo da una pianificazione lineare verso il progetto di scenari esperienziali flessibili era chiaro. Nel racconto sull'evoluzione del proprio lavoro, pubblicato dallo studio UN, ad esempio, il passato tipologico indietreggia nel momento in cui si passa dal disegno dell'architettura al disegno di diversi modelli concettuali, che sottendono l'architettura; nel caso di Toyo Ito e SANAA, lo schema architettonico volge complesse  informazioni tecniche in astrazioni semplificate – intendendo lo spazio come un vuoto continuo -  “spazio bianco / rumore bianco” - disponibile alla proiezione di differenti stati d'animo: un'architettura prossima al suo grado zero, il cui contenuto riflette e corrisponde al movimento dei corpi e degli sguardi, che accoglie. La svolta strutturale verso metodologie cosiddette di “informale strutturato” (Cecil Belmond) e quella artistica verso l'informale e il senza-forma caratterizzano la dissoluzione del moderno “duro”.

A mo' di indizio, porto tre esempi riguardo l'approssimarsi sul nostro orizzonte urbano di quella che sembra con sempre maggiore evidenza una cultura della “soft machine”: i Future Systems di Jan Kaplincky per il Selfridges Building a Birmingham (2003); la Kunsthaus di Graz (2003), opera di Peter Cook e Colin Fournier; e, più recentemente, il Museo Soumaya a Città del Messico (2011) di Fernando Romero (con Arup Group e Gehry). Ognuno di loro trae la propria specificità e “ammorbidimento” formale nel passaggio da una configurazione statica ad una superficie ora concava ora convessa, le cui pieghe dalla geometria assai poco convenzionale generano ulteriori  incertezze nella relazione col contesto urbano circostante, definito dalla griglia della città tradizionale. In queste pelli noi vediamo una composta e calcolata logica della ripetizione e della differenza minima e in questa spazialità noi cogliamo le dotazioni di spazi aperti e chiusi che la “soft machine” mette al servizio delle superfici aperte e chiuse della città, in cui è immersa.

La nuova dispositio “soft”, che regola l'interfaccia tra architettura e città è di estrema importanza oggi. Le precedenti prefigurazioni futuribili di sistemi aptici, pneumatici e morbidi oggi hanno assunto la forma di sostanze biomimetiche e animate, di tecnologie invisibili e di proposte architettoniche responsive, intelligenti e senzienti, volgendo le variabili imprevedibili della configurazione urbana in costanti leggere – ciò nel segno di un nuovo razionalismo efficiente e dunque etico. Di fatto, il faccia a faccia tra architettura e città sulla facciata dell'edificio ha sempre avuto un ruolo fondamentale: normalmente, un edificio è un brand, che ospita performance e programmi, e condiziona tutti i registri dello sviluppo urbano, rispetto al quale l'osservatore esterno può solo essere compreso tra le fugaci impressioni delle superfici discontinue della città-macchina. Invece, gli esempi precedenti di una nuova gamma di dispositio e organizzazioni “soft”, di geometrie informali e senza una gerarchia predefinita, di edifici e sistemi urbani (infrastrutture “hard” e “soft” alle diverse scale) ibridi e flessibili, eludono gli imperativi e le forzature dell'uniformità e della continuità dell'ambiente urbano (ordinatio). Le pressioni politiche e sociali si esprimono attraverso nuovi mezzi e un nuovo immaginario, che guidano i modelli e i processi di sviluppo urbano. Per esempio, geometrie di rete e trasformazioni scalari, come per una nuova app, hanno sostituito la precedente città estetizzante a episodi televisivi.

L'influenza della dispositio della nuova “soft machine” – la dispositio informale – cresce di pari passo all'aumento della gamma dei modelli e dei processi pensati ed immaginati. Mentre edifici ibridi, meticciamenti tipologici o la rigenerazione delle infrastrutture non fanno altro che replicare il buon vecchio progetto urbano, le potenzialità teoriche dei nuovi modelli in relazione ai codici dell'architettura sono in grado di strutturare il pensiero architettonico per condizioni di campo mutevoli (Stan Allen) e spazialità fluttuanti (Manuel Delenda), a differenza delle assialità graticolate dello spazio striato e delle sovrapposizioni funzionali della metropoli moderna – in altre parole, il “liscio” e il “poroso” sostituiscono la flessibilità generica dello spazio striato. La “soft machine” è naturalmente predisposta ad assemblage “morbidi” – com'è nella “griglia bagnata” di Kiesler: “(…) deve essere un assemblage eterogeneo a dimensioni multiple (…) superfici forti e deboli compongono lo spazio ibrido della morbidezza.” L'assemblage, più che alla rete, tende verso uno spazio flessibile ed elastico, all'estensione e alla fluidità delle sue componenti e relazioni. Per meglio dire, le estetiche processurali sostengono che le connessioni si sviluppano a partire da condizioni pulsanti effettive – l'agilità degli attributi – di un ambiente/spazio/urbanità, che generano assemblage “morbidi” (e transitori), senza la presenza “dura” di oggetti/identità che precedono le  relazioni e la formazione delle reti. Nell'assemblage della “soft machine”, lo spazio liscio non possiede un unico centro dominante, ma veicola migliaia di punti di inflessione in un reticolo retroattivo di valvole architettoniche informali, movimenti-spazio e sistemi minimizzati.

La “soft machine” come interfaccia urbanistico non è più compreso in un tutto uniforme e continuo,  costituito da uno spazio universale e predeterminato dell'esperienza, ma occupa solo le traiettorie condivise di uno spazio trasparente, che colloca le prossimità urbane dei movimenti all'interno di una gamma di latenze mutevoli e indotte ogni volta daccapo – non troppo diversamente dalla dispositio vitruviana intesa come campo di possibilità. All'interno di una struttura “morbida” così pensata, la dispositio informale è in grado di concepire forme di organizzazione e spazialità all'interno di un progetto riflessivo e ricorsivo, evitando di produrre singoli oggetti fissi con i suoi rivestimenti simulacrali, in favore delle dinamiche “soft” di una nuova architettura urbana. Qui il progetto diventa il continuo affinamento architettonico di modelli e di processi, in cui ogni ripetizione si sottrae a tentazioni estetizzanti e oggettuali ed è continuamente tesa verso assemblage alternativi, nodi di sensazioni prossimi ad uno spazio liscio, che trasformano o dissolvono gli schemi fissi e categorici in un intrico intenzionale di ricorrenze e avvolgimenti, che divengono future possibilità pro-posizionali.

1. L'interfaccia uomo-macchina, che evolve verso le teorie informazionali è qua messa in relazione alla provocatoria anti-novella di William S. Burroughs, The Soft Machine, 1966.
2. La questione è stata approfondita in “Softening the Urban Fabric”, conferenza del luglio 2013 tenuta presso la University of East London. Il programma è visionabile alla pagina: http://softeningurbanfabric.blogspot.com.au/p/programme.html
3. Questa traiettoria si ritrova in Sigfried Giedion, Mechanisation Takes Command: A Contribution to Anonymous History, U. Minn. Press, 2014 (1948),  Reinhold Martin, The Organizational Complex, MIT Press, 2005; and see also Stewart R. Clegg and Martin Kornberger (eds.), Space, Organizations and Management Theory, CBS Press, 2006.
4. Vedi Vitruvio sulle macchine da guerra nel Libro X del De Architectura, e il suo commento in Giora Hon, Bernard R. Goldstein, From Summetria to Symmetry: The Making of a Revolutionary Scientific Concept, Springer, 2008, pp. 99-106.
5. A proposito di questa riconfigurazione capitalista, vedi Felix Guattari, The Mechanic Unconscious, MIT Press, 2010; else Rosalind Krauss, The Optical Unconscious, MIT Press, 1993, e anche Frederick Jameson, The Political Unconscious, Cornell University Press, 1982.
6. Vedi Jonathan Hughes and Simon Sadler (eds), Non-Plan : Essays on Freedom, Participation and Change in Modern Architecture and Urbanism, Routledge, 2000; e anche Sean Lally, The Air From Other Planets: A Brief history of Architecture to Come, Lars Muller, 2003.
7. Vedi Peter Zumthor, Atmospheres, Birkhäuser Architecture, 2006; e anche P. Tidwell, Tapio Wirkkala, Architecture and Atmosphere, Rut Bryk Foundation, Espoo 2014; si aggiunga la vasta letteratura cresciuta intorno agli studi sugli stati di affezione, come Melissa Gregg and Gregory Seigworth (eds), The Affect Theory Reader, Duke UP, 2014.
8. Vedi Robert Kronenburg’s Flexible: Architecture that Responds to Change, Laurence King, 2007.
9. Vedi UN Studio, Design Models, Thames & Hudson, 2006.
10. Vedi Yuko Hasegawa, Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa: SANAA, Phaidon, 2006.
11. Vedi Cecil Balmond, Informal, Prestel, 2007; vedi anche Yves-Alain Bois and Rosalind Krauss, Formless: A User’s Guide, Zone, 2007; also see Zygmunt Baumann’s Liquid Modernity, Polity, 2000.
12. Vedi Stan Allen, Points + Lines: Diagrams and Projects for the City, Princeton Architectural Press, 1999 e vedi Manuel Delenda’s “Deleuze and the Use of the Genetic Algorithm in Architecture.” April 2001 (linkalla pagina   http://www.egs.edu/faculty/manuel-de-landa/articles/deleuze-genetic-algorithm-in-architecture/). Per ulteriore materiale riguardo questa distinzione  deleuziana, vedi anche John Rachjman, The Deleuze Connections, MIT Press, 2000; e Ignasi de Solà-Morales, Differences: Topographies of Contemporary Architecture, MIT Press, 1997; e recentemente Simone Brott, Architecture for a Free Subjectivity: Deleuze and Guattari at the Horizon of the Real, Ashgate, 2011.
13. Vedi Lars Spruybroek, ‪The Architecture of Continuity: Essays and Conversations‬, V2_ publishing, 2008‬, p.103.
14. Vedi Paul Haynes, “Networks are Useful Description, Assemblages are Powerful Explanations “ / INGENIO (CSIC-UPV) Working Paper Series 2010/01 at link http://www.ingenio.upv.es/en/networks-are-useful-description-assemblages-are-powerful-explanations#.VX2E1GBW8UU
15. Sul meshwork vedi Manuel De Landa, “Meshworks, Hierarchies and Interfaces” in John Beckman (ed), The Virtual Dimension: Architecture, Representation, and Crash Culture, Princeton Architectural Press. 1998.

Thomas Mical è Professore Associato di Teoria dell'architettura presso l'Università del Sud Australia. Si è occupato di aspetti inerenti il neo-metabolismo nelle infrastrutture "morbide" a supporto del progetto urbano. Sta ultimando una raccolta di materiali, inclusi Doorknobs (Bloomsbury) e Specifying Ambient Worlds (Ashgate).
Fernando Romero con Arup Group e Gehry, Museo Soumaya a Città del Messico (2011)

Fernando Romero con Arup Group e Gehry, Museo Soumaya a Città del Messico (2011)