Abstract
Il contributo tende a mettere in luce i rapporti tra l’aspirazione novecentesca al discontinua urbani e la dispositio. Sulla base di una premessa centrata su tre questioni rilevanti (valore del centro, relazione ordine discontinuo/identità del manufatto, modalità di trasferimento delle condizioni di contesto nella spazialità discontinua), il testo approfondisce i contenuti del principio eteronomo e del metodo selettivo che hanno caratterizzato il contributo di alcuni maestri della scuola italiana nella seconda metà del secolo scorso.
Le configurazioni posizionali, la modalità di trasferimento dei valori urbani e geografici, i variegati legami del discontinuo sono alcuni argomenti che appartengono al tema della dispositio, una “questione aperta” nel dibattito sulla costruzione della città contemporanea.
I temi della composizione per elementi distinti – insita tanto nella dispositio vitruviana quanto nella collocatio albertiana – trovano nuova linfa attraverso una parte della cultura architettonica del Novecento che aspira ad un ordine discontinuo ed aperto per risolvere efficacemente i rapporti con la dismisura e quindi con il contesto geografico. Come riconoscono alcuni teorici della Groszstadt (Hilberseimer 1927), proprio il trend toward openness - che renderà possibile l’idea di una città fatta di separazioni e strutturata attraverso lo spazio aperto – coinvolgerà gli statuti dell’architettura e della città e costituirà la base teorica di un significativo campo di applicazione urbana che riguarda la costruzione della “città aperta nella natura” e dei luoghi istituzionali aperti (Hilberseimer, Mies e Le Corbusier). All’interno di questo quadro, le teorizzazioni urbane settecentesche - col motto ledouxiano “si ritorni al principio, si consulti la natura, dappertutto l’uomo è isolato” - tendenti a definire le qualità di autonomia (Kaufmann 1973) e varietà, rappresenteranno un ponte ideale tra la trattatistica classica e questa sensibilità moderna e definirà le condizioni culturali per riconoscere la fecondità di alcuni modelli urbani dell’antichità (Hilberseimer 1960, Le Corbusier 1966) come ad esempio Pergamo in cui si compierà il programma pericleo di decentramento delle attrezzature. La propensione per una architettura della discontinuità (Cohen 1983) va ben oltre la prima metà del secolo scorso e, seppur con modificate condizioni e istanze storiche, si alimenta in Europa negli anni ‘80 e ’90 dei saggi critici di Cohen, Lucan, M. de Solà Morales preceduti in Italia da significativi contributi teorico-progettuali (tra cui quelli di Polesello, Samonà, Renna, Monestiroli).
L’aspirazione al discontinua urbani (di poleselliana memoria) sembra quanto mai opportuna oggi se consideriamo il bilancio sulla città contemporanea in cui emergono due dinamiche: il perdurare di un sistema concentrico e continuo sulla base di un modello ottocentesco di indole privatistica (nei casi polarizzati da un centro, a media-alta densità) e l’affermazione di una “città discretizzata” riconducibile ad un “graticcio” (Purini 2003) derivante da una concatenazione di regioni adiacenti con variegatissime condizioni formali, qualitative e temporali, i cui limiti involontari definiscono morfologie provvisorie (nei territori-città, a medio-bassa densità). Uno scenario che sembra sollecitare una riflessione operativa sulla dispositio e che potrebbe trovare come ambiti di applicazione non tanto l’ordine urbano complessivo, ma più probabilmente circoscritti ambiti urbani da riformulare (aree di dismissione, aree incompiute, …) che costituirebbero un’occasione effettiva offerta dalla città contemporanea. Un dominio applicativo reale per il progetto e di cui nel 2007 abbiamo messo in luce le potenzialità collocative dell’”architettura del campo” (Costanzo 2007).
Sulla base di questa premessa, potrebbe essere interessante mettere a fuoco alcune questioni compositive che vertono attorno alla dispositio in relazione alle condizioni della città reale.
1) La comunanza dei fatti isolati, il modo con cui le architetture trovano una corretta tensione che lega, può avvenire ancora oggi attraverso il riconoscimento del valore del centro, un valore che in passato ha assunto anche connotazioni simboliche (pensiamo all’Agorà del Ceramico ad Atene) e che oggi pone interessanti riflessioni anche in termini di una sua “perdita”, per dirla con Hans Sedlmayr. Oggi intendiamo il riconoscimento del centro nel senso della sua intangibilità, un tema su cui il moderno ha lavorato attivando processi continui di perfezionamento e disfacimento formale che mettono in luce “un certo disinteresse per la regolarizzazione” e rafforza il carattere sempre più modernamente aperto della delimitazione. Pensiamo dunque non solo al paradigmatico caso dell’Esplanade di Chandigarh, quanto alla vicenda corbuseriana del Museo di Tokyo.
2) Usando i noti termini di Le Corbusier per l’annotazione pisana del 1934, si può fare una considerazione relativa alla corrispondenza compositiva tra il “tumulte dans l’ensemble” della città e l’ “unitè dans le détail” dei manufatti. È ancora possibile parlare della consequenzialità tra ordine urbano discontinuo e un’unità stilistica (come nel Campo dei Miracoli e come propone oggi Monestiroli)? Una questione nota nella disciplina compositiva e che riguarda la caratterizzazione formale e stilistica del manufatto in funzione della posizione e del ruolo. Se partiamo dall’assunto leonardesco - “sempre un edificio vuole essere spiccato d’intorno (ossia isolato, ndr) per dimostrare la sua vera forma” - possiamo sostenere che sempre un edificio isolato vuole dimostrare la sua vera forma ossia che il manufatto miri ad una “dimostrabilità” delle scelte compositive (chiarezza, generalità, …). Un tema complesso e rispetto al quale possiamo forse dire che la condizione isolata del manufatto pare che ancora induca una riflessione sull’assolutezza formale ed una presa di posizione sulla questione dell’esattezza e della finitezza architettonica.
3) Il cambiamento delle tecniche di composizione e della concezione dello spazio rarefatto avvenuta intorno alla metà del Novecento (che determina un passaggio da un luogo autoregolato con un equilibrio tutto interno a un luogo dall’ordine più articolato e che più osmotico) è dettato dall’estensione dei limiti del progetto alla dimensione del territorio e della geografia. Ciò è dimostrato, ad esempio, dalla messa in crisi dell’approccio modellistico proprio delle unità urbane autonome ed autoconcluse della prima metà del Novecento (pensiamo all’intera vicenda dei “settori urbani” di May e Schmidt). Questa mutazione costitutiva avviene già a partire dal 1946 con il dibattito sulle influenze operate dagli elementi esterni del contesto. Il saggio sull’espace indicible di Le Corbusier, registrando questo profondo cambiamento di direzione, prepara le premesse teoriche per i nuovi paradigmi urbani: “tutto l’ambiente con i suoi pendii e profili influenza il luogo dell’architettura, testimonianza della volontà dell’uomo, e le impone profondità e densità specifiche” (LC 1946). L’Esplanade di Chandigarh è un’applicazione emblematica di una nuova modalità ordinatrice dello spazio rarefatto nell’adozione dei limiti geografici come elementi di misurazione e proporzionamento dei singoli manufatti monumentali. Il fine dichiarato è convocare, in una nuova ed inedita partecipazione, gli elementi del paesaggio (naturale, urbano) per la costruzione del moderno spazio urbano non come paradigma assoluto ma come soluzione specifica.
È proprio su questo terzo punto che vogliamo soffermarci. Infatti la nuova sensibilità verso le specificità dei luoghi e le “condizioni esterne” (morfologie urbane, emergenze naturali, eccezionalità architettoniche) dà inizio ad una inedita stagione, tuttora operante, per la dispositio urbana. Tale sensibilità trova espressione più adeguata nella collocazione in quanto categoria fortemente relazionale - “collocatio ad situm pertinet” secondo l’Alberti - in grado di assumere ed esaltare una composizione per elementi distinti e di tipo eteronomo con i suoi dispositivi centripeti di trasferimento delle forme ed dei significati del contesto complessivo nelle aree del progetto. Una modalità che raggiunge una stabilità della configurazione spaziale attraverso il sapiente gioco ordinatore delle separazioni in un procedimento altamente selettivo che interpreta la specificità di contesto.
Sulla base di quest’ultimo presupposto, a questo punto, appare interessante mettere in luce il contributo dato dalla scuola italiana. Un contributo che è segnato da alcuni progetti emblematici e da rare occasioni realizzative offerte non tanto dalla città e dai suoi vuoti, ma soprattutto dalle necessità di ambiti specialistici (come le cittadelle universitarie, come dimostra il caso del Campus di Chieti di Barbieri, Del Bo, Manzo, Mennella, ben descritto da Carlos Martì Aris). All’interno del panorama culturale italiano, si può individuare una linea ideale che accomuna il lavoro sulla collocazione di alcuni autori come Salvatore Bisogni, Antonio Monestiroli, Gianugo Polesello. A partire dalla nozione di “città per parti”, essi sono stati in grado di definire e difendere le possibilità per una composizione urbana che ha per nucleo l’idea di separazione ed il ruolo strutturante dello spazio aperto. Una precisa concezione alla cui base risiede quel metodo fondato sulla selezione come “strumento per un intervento sulla realtà”. Un metodo che accomuna nel Settecento il pensiero di Laugier a quello riformista di Alexander Cozens (Tafuri 1973) e che – come è noto – riguarda il tema dell’astrazione a partire dagli orientamenti definiti dalle avanguardie e dagli sviluppi intrapresi dall’esperienza razionalista. La costruzione della città discontinua, postulato della parte radicale del modernismo, viene dunque assunto come soluzione praticabile per la grande città contemporanea proprio in quanto selettività e separazione – usando e modulando i rischi di una riduzione figura/fondo – non solo consentono un controllo della complessità e della grande dimensione, ma in più stabiliscono sapientemente i rapporti tra morfologie urbane e geografiche-territoriali (il cui interesse è alla base del lavoro congiunto Bisogni-Renna) (Bisogni/Renna 1965).
Le soluzioni proposte per gli ambiti disponibili della città moderna – i luoghi d’inclusione della città consolidata o gli spazi più indeterminati e rarefatti della città estensiva - e che possono essere oggetto di grandi operazioni di trasformazione urbana sono le zolle, le isole urbane, le unità architettoniche complesse. Esse rappresentano gli ambiti riformulati delle “parti urbane riconoscibili” secondo una identità dettata da un ordine relazionale e basata sulle distanze e sugli isolamenti. Come dichiarato nei saggi a corredo dei progetti (Bisogni 2011, Monestiroli 1997, Polesello 1991), questa linea definisce una possibilità alternativa alla città compatta e conclusa che assume l’isolato come dato elementare e intende contrastare le applicazioni più retrive del post-modernismo (di cui il recente progetto di Krier per Tor Bella Monaca ne rappresenta l’emblema).
Nel lavoro di Bisogni, le zolle definiscono dei grandi luoghi collettivi che manifestano ancora una volontà di autoregolazione dell’equilibrio compositivo da fissare con due o tre manufatti separati, e sovente scelgono come luoghi di applicazione aree ancora prevalentemente naturali del territorio urbanizzato. Ciò rivela la profonda preoccupazione del maestro napoletano di costruire i capisaldi di una ipotetica città metropolitana che si riallacci ad un disegno hilberseimeriano di una “città nella natura” (e di cui Luigi Cosenza aveva delineato quegli elementi strutturali per il funzionamento unitario del territorio). In tal caso, il rapporto con le condizioni specifiche del territorio risiede essenzialmente nelle scelte localizzative delle zolle, dove, ad esempio, la “zolla dell’agricoltura” assume l’estensione del vasto parco agricolo di Carditello in cui ricade il monumento produttivo borbonico del Collecini.
Nel caso delle elaborazioni di Monestiroli, alcuni progetti sono dimostrativi dell’intenzione di definire i luoghi civili della città moderna attraverso isole urbane. Esse danno origine ad uno spazio urbano rarefatto in cui le singole architetture sono distinte dal suolo naturale e in cui ognuna di esse si definisce a partire dalla propria individualità tipologica. Un ragionamento la cui ricchezza è rivelata nel progetto per l’area Garibaldi-Repubblica a Milano. Qui, è bene sottolinearlo, alla notevole precisione stilistica dei manufatti e alla profonda autonomia conferita ad essi nell’assunzione dei basamenti, Monestiroli fa corrispondere le apparenti libertà delle scelte posizionali e di giacitura delle singole architetture. Tali scelte sono oggetto di una precisa volontà di ricevere all’interno di questi luoghi quegli ordini urbani rilevanti che agiscono sui limiti dell’area. In tal senso si spiega la rotazione della piastra del grande manufatto finanziario che rimanda all’asse urbano verso la Brianza.
In ultimo, l’apporto di Polesello si rintraccia nelle sue grandi composizioni urbane degli anni ’70 e ’80. In esse prevale il “montaggio critico”, ossia un procedimento compositivo fondato sulla disposizione di figure tipizzate la cui relazione dà origine ad una forma del vuoto. Descrivendo il progetto per l’Isola dei Granai a Danzica, l’autore illumina le ragioni delle collocazioni applicate. Le scelte posizionali e geometriche, più della costituzione stessa dei singoli manufatti, rivelano l’intenzione di far diventare l’isola un luogo riassuntivo della città. Così il progetto, fortemente governato dal principio eteronomo, definisce un sistema di corrispondenze e contraddizioni con i valori formali della città che agiscono al di fuori dell’isola stessa (le emergenze architettoniche, ma anche il disegno urbano, i segni dell’attraversamento, …). Con la conferma o la negazione degli allineamenti-trasferimenti, è evidente che è nel gioco di giaciture e posizioni delle architetture che si esprime la natura critica e selettiva del progetto. Il principio ordinatore generale regola i rapporti spaziali tra questi trasferimenti e le presenze interne (tra cui la forma dell’isola e le sue tracce) determinando un sistema complessivo di grande varietà in cui convivono figure molto diverse.
Così la dispositio, regolante la posizione delle architetture separate, si invera in una forma dichiaratamente relativa e senza ambizioni di esattezza. Il dato formale dell’isola di Danzica (come avviene per l’area Garibaldi-Repubbica o per una qualsiasi delle zolle napoletane), non è solamente nella sua morfologia circoscritta ossia nella sua forma primigenia - il limite lambito dall’ansa del fiume –, ma deriva dalla sovrapposizione di questa con una moderna, a sua volta costituita da una specifica configurazione che detta il legame tra le separazioni. Non più un frammento dalla forma univoca, ma un ordine spaziale dalle mutevoli rivelazioni che mostrano la ricchezza attualissima della dispositio.
Bibliografia
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Francesco Costanzo è ricercatore e docente di Composizione Architettonica ed Urbana presso il Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale della II Università di Napoli.
È membro dal 2008 del Dottorato in Progettazione e di Comitati Scientifici di Collane Internazionali. Partecipa al dibattito nazionale ed internazionale con contributi sui temi della discontinuità urbana (nel 2007 pubblica “L’architettura del Campo”, per i tipi della ESI), dell’architettura elementare e della rielaborazione dei paradigmi del Razionalismo italiano e del Mo. Mo. Le sue opere risultano finaliste e esposte presso: Accademia di San Luca/Roma - Premio Architettura (2006), Triennale di Milano - Medaglia d’Oro (2013), Biennale di Venezia (2014).