Abstract
La precisione dell’inquadratura e la preferenza per il dettaglio, che caratterizzano i disegni di Hiroshige Utagawa, rivelano la stessa rinuncia alla visione d’insieme che può essere intercettata nella configurazione planimetrica della città giapponese, caratterizzata da un tessuto urbano privo di ordinatio, dove concetti quali la collocatio e la dispositio risultano quasi retorici. Il Giappone fornisce infatti una particolare declinazione del progetto urbano, inteso come coesistenza sincretica, non sintetica, di pezzi e parti eterogenee.
Talvolta la bellezza di un paesaggio può essere misurata dalla presenza dell’elemento roccioso. Ma capita spesso che esso sia poco evidente perché coperto da una coltre di terra o nascosto sotto un pesante manto erboso, mentre altre volte affiora per lunghi tratti, costeggiando vecchi muri, sconosciuti crepacci. Più di frequente, esso può apparire scheggiato, trafitto, frammentato. Vengo da un paese in cui la roccia affiora in maniera sublime e brutale. Dove la montagna è venerabile per maestosità e solitudine e talvolta si trasfigura, diventando monumento a una religiosità interna alle cose, a un senso del divino che si distende uniformemente sulla natura, lasciando però fuori gli uomini.
In Giappone il monte Fuji è venerato come una divinità e la città intera appare come un basamento continuo e senza qualità su cui si erge questo grande cono, figura mistica, platonica, che tende al cielo. Ma quando ci si immerge nella città densa, tappeto di case strette tra case, il monte Fuji sparisce e lo si può vedere solo elevandosi con lo spirito (o con l’ascensore).
Quanto conti l’altezza dello sguardo nell’architettura giapponese lo dimostrano molte opere, da quelle contemporanee di Kengo Kuma e Waro Kishi, tra gli altri, ai templi zen e alle case per la cerimonia del tè, dove l’altezza da cui si osserva rivela un preciso modo di sperimentare lo spazio architettonico. Nei soggiorni giapponesi, infatti, si sta seduti sul tatami, un leggero rivestimento del pavimento, quindi il livello dell’occhio col quale si fa esperienza dello spazio è più basso. Ciò spiega le sezioni di molti edifici, come l’altezza dei tendaggi e il posizionamento delle bucature sulle facciate delle case. Questo particolare modo di vedere traspare anche dalle stampe di Hiroshige Utagawa (1), che ritraggono solo una porzione di uno spazio, che ne inquadrano un preciso angolo, solo un frammento, e cioè quello che si può cogliere stando seduti, a gambe incrociate, sul tatami.
La precisione dell’inquadratura e la preferenza per il dettaglio, che caratterizzano questi disegni, rivelano anche una sorta di rinuncia alla visione d’insieme. La stessa consapevole rinuncia che può essere intercettata nella configurazione planimetrica della città giapponese, che appare particolarmente curata e precisa a uno sguardo ravvicinato. Ma appena ci si allontana, si scopre un tessuto urbano privo di ordinatio, dove concetti quali la collocatio e la dispositio (2) risultano quasi retorici. Secondo Gunther Nitschke, infatti, lo spazio giapponese non è costituito da elementi compositivi ma è determinato dall’attività che vi si svolge (3); inoltre tale spazio è carico di un vitalismo insito, secondo Charlotte Perriand, “nella discontinuità, nelle fratture, nei compromessi, che i giapponesi accettano come base di una nuova ricerca di continuità” (4). Anche Manfredo Tafuri vedeva la città giapponese come composta da “pezzi isolati al di fuori di anche parziali complessi unitari o sistemazioni cittadine”, tanto da affermare che “alla fertilità e alla prepotente espressività dell’architettura corrisponde l’assenza quasi totale della pianificazione” (5). Il Giappone fornisce dunque una particolare declinazione del progetto urbano, inteso come coesistenza sincretica, non sintetica, di pezzi e parti eterogenee. Ciò emerge con evidenza nello Spiral Building (1985) di Fumihiko Maki, nodo strategico dove si concentrano le dinamiche altalenanti tra forma costruita e spazio urbano. Qui l’autonomia dei partiti architettonici e la pratica dell’assemblage con cui si predispone la facciata si fanno metafora della stessa forma urbana di Tokyo, una sorta di collage-city.
Ma non è stata tanto la città giapponese ad attrarre gli architetti occidentali, quanto le doti intrinseche dell’architettura, la natura intimistica dell’abitazione, il suo misticismo. Inoltre, la trasparenza, la flessibilità e la modularità della casa tradizionale del periodo Meiji (1867-1912) e Taisho (1912-1926). Si pensi alla Casa Yoshijima a Takayama (1907), organizzata, come tradizionalmente in Giappone, secondo una sequenza di spazi aperti, flessibili, passanti, privi di connettivi e innalzati dal suolo. Tali spazi sono caratterizzati da pareti mobili e tendaggi, che è possibile rimuovere o sostituire; da grandi armadi, dove conservare gli arredi mobili; dall’uso del tatami come morbido rivestimento del pavimento, dalla cui dimensione (1mx2m) dipende il dimensionamento dell’abitazione. La straordinaria peculiarità della casa risiede nella configurazione spaziale dell’ambiente principale. Esso è coperto da una grande travatura aerea, calata su uno spazio centrale a tutta altezza, che non può che stupire per la grande modernità della sua concezione. Essa ricorda alcune strutture di Wright, come quella che copre la sala di lavoro comune di Taliesin III, successiva al suo viaggio in Giappone; le sperimentazioni sul telaio di Terragni e Cattaneo; i lavori dei Five Architects e in particolare le case di Eisenman; l’ossessione geometrica di certi edifici di Ungers e di Dudler; gli spazi eterei a telaio di Dardi. Costruzione astratto-simbolica atta a esprimere la posizione sociale della famiglia, tale reticolo spaziale risolveva anche la connessione tra il piano di imposta delle pareti scorrevoli in carta di riso e il soffitto in legno.
Ma quali sono i progetti che conservano ancora oggi lo spirito di queste antiche costruzioni? Probabilmente, certi lavori di Kengo Kuma e Tadao Ando a Tokyo, come il Museo Suntory (2007), dove alla grazia razionalista delle teche vitree si accosta l’interpretazione delle trame lignee degli antichi palazzi nipponici, o la Fondazione Issey Miyake (2007), dove l’architetto dell’acqua e della luce ricalibra la dimensione monumentale dei progetti precedenti in un’architettura intima, riflessiva e tutta contenuta nelle pieghe della copertura. Tuttavia, quello spirito è stato sostituito da più complesse formulazioni. Già negli anni sessanta, il Metabolismo (6) mette in crisi quelle tematiche, introducendo l’estetica della macchina e l’ideologia della megastruttura. Una sorta di vuoto ideologico, invece, si manifesta a partire dagli anni settanta, dopo l’Esposizione di Osaka, malgrado l’azione di personalità del calibro di Arata Isozaki, intellettuale, critico e architetto, e Kazuo Shinohara, che ambiscono a costruire un rapporto significativo tra l’edificio specifico e il tessuto urbano nel suo insieme. Com’è noto, essi non troveranno proseliti e anche il loro migliore allievo, Toyo Ito, rinuncerà al rapporto dell’architettura con la città, creando universi poetici chiusi. E la naturalezza con cui egli accosterà la nostalgia di un passato perduto con la superficialità di certi slogan e di certe icone del presente sarà vincente (7).
Oggi la cultura occidentale guarda alla città giapponese contemporanea come a un’entità priva di figure, temporanea e superficiale. A ben vedere, però, tale natura temporanea ha le sue radici nell’esigenza maturata negli anni di realizzare quartieri per così dire portatili, che potessero essere cioè facilmente smontati e ricollocati per le note ragioni di instabilità geologica e per i frequenti incendi. Yoshinobu Ashihara (8) fa notare come l’architettura tradizionale nipponica sia fondata sul piano di calpestio, un piano flottante, elevato dal terreno. Tale considerazione mette in luce come quel senso di instabilità che si attribuisce alla città sia connaturato nella tradizione costruttiva di questa nazione, che è diversa dalla tradizione occidentale del muro, la cui perentorietà esprime invece volontà di durata.
Ma se da un lato troviamo l’insegnamento di Ito, che interpreta coi suoi edifici la società dei consumi, la precarietà urbana e la cultura dell’effimero, dall’altro c’è la lezione di Kazujo Sejima. Se il primo realizza opere simili a installazioni temporanee, caratterizzate da una fragilità che le rende monumento al presente, un monumento comunque evanescente, la seconda fa dell’edificio un diagramma, una struttura di relazione tra lo spazio e il corpo, capace di dar vita ad architetture plastiche ma composte e definite, dunque lontane da quella negazione della forma che caratterizza le scritture incompiute di Ito. Collocati nel caos cittadino o nella vastità del paesaggio come intervalli fuori dal tempo, gli edifici di Sejima introducono in architettura l’estetica del ma (9) (il termine giapponese che indica l’intervallo o lo spazio tra le cose), celebrata dal cinema di Yasujirō Ozu.
L’immagine urbana del Giappone viene consegnata dunque a piccole costruzioni estremamente consapevoli e a grandi macchine urbane, il cui perfetto apparato interno contrasta con l’assenza di regole della città. Queste ultime hanno nel grattacielo appena realizzato dallo studio Takenaka e da Cesar Pelli a Osaka il loro esempio culminante. Complesso multifunzionale e nodo urbano tra i più frequentati della città, Abeno Harukas (2014) si sviluppa su un’altezza di 300 metri, configurandosi come l’edificio più alto del Giappone. Fumihiko Maki paragona questo colosso ben congegnato a una nave da guerra (10), da cui emergono corpi indipendenti la cui forma riflette la funzione. L’immagine della montagna citata all’inizio del testo – che diventa in questo caso un’altura vitrea, cristallina – allude al contrasto interno all’architettura di questo paese, sospeso tra l’aleatorietà di edifici che durano in media 26 anni e la volontà di toccare vette più durature.
Percorrendo la soprelevata Roppongi Dori, fin dove questa tocca terra, innervandosi nel corpo vivo, infuocato di Tokyo, si può ammirare la bellezza della città giapponese, una bellezza che si alimenta di forti contrasti. L’immagine di una strada che fluttuando separa il profilo turrito dei grattacieli trasmette senza dubbio un senso di pericolo. Ma quando lo spazio della strada scompare, ciò che rimane è solo la fessura tra due edifici alti che si sfiorano nello spazio di un giunto, lasciando intravedere uno dei possibili orizzonti della città.
(Alcune parti del testo sono tratte dal paper "learning from Japan", presentato alla 22nd ISUF Conference "City as organism. New visions for urban life" e pubblicati negli atti del convegno a cura di Giuseppe Strappa.)
1. Utagawa H., Cento vedute famose di Edo, serie di 119 stampe risalenti al 1856-58.
2. La città giapponese appare come la realizzazione distopica del motto di Marc-Antoine Laugier “ordre dans le détails, tumulte dans l’ensemble” (Essai sur l’Architecture, 1755).
3. Nitschke G., ‘Ma’: the japanese sense of ‘place’ in old and new architecture and planning, in “Architectural Design”, marzo 1966, pp. 117-130.
4. Tafuri M., L’architettura moderna in Giappone, Cappelli 1964, p. 48.
5. Tafuri M., op. cit., p. 126.
6. Cfr. Koolhaas R., Obrist H. U., Project Japan, Metabolism Talks..., Taschen, Colonia, 2011.
7. Ito T., Collage and superficiality in Architecture, in Frampton K. (a cura di), A New Wave of Japanese Architecture, Catalogue 10, IAUS, New York 1978.
8. Cfr. Ashihara Y., L’ordine nascosto, Gangemi, Roma 1995.
9. Isozaki A., Ma: Japanese Time-Space: an exhibition held at the musee des Arts Decoratifs, in “Japan Architect”n.292, 1979.
10. Maki
F., On
visiting Abeno Harukas,
in “Shinkenchiku”, special issue: Big
Compact. Abeno Harukas. Supertall Compact City,
September 2014.
11. Maki, F., “On visiting Abeno Harukas”, Shinkenchiku, special issue: Big Compact. Abeno Harukas. Supertall Compact City, September 2014.
Bibliografia
Ashihara Y., L’ordine nascosto, Gangemi, Roma 1995.
Isozaki A., Ma: Japanese Time-Space: an exhibition held at the musee des Arts Decoratifs, in “Japan Architect”n.292, 1979.
Ito T., Collage and superficiality in Architecture, in Frampton K. (a cura di), A New Wave of Japanese Architecture, Catalogue 10, IAUS, New York 1978.
Jinnai H., Tokyo then and now: keys to Japanese urban design, in “Japan Echo”, 14, 1987, pp. 20-29.
Koolhaas R., Obrist H. U., Project Japan, Metabolism Talks..., Taschen, Colonia, 2011.
Maki F., City, image and materiality, in Salat S. (a cura di), Fumihiko Maki: An Aesthetic of Fragmentation, Rizzoli, New York 1988.
Maki F., On visiting Abeno Harukas, in “Shinkenchiku”, special issue: Big Compact. Abeno Harukas. Supertall Compact City, September 2014.
Nitschke G., ‘Ma’: the japanese sense of ‘place’ in old and new architecture and planning, in “Architectural Design”, marzo 1966, pp. 117-130.
Shelton B., Learning from the Japanese City. Looking East in Urban Design, Routledge, London, second edition, 2012.
Tafuri M., L’architettura moderna in Giappone, Cappelli 1964.
Lina Malfona (Cosenza, 1980) si laurea in Architettura nel 2005 con Franco Purini e nel 2009 è Dottore di ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana. Dal 2008 è professore a contratto di Laboratorio di Progettazione Architettonica presso la Facoltà di Architettura dell’Università Sapienza di Roma. Dal 2012 consegue assegni di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Progetto della stessa università. È autrice di monografie, saggi e articoli pubblicati su riviste di settore. Dal 2007 è socio fondatore dello studio Malfona Petrini. I suoi lavori sono stati recensiti su riviste di architettura e hanno ottenuto premi in concorsi internazionali. Attualmente è visiting fellow presso il Centro di Teoria e Critica dell’Architettura ATCH della University of Queensland.