Abstract [1]
Tra gli anni ’60 e ’70 l’università è attraversata da un
clima d’irrequietudine che sfocia nel suo riversamento sulla città attraverso le
proteste studentesche. L’incontro tra città e università è fatto propria dalla
cultura architettonica e trasformato in una delle più usate e abusate metafore per
legittimare un’ipotetica svolta epistemologica dal dogma funzionalista.
Considerando il lavoro progettuale e intellettuale di Shadrach Woods e
Giancarlo De Carlo sul tema del ripensamento dell’università, questo scritto
discute due approcci apparentemente simili nelle intenzioni – al punto di
essere raggruppati sotto la stessa etichetta del “mat-building” - ma
profondamente differenti nel modo di definire i modi in cui il progetto di
architettura possa rispondere alla metafora università=città.
Testo
“Può una università diventare un'opportunità di ampia interazione culturale, che implica disordine creativo, se il suo modello è totalmente e perennemente condizionato dalla camicia di forza di una griglia materializzata? [...]Non dovrebbe una griglia essere solo una disciplina intellettuale che dovrebbe dissolvere, e consentire una contro-mossa di contraddizione durante il processo di generazione dello spazio e delle forme?”
[Giancarlo De Carlo] [2] [Fig.1]
“[...] La griglia intellettuale è tutta nella tua mente. Ma la gente (e i tubi) hanno bisogno di collegamenti diretti, invece di tanta arte indeterminata,
Nella quale il costruire deve chiaramente essere l'ultima parte".
[Shadrach Woods] [3] [Fig.2]
Per circa un decennio, tra gli anni ‘60 e i ‘70 dello
scorso secolo, l’università diventa il luogo privilegiato per esprimere desideri
e frustrazioni. L’avanzare del conflitto ideologico della Guerra Fredda si
spende sempre più sul lato di un progresso tecnologico che necessita di una
forte revisione dei rapporti tra industria ed educazione avanzata. Se a questo
si unisce il fatto che, negli anni ’60, la generazione del baby boom raggiunge
l’età di accesso all’istruzione accademica, appare evidente come l’università
diventi lo strumento principale per controllare e progettare una società in
mutamento. Si tratta di un progetto che dipende in maniera sostanziale dalla
formulazione di un pensiero sui modi in cui l’università debba configurarsi
nello spazio. Una contingenza, questa, sicuramente favorevole per l’architettura,
che si trova chiamata in causa tra gli attori principali del ripensamento
dell’idea di università. [4]
Il nuovo ruolo centrale dell’università è catturato
efficacemente da Joseph Rykwert che, nel 1968, la definisce come archetipo
istituzionale del proprio tempo - alla stregua dei templi per la civiltà greca,
delle terme per i romani, e delle cattedrali per il medioevo. [5] Per gli
architetti, ciò significa leggere l’istituzione accademica come un campo di
sperimentazione di forme e principi insediativi capaci di assurgere a modello
per una più vasta ristrutturazione di ampi territori urbanizzati. In altri
termini, nel progetto dell’università s’individua la possibilità di mettere in
luce la crisi di una società proiettata verso la totale urbanizzazione.
E’ forse un caso che la crisi dell’università d’élite si
consumi proprio nei decenni in cui si formula la promessa di una nuova stagione
per l’architettura. Per alcuni architetti si tratta, probabilmente, di una
fortunata coincidenza. Infatti, proprio sul tema dell’università viene spesa
gran parte dell’eloquenza retorica di una generazione internazionale di architetti
che proclama come propria missione il superamento del dogma funzionalista.
L’immagine più eloquente di questa missione rimane la foto dei membri fondatori
del Team X, in posa col certificato di morte dei CIAM nel 1959 a Otterlo. Ma la
promessa di un cambio generazionale non è priva di demagogia. Al contrario, è
proprio sul piano dei grandi slogan che i giovani sfidano i vecchi – dalla
riscoperta e il “learning from” dagli habitat tradizionali, alla riesumazione
della strada in seguito all’uccisione corbusieriana.
Uno di questi slogan postula l’identità tra università e
città. E’ noto che i primi tangibili segni di protesta negli atenei avvengono intorno
al 1963. [6] Dai sit-in a Berkeley alle prime occupazioni delle Facoltà di
Architettura in Italia,[7] il malcontento nei confronti della natura
paternalistica di un’università ancora troppo discriminante nel definire chi abbia
diritto ad accedervi, si somma a una critica verso la connivenza di potere tra
governi nazionali e governi accademici. L’università siede tra i principali
imputati in un processo all’oppressione sociale da parte dei poteri alti, così
che pensare a una nuova idea di università significa insidiare la stabilità di
potere dell’istituzione. E’ cioè necessario minare il controllo territoriale
dell’istituzione accademica, col fine ultimo di spostare tale controllo nelle
mani di chi dell’università dovrebbe fruire come servizio pubblicamente
accessibile.
Il riversarsi dell’università sulla strada attraverso
manifestazioni di protesta è una metafora particolarmente appetibile per gli
architetti della generazione post-Movimento Moderno, al punto da essere
immediatamente strumentalizzata per fini di più ampio respiro: nell’università
si intravede la possibilità di attuare una svolta epistemologica per il
discorso architettonico e urbanistico. L’identità tra città e università diventa
così una delle più usate e abusate figure retoriche messe in campo per
legittimare un cambio di direzione nel modo di pensare lo spazio abitato che promette
di lasciarsi dietro lo sguardo aereo modernista, per riportare gli occhi
dell’architetto sul piano “umano”: il piano dell’uomo della strada.
In questo scritto mi propongo di discutere due
interpretazioni della metafora città=università (un’identità intesa in senso
biunivoco) che, seppur nate da un comune sostrato ideologico, declinano in
maniera molto diversa il modo in cui l’architettura possa fare propria, da un
punto di vista operativo, tale metafora. Il primo modo postula la possibilità
di un diagramma interno: un grande edificio capace di fondere città e università.
Il secondo, suggerisce che solo nel campo urbano più vasto, e senza una
configurazione definita una volta per tutte, possa aver luogo una tale fusione.
La prima risposta è offerta dall’architetto americano Shadrach Woods, la
seconda da Giancarlo De Carlo.
Si è detto che predicare l’identità tra università e
città diventa, all’inizio degli anni ’60, strumentale a riportare l’attenzione
sul punto di vista dell’uomo della strada. Proprio “The man in the street” è il titolo scelto da Shadrach Woods per una
serie di lezioni tenute nel 1966, un titolo che riassume il pensiero di
un’intera generazione di architetti. [8] Lo stesso Woods è la mente principale
dietro quella che la storia dell’architettura presenta come una magistrale
interpretazione del ruolo dell’università come luogo di sperimentazione di
nuove forme urbane e, più in generale, di un’idea di città: il progetto per la
Libera Università di Berlino, elaborato dallo studio Candilis, Josic &
Woods nel 1962-63 - quando, cioè, iniziava a palesarsi la protesta studentesca. [9]
La prima ufficializzazione del salto di paradigma offerto
dal progetto per Berlino avviene attraverso la penna di Alison Smithson [Fig.3], partecipe
insieme allo stesso Woods del tentativo di rinnovamento nella cultura architettonica
perseguito dal Team X. Nel 1974, sulle pagine di Architectural Design, l’architetto
inglese afferma che il completamento di una prima porzione dell’edificio a Berlino
segna un fondamentale momento di coagulazione di una traiettoria architettonica
che si è impegnata a leggere l’ambiente costruito come processo, piuttosto che
come prodotto. Un fenomeno al quale manca solo un nome ufficiale, puntualmente
assegnato dalla Smithson: mat-building. [10]
All’inizio del nuovo millennio, sull’onda di una
crescente attenzione per il landscape urbanism che, in parallelo ma in
alternativa alla produzione di oggetti di architettura “iconica”, postula il
progetto alla grande scala come costruzione di “campi” (fields) di forze, il
mat-building ha trovato nuovi seguaci. Eric Mumford ha parlato di “mat approach”, definendolo come lo
spostamento di attenzione dalla creazione di forme concluse alla “organizzazione provvisoria di campi di
attività urbana” in continuo mutamento. [11] Richiamando l’articolo della
Smithson, Stan Allen ha dapprima elencato le mosse architettoniche comuni al
mat-building – “una sezione compressa e
densa, attivata da rampe e vuoti a doppia altezza; la capacità unificante di
una grande copertura; una strategia d’insediamento che permette alla città di
fluire attraverso il progetto; la delicata combinazione di ripetizione e
variazione” – per poi notare, quasi confutando quella stessa lettura
architettonica del fenomeno, che “il
senso di accumulazione e cambiamento [proprio del mat-building] si esprime in maniera più efficace in un
assemblage urbanistico.” [12]
E’ nelle affermazioni di Mumford e Allen che si riscontra
la contraddizione insita nella nozione stessa di mat-building, posto in maniera
incerta tra lo status di sostantivo e quello di verbo, come già osservato da Timothy
Hyde. [13] Da un lato, si può leggere il mat-building come un oggetto specifico
che, per quanto grandi siano le sue dimensioni e complessa la sua organizzazione
interna, permane nello stato di edificio concluso. Dall’altro, lo si può
intendere come un modo di progettare, un diagramma organizzativo che non può
rimanere intrappolato tra le mura di un singolo edificio, ma mira a stabilire
dei principi insediativi di più vasta portata.
Quest’ambiguità di definizione è tanto più apparente se
si confronta l’università di Berlino e il portato teorico-retorico alla sua
base (e di una sua progenie, prodotta all’interno dello stesso gruppo Candilis,
Josic & Woods) con il lavoro intellettuale e progettuale a cavallo tra
pianificazione dell’università e pianificazione urbanistica di un altro membro
del Team X: Giancarlo De Carlo. Un lavoro, quello di De Carlo, che passa
attraverso l’osservazione delle proteste studentesche degli anni ’60, la
pubblicazione di alcuni testi fondamentali sul ripensamento del senso
dell’istituzione scolastica e universitaria, [14] e una triade di progetti:
Urbino, Dublino e Pavia. Una rilettura delle risposte progettuali date da De
Carlo e Woods appare tanto più rilevante oggi, quando la “crisi”
dell’università continua a essere sulla bocca di tutti - ma, sembrerebbe,
sempre meno su quella degli architetti -, e quando la metafora città=università
(o città=campus) sembra essere tornata di moda in tutta la sua forza demagogica. [15]
Per comprendere congruenze e divergenze rispetto a
un’idea d’identificazione tra università e città da parte di Woods e di De
Carlo, viene in aiuto la loro contemporanea partecipazione in due diverse occasioni:
il concorso di progettazione per lo University College di Dublino nel 1963, in
cui entrambi, senza vincere, presentarono un’interpretazione di mat-building; e
la pubblicazione di due saggi sul ripensamento dell’istituzione universitaria apparsi
sulla Harvard Educational Review nel 1969 – “Why/How to build school buildings” di De Carlo e “The Education Bazaar” di Woods. [16]
I punti comuni tra i due architetti sono molti, tanto da
poter affermare una corrispondenza della tesi generale: l’educazione – inclusa
quella accademica - non può risolversi totalmente nello spazio istituzionale
dell’università. Piuttosto, essa va intesa come una derivata dell’esperienza. Necessariamente,
continua la tesi, un’istituzione scolastica limita – pena la propria
dissoluzione – le possibilità di fare esperienze che non siano finalizzate agli
interessi dell’istituzione stessa. Solo quando le istituzioni sono “interrotte” si può raggiungere “l’esperienza totale”. Lo afferma De
Carlo in “La Piramide Rovesciata”, saggio nato dall’osservazione delle lotte
studentesche tra il 1963 e il ’68, quando cioè l’università si riversa “sulla
strada”. [17] In queste parole risuonano forti i moniti di John Dewey e Ivan
Illich. Il primo aveva predicato la coincidenza di educazione ed esperienza,
mentre il secondo si era spinto a ipotizzare il superamento della stessa idea
di istituzione scolastica. [18]
L’intento comune di Illich, De Carlo e Woods è proprio la
definizione delle possibilità per raggiungere tale superamento. Consapevoli dell’impossibilità
di un cambiamento repentino, l’unica strategia possibile è quella di stabilire
le condizioni per l’emergere di vie alternative all’acquisizione di conoscenza.
Scardinare l’università dalla propria condizione feudale è un obiettivo
principale. Tuttavia, la convergenza delle tesi dei due architetti dà luogo a
due approcci progettuali per molti versi opposti.
Va innanzitutto osservata la differente natura dei due citati saggi [Fig.4] del 1969. Nel
caso di Woods, The Education Bazaar
può essere considerato un manifesto retroattivo. Qui, l’architetto americano
coglie l’opportunità per articolare in forma scritta le tesi proposte con il
progetto per l’università di Berlino e con quello, di un anno successivo, per
l’università di Dublino. Non è un caso che le illustrazioni scelte a corredo
del testo siano i diagrammi concettuali prodotti per Berlino insieme a uno
stralcio di pianta e una prospettiva della proposta per Dublino. Di contro, il
saggio di De Carlo è un manifesto “a priori”, in attesa di un progetto. Ciò dà
ragione della scelta di illustrarlo con sole immagini tratte dalle proteste
studentesche a Milano, piuttosto che ricorrere a disegni di architettura.
Sarebbe sbagliato, però, affermare che De Carlo abbia
aspettato l’indomani del ’68 per agire “da architetto”, ovvero con un progetto.
L’architetto genovese, infatti, è impegnato sul fronte della “Pianificazione e disegno dell’università”
(per citare un libro da lui curato e pubblicato nel 1968) da circa un decennio.
Tuttavia, vi è una fondamentale differenza tra l’operato concettuale di De
Carlo e quello di Woods. Il secondo ha messo a punto un dispositivo
architettonico che, dapprima creato per rivitalizzare il centro urbano di
Francoforte (nel 1961) trova terreno fertile nell’ambito dello spazio
universitario. A Berlino, Woods perfeziona il prototipo, così che Dublino può
esserne una reiterazione pressoché fedele. Entrambi i progetti, infatti, compaiono
sempre nelle note manoscritte di Woods accompagnati dal motto “University as City” [Fig.5],
volutamente contrapposto a “University in
City”. [19]
In De Carlo non si può individuare l’equivalente di un
prototipo. Così, l’apparente possibilità di applicare il nome di mat-building
indistintamente ai progetti di De Carlo e di Woods per Dublino perde presto di
significato. [20] Osservando i due progetti, entrambi mostrano di rispondere ai
criteri riassunti da Stan Allen, ed entrambi possono quindi a pieno titolo far
parte della genealogia tracciata da Alison Smithson. Le differenze, tuttavia,
sono più importanti delle congruenze.
La più evidente divergenza si trova nella definizione dei
limiti costruiti dei due progetti. Riproponendo quanto fatto a Berlino un anno
prima, Woods definisce un limite chiaro: un rettangolo in forte opposizione
alla complessità dello spazio interno. Il progetto di Woods è nella sostanza un
progetto di “interno”, atto cioè a ridefinire dal di dentro l’idea di
università come un continuo rimescolamento di componenti. E’ la letterale
traduzione spaziale di un’idea che, negli anni ’60, sta emergendo come nuovo
orizzonte della creazione di conoscenza: la multi-disciplinarità. Si tratta,
cioè, della convinzione che l’innovazione non avvenga mai all’interno del
confine protetto e certo di una singola disciplina ma sempre a cavallo di più
domini di studio.
Anche il progetto di De Carlo per Dublino [Fig.6] parte dalla
volontà di scardinare la monoculturalità disciplinare. Similarmente, anch’esso
sfrutta una griglia modulare per l’organizzazione spaziale di un programma
universitario scisso nelle sue componenti elementari e sparso per il sito a
disposizione. Tuttavia, mentre per Woods la griglia si dichiarava
esplicitamente, De Carlo la fa scomparire in un insediamento dai limiti
incerti. Le strade interiori di Woods, lineare materializzazione della griglia
ortogonale che distribuisce il programma mutevole dell’università, si
contrappongono a un diagramma ad albero in cui l’unico elemento certo è la
spina centrale dalla quale si dipartono spazi di livelli di specializzazione
variabile. E’ proprio sull’uso letterale e costrittivo della griglia che De
Carlo muove la principale critica all’amico Woods, il quale risponde “la griglia intellettuale è tutta nella tua
mente; la gente (e gli impianti) hanno bisogno di vie dirette”. [21]
Se è vero che lo stesso livello di retorica – l’idea
dell’indefinito, del mutevole – è presente in entrambi i progetti, la
differenza nel trattamento del limite costruito e nell’uso della griglia come
dispositivo progettuale è fondamentale per comprendere la divergenza tra due
approcci alla metafora università=città.
Per Woods, la comprensione dell’università come organismo
dotato di complessità urbana si traduce in un grande dispositivo [Fig.7] che, una
volta definiti in maniera inequivocabile i propri confini, promette infinite
possibilità di ri-combinazioni sociali grazie alla complessità della sua
organizzazione interna. Non è un caso, dunque, che Woods cambi il titolo del
suo saggio del 1969 da “The educational
super mart” (titolo che compare in una bozza manoscritta [22]) a “The Education Bazaar”, trovando il
proprio riferimento nella figura del bazaar arabo, una grande macchina
architettonica dal chiaro limite esterno e dai labirintici interni.
L’università-città di Woods può funzionare solo se intesa
in termini di “rimedio” nei confronti di una specifica condizione urbana. O,
più propriamente, suburbana. Come osservato da Alexander Tzonis e Liane
Lefaivre, l’università berlinese, localizzata in uno dei più ricchi sobborghi
residenziali della città, punta a risucchiarne gli abitanti con l’intento di dissipare la
loro identità suburbana [Fig.8] e “convertirli ad uno stile di vita più
umanistico”. [23] Oltre ciò, tuttavia, l’università-bazaar non può andare. Lo
ha notato Kenneth Frampton, affermando che “per
quanto un’università possa funzionare come una città in microcosmo, essa non
può generare la diversità propria della città.”. [24] A Berlino, e in
seguito a Dublino, la promessa dell’università=città si mostra in tutto il suo splendore
retorico.
Dublino è, per De Carlo, l’occasione di prendere le
misure per la definizione di quello che, nei suoi scritti, avrebbe definito
come un nuovo modello di università. Il tentativo di superare modelli assodati
e, secondo l’architetto genovese, diventati ormai equamente inefficaci – il
campus di matrice americana, il complesso universitario di origine
mitteleuropea, e l’università frammentata per facoltà disperse come atomi di un
sistema schizofrenico in Italia [25] – è affrontato a Dublino sul campo che risulta
canonico per gli anni ’60: la localizzazione di un grande insediamento
universitario in un’area periferica della città. Innumerevoli, infatti, sono le
università nel mondo occidentale che, nell’arco di circa un decennio, espandono
o costruiscono interi nuovi insediamenti in aree sottratte dal dominio rurale.
Tuttavia, per De Carlo la questione non sta nel comprendere l’università come
interna o esterna alla città. Piuttosto, l’università diviene l’istituzione
chiave per un ripensamento dell’idea stessa di città: quella Città Regione che,
l’anno prima alla Conferenza di Stresa, De Carlo ha contribuito a definire come
il nuovo ambito di azione dell’urbanistica. [26]
L’interesse nel leggere l’università come fondamento di
una ristrutturazione dell’idea di città è dunque la costante dell’opera di De
Carlo che, tuttavia, non si riscontra nella costruzione di un prototipo né
nella reiterazione di un modello architettonico definito. A Dublino, De Carlo
inizia a rimescolare gli elementi che costituiscono un grande complesso
universitario. In tal modo, egli punta a infiltrare, tra gli spazi più
specializzati, una serie di spazi generici di uso pubblico, e definisce lo
spazio esterno dell’università come nuovo parco urbano teso a intercettare la
nuova dimensione del tempo libero che va modificando profondamente il tessuto
sociale urbano. Sebbene localizzato in periferia, l’insediamento ha dimensioni
tali da poter ambire a porsi come tassello di una proiezione urbana alla grande
scala. Tale intento non è dissimile rispetto all’operazione che, in
contemporanea, De Carlo mette in atto a Urbino. La contrapposizione di una
nuova “roccaforte” – i nuovi collegi universitari – a quella esistente della
città medievale - a sua volta riletta attraverso l’iniezione di spazi accademici
- esprime una concezione dell’”urbano” oltre la scala di ciò che ancora evoca,
per lo meno in Italia, il termine “città”. [27]
Il percorso iniziato a Urbino e Dublino sfocia nel Piano
di Ristrutturazione dell’Università di Pavia, sul quale De Carlo inizia a
lavorare nel 1971. [28] Nella città lombarda, la dimensione territoriale della
città e dell’università vengono affermate nella maniera più esplicita. Non solo
il dislocamento di “poli” universitari di diversa gerarchia d’uso pubblico e
specializzazione degli spazi avviene in diverse aree dell’ambito propriamente
urbano – i poli “centrali”, “intermedi” e “periferici” che, come a Urbino, mescolano riuso di strutture
esistenti e costruzione di nuovi edifici. Nelle intenzioni del Piano,
l’università si dota anche di elementi mobili, concepiti come osservatori
temporanei in continuo pellegrinaggio [Fig.9] su un vasto
territorio regionale.
L’università diventa, così, il tassello-chiave per
ripensare la città come un’entità alla scala territoriale. Più nello specifico,
tuttavia, ciò che De Carlo raggiunge a Pavia è la definitiva affermazione del
progetto architettonico come strumento per mettere in crisi l’idea stessa di
università. Questo avviene in maniera molto diversa da quanto fatto da Woods
con la sua università-bazaar, tutta rivolta ad attuare ricombinazioni interne
alla grande macchina-edificio ma che, in definitiva, non si spinge ad affermare
un’effettiva deterritorializzazione dell’educazione avanzata: l’università
rimane quel grande complesso fortificato contro cui si scagliava la generazione
del ’68.
Nel definire l’università come un sistema di poli sparsi
per il tessuto urbano, al contempo iniettando in esso spazi generici per un uso
il più possibile pubblico, De Carlo mira a diluire i sistemi di potere
accademico, destabilizzando la vecchia università centralizzata. In questo
modo, egli risponde con lo strumento del progetto alla critica all’”unità di luogo” dei sistemi scolastici,
avanzata nel saggio del 1969. L’università è esplosa e trasformata in una
grande infrastruttura urbana in cui l’uso propriamente accademico si auspica sia
solo un momento transitorio: il vero obiettivo è stabilire le condizioni spaziali
in cui si possano definire continue re-territorializzazioni [29]; in cui
possano, cioè, essere praticate forme diverse di apprendimento oltre a quelle
tradizionali e impositive somministrate dall’istituzione accademica, in tal
modo puntando verso quella descolarizzazione della società predicata da Illich.
Il risultato è quell’assemblaggio urbanistico in un
continuo stato d’inquietudine, descritto da Stan Allen come corretta
interpretazione della nozione di mat-building. Laddove il diagramma ideato da
Woods identifica città e università attraverso una comprensione del
mat-building come sostantivo – il
mat-building, un oggetto costruito che è ipoteticamente capace di ricreare la
città – a Pavia, e quindi anche a Urbino e a Dublino, mat-building è interpretato
da De Carlo come verbo, come processo in continuo divenire. E non potrebbe essere
altrimenti, per un’istituzione, quella universitaria, in continua irrequietudine;
un’università che non si vuole “integrare” nella città, ma che si dichiara debba
necessariamente agire da elemento di disturbo. Pena la sua definitiva morte,
che ancora oggi stiamo piangendo.
Note
[1] Questo testo è una rielaborazione di una parte della tesi
di Dottorato in Architettura dell’autore, dal titolo The University as a Settlement Principle. The Territorialisation of
Knowledge in 1970s Italy (Università degli Studi di Cagliari, 2015).
[2] G. De
Carlo, Comment on the Free University, Architecture Plus 2, no. 1
(Gennaio 1974): 50–51.
[3] S. Woods, Remember the Spring of the Old Days?, Architecture Plus 2, no.
1 (Gennaio 1974): 51.
[4] Per
una discussione recente e di ampio respiro dell’espansione istituzionale e
spaziale dell’università durante gli anni ’60 e ’70 si veda: S. Muthesius, The
Postwar University: Utopianist Campus and College (London: Yale University
Press, 2000). Numerose sono le pubblicazioni di architettura che si occuparono
del mutamento dell’università all’epoca dei fatti. Tra queste si rimanda, per
una discussione principalmente anglo-americana, a: Clark Kerr, The
Uses of the University (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1963);
Richard P. Dober, Campus Planning (New York: Reinhold Pub. Corp., 1963);
Michael Brawne, a cura di, University Planning and Design: A Symposium,
Architectural Association Paper 3 (London: Lund Humphries for the Architectural
Association, 1967). Simili contributi provenirono da architetti italiani, tra
cui si rimanda in particolare a: G. De Carlo, a cura di, Pianificazione
E Disegno Delle Università (Roma: Edizioni universitarie italiane, 1968);
P. Coppola Pignatelli, L’Università in Espansione. Orientamenti
Dell’edilizia Universitaria (Milano: Etas Kompass, 1969).
[5] J. Rykwert, Universities as Institutional Archetypes of Our Age, Zodiac
18 (1968): 61–63.
[6] VV.AA.,
Contro l’Università. I Principali Documenti Della Critica Radicale Alle
Istituzioni Accademiche Del Sessantotto (Milano: Mimesis, 2008).
[7] Cfr. M. Biraghi, Università.
La Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, in Italia 60/70. Una
stagione dell’architettura, a cura di M. Biraghi et al., 87-98, Il
Poligrafo, Padova, 2010.
[8] Woods usò lo stesso titolo per un suo libro, pubblicato postumo. Cfr. Shadrach
Woods, The Man in the Street. A Polemic on Urbanism (Baltimore: Penguin
Books, 1975).
[9] Il
progetto fu ampiamente pubblicato sulle riviste internazionali di architettura.
Si veda in particolare: Architectural Design, Agosto 1964 (numero sul Team X) e
Gennaio 1974, e S. Woods, Free University Berlin, a cura di J. Donat (New York: The Viking
Press, 1965), 116–17. Si veda anche G. Feld et al., a cura di, Free
University, Berlin: Candilis, Josic, Woods, Schiedhelm (London:
Architectural Association, 1999). Per una discussione dell'opera di Candilis,
Josic & Woods si veda: Tom Avermaete, Another Modern. The Post-War
Architecture and Urbanism of Candilis-Josic-Woods (Rotterdam: NAi, 2005).
[10] A. Smithson, How to Recognise and Read Mat Building, Architectural Design,
no. 9 (Settembre 1974): 573–90.
[11] Eric Mumford, The Emergence of Mat or Field Buildings, in Le Corbusier’s Venice Hospital
and the Mat Building Revival, a cura di Hashim Sarkis (Munich London New
York: Prestel Verlag, 2001), 48–65.
[12] Stan Allen, Mat Urbanism: The Thick 2-D, in Le Corbusier’s Venice Hospital and the Mat
Building Revival, a cura di H. Sarkis (Munich London New York: Prestel
Verlag, 2001), 118–26.
[13] T. Hyde, How to Construct an Architectural Geneaology, in Le Corbusier’s Venice
Hospital and the Mat Building Revival, a cura di H. Sarkis (Munich
London New York: Prestel Verlag, 2001), 104–17.
[14] Tra
i testi principali si ricordano: G. De Carlo, Why/How to Build School Buildings, Harvard Educational Review,
no. 4 (1969) ripubblicato come Ordine Istituzione Educazione Disordine, Casabella,
no. 368–69 (Agosto 1972): 12–35; La Piramide Rovesciata (Bari: De
Donato, 1968); Pianificazione E Disegno Delle Università;: 65–71; Il
Territorio Senza Università, Parametro, no. 21–22 (Novembre 1973):
38–39.
[15] Un
interessante studio del rapporto tra università e città che, nonostante il
titolo, va oltre la metafora dell’identità tra le due è Sharon
Haar, The City as Campus: Urbanism and Higher Education in Chicago
(Minneapolis: University of Minnesota Press, 2011).
[16] Shadrach
Woods, The Education Bazaar, Harvard Educational Review, no. 4 (1969):
116–25.
[17] G. De Carlo, Why/How to Build School Buildings.
[18] J. Dewey, Experience
and Education (New York: The Macmillan company, 1938); Ivan Illich, Deschooling
Society (London and New York: Marion Boyars, 1970).
[19] Una
nota manoscritta di Woods conservata agli Avery
Drawings & Archives della Columbia University mostra in maniera
esplicita questo contrasto: la scritta originaria University in City è modificata in University as City.
[20] Per
il progetto di De Carlo per Dublino si veda: Giancarlo
De Carlo, Proposta per Una Struttura Universitaria (Venezia: Cluva,
1965).
[21] Woods, Remember the Spring of the Old Days?.
[22] S. Woods, The Education Super Mart, Avery Drawings & Archives, Shadrach
Woods Archive, Papers collection, Feld Box 08.
[23] A. Tzonis and L. Lefaivre, Beyond Monuments, Beyond Zip-a-Tone, Into
Space/Time, in Free University Berlin: Candilis,
Josic, Woods, Schiedhelm, by Architectural Association, Exemplary
Projects 3 (London: AA Publications, 1999); mia traduzione dall'inglese.
[24] K. Frampton, Modern Architecture: A
Critical History (London: Thames and Hudson, 1980), p.277; mia traduzione
dall'edizione inglese.
[25] Questi modelli sono discussi da De Carlo nell’introduzione a De
Carlo, Pianificazione E Disegno Delle Università.
[26] “La prima ipotesi considera che la città
regione sia una città a smisurata crescita, che si espande e dilaga nel
territorio sotto forma di continuo urbano […] La seconda ipotesi considera che
la città regione sia una agglomerazione di centri che, pur essendo coinvolti da
un comune processo di sviluppo, conservano una loro autonoma esistenza […] La
terza ipotesi considera la città regione come un artificio di forme, atto a
risolvere i problemi della congestione. Infine c’è una quarta ipotesi – con la
quale personalmente concordo – che considera la città regione come una
relazione dinamica che si sostituisce alla condizione statica della città
tradizionale.”Giancarlo
De Carlo, ‘Relazione Conclusiva al Seminario dell’ILSES Sulla Nuova Dimensione
e La Città-Regione’ (Stresa, 1962).
[27] Tra
i numerosi testi sul lavoro di De Carlo a Urbino si veda: Giancarlo
De Carlo and Pierluigi Nicolin, Conversation on Urbino, Lotus
International, no. 18 (Marzo 1978): 6–22.
[28] I
materiali originali del Piano per
l’Università di Pavia sono contenuti in Giancarlo De Carlo, Pavia Piano
Universitario: Relazione Generale, 18 February 1974, IUAV Archivio
Progetti, Fondo De Carlo, pro/057.1/18/22, 040550, Venezia. Il Piano è discusso
da De Carlo in Giancarlo
De Carlo, Un Caso Di Studio: l’Universicittà Di Pavia, Parametro, no.
44 (Marzo 1976): 20–22, e Un Ruolo Diverso dell’Università: Il Modello
Multipolare per l’Università Di Pavia, in Progettare L’università, di
Giuseppe Rebecchini (Roma: Edizioni Kappa, 1981), 144–51.
[29] Sull’università
come ciclo continuo di de-territorializzazione e ri-territorializzazione si
veda Gerald Raunig, Factories of Knowledge. Industries of Creativity
(Los Angeles: Semiotext (e), 2013).
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Francesco Zuddas (PhD, MA) è Senior Lecturer alla Leeds School of Architecture e Associate Lecturer alla Central Saint Martins a Londra. Ha studiato architettura, ingegneria e urbanistica all'Università di Cagliari - dove ha anche insegnato tra il 2009 e il 2015 - e all'Architectural Association. Nella sua tesi di dottorato "“The University as Settlement Principle” ha indagato lo spazio dell'università come campo critico di prova per un'idea di città.