Abstract:
Apertura dell’opera, apertura dell’insegnamento: il criterio proposto è condotto su frammenti di un discorso a più voci che lo descrive, lo apre alle diverse interpretazioni e eventualmente lo precisa grazie ad una relazione mutevole tra chi scrive e chi legge e a sua volta interpreta. Il percorso segue le tracce lasciate dagli esempi scelti che possono definire principi generali, che diverrebbero in tal caso strumenti per attivare ulteriori aperture verso altri contesti.
Esistono problemi che non consentono una soluzione generale ma piuttosto soluzioni singole che, combinate, si avvicinano alla soluzione generale.
Musil, L’uomo senza qualità
L’opera di insegnamento ha come primo obiettivo lo sviluppo della capacità di elaborare le conoscenze via via acquisite; questo contributo percorre una modalità educativa per l’architettura, utilizzando quale struttura della narrazione lo stesso metodo di cui si intende ragionare. Con l’intento di offrire, al pari della prassi di insegnamento verso la quale volgo, una composizione di esempi resi disponibili all’interlocutore, alla sua personale interpretazione; si tratta di una struttura del testo (e del metodo) che definirei aperta.
1. Apertura dell’opera, apertura dell’insegnamento. Il criterio proposto è condotto su frammenti di un discorso a più voci che lo descrive, lo apre alle diverse interpretazioni e lo precisa grazie alla relazione mutevole tra chi racconta e chi ascolta. Il percorso segue le tracce lasciate dagli esempi scelti che possono definire principi generali, cioè strumenti per attivare ulteriori aperture verso altri contesti. «Di qui la funzione di un’arte aperta quale metafora epistemologica: in un mondo in cui la discontinuità dei fenomeni ha messo in crisi la possibilità di una immagine unitaria e definitiva, essa suggerisce un modo di vedere ciò in cui si vive, e vedendolo accettarlo, integrarlo alla propria sensibilità. Un’opera aperta affronta appieno il compito di darci una immagine della discontinuità: non la racconta, la è. Mediando l’astratta categoria della metodologia scientifica e la viva materia della nostra sensibilità, essa appare quasi una sorta di schema trascendentale che ci permette di capire nuovi aspetti del mondo» (Eco,1962). La stessa traccia qui presentata potrebbe essere un frammento di un senso profondo dell’educazione all’architettura.
2. Erich Auerbach, in «Mimesis», afferma: «Il mio sforzo di precisione si indirizza al singolo ed al concreto, mentre le formule generali indispensabili a comparare, raggruppare o definire i fenomeni l’uno rispetto all’altro dovevano essere fluide ed elastiche. Esse dovevano adattarsi caso per caso alle possibilità esplicitate dall’oggetto singolo, e devono essere interpretate caso per caso sulla base del contesto. [...] Avrei voluto, se fosse stato possibile, non usare alcuna espressione generale, ma suggerire al lettore i pensieri attraverso la pura e semplice presentazione di un susseguirsi di fatti singoli» (Auerbach, 1946). La Mimesis fissa l’intenzione di lavorare per paradigmi, cioè «fatti singoli» che possono reagire con la capacità immaginativa e l’obiettivo di ricerca del lettore per aprire verso principi generali un pensiero autonomo .
Questa riflessione radica nella mia esperienza personale di pratica e d’insegnamento del progetto, la coinvolge e da lì estende attraverso i nodi metodologici che la sostanziano, qui esemplificati nelle varie forma dei frammenti. Essi coniugano l’esperienza di ricerca personale, il piano della realtà che si indaga e si abita, l’ambito disciplinare nel quale si colloca il processo, con i suoi riferimenti e la sua tradizione.
3. «Più medito sull’arte mia, e più l’esercito: tanto più penso ed agisco, tanto più soffro e godo d’essere un architetto, e vivamente mi riconosco quale sono con voluttà e chiarezza sempre più certe. Smarrito in lunghe attese, mi ritrovo per le sorprese che mi cagiono e, attraverso questi gradi successivi del mio silenzio, procedo nell’edificazione di me stesso, mi accosto a così fedele rispondenza tra aspirazioni e facoltà mie da credere d’aver trasformato l’esistenza che mi fu data in una specie d’edifizio umano. Tanto costruissi, da credere d’essermi anch’io costruito» (Valéry, 1997).
Il tema dell’educazione al progetto di architettura è considerato dunque nei termini olistici che implicano la costruzione di sé e la realizzazione del proprio fare. Questo presupposto del coinvolgimento della stessa figura del docente nel processo progettuale dell’insegnamento, sia proiettivo sia riflessivo, conduce a una stretta condivisione, continuamente autocritica, dell’esperienza della costruzione. Si tratta, per l’appunto, di un processo olistico che fonda sulla relazione tra le persone, le informazioni, le necessità specifiche. Porre anche se stessi come campo di indagine significa ottenere, nel percorso d’insegnamento del progetto d’architettura (e forse anche in altre discipline complesse), una effettiva comunicazione tra maestri e allievi che permette di condividere e che rende disponibili gli esempi quali concreti strumenti sperimentabili piuttosto che sterili affermazioni esortative.
4. «Dobbiamo riconoscere che gli effetti di quella ricerca (architettonica, negli anni ’60 e ’70) non hanno in alcun modo condotto alla costruzione di una base teorica unitaria, ma alla formazione di una serie di frammenti teorici dispersi e contraddittori anche se per questo non meno importanti. Soprattutto tali nuove teorie non hanno prodotto adeguate metodologie per il passaggio concreto ed articolato dai principi alle cose architettoniche. […] I principi non sono divenuti regole e metodi trasmissibili, sono rimasti modelli e immagini, e quindi rapidamente l’imitazione formale è divenuta l’unico sistema pedagogico praticato» (Gregotti, 1983). Gregotti, cui è tanto caro il riferimento alla Mimesis da avervi dedicato un editoriale di Casabella, è qui condotto quale riferimento di una scuola alla quale sento di appartenere. Il valore primo che attribuisco a quella scuola di pensiero sta precisamente in questo: la ininterrotta costruzione e pratica di un pensiero autonomo e critico (e auto-critico) come base del proprio rapporto con la realtà.
5. Per Gregotti questo assunto è ciò che sostanzia in profondità e dunque costantemente rigenera l’idea stessa di modernità. Lo sguardo interpretativo come strumento educativo è presupposto di questa tradizione; il suo maestro, Ernesto Rogers, parla di «Ortodossia dell’eterodossia» per voce di Baudelaire: «Quanto alla critica propriamente detta, io spero che i filosofi comprenderanno quel che dico: per essere giusta, cioè per avere la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica; cioè fatta da un punto di vista esclusivo, ma che apre anche più orizzonti» (Rogers, 1946).
Studiare e progettare sono un modo di esercitare la nostra critica verso la realtà. Il progetto di architettura, e dunque lo studio dell’architettura, è un modo profondo di conoscere lo spazio, l’ambiente, il luogo, Il territorio, la città, il paesaggio: la realtà. Per cambiarla. Lo sguardo critico non è oggettivo, ma vuole comprendere la realtà. Intende la differenza tra realtà (singolare) e verità (sempre plurale), mettendo in discussione anche se stesso. Comprende la necessità della relazione per compiere ulteriori passaggi verso la comprensione. E si assume la responsabilità di essere relativo e parziale, appassionato e politico, per poter attivare, con la relazione, più ampi orizzonti.
6. Nel «Mestiere dell’architetto», Rogers torna sul ruolo dell’autonomia del pensiero riportando le parole di uno dei suoi riferimenti, Walter Gropius: «Mio intendimento non è di trapiantare, per così dire, reciso e privo della sua linfa uno “Stile Moderno” [...] bensì di suggerire un metodo di accostamento che permetta all’individuo di affrontare un problema secondo la sua peculiare inclinazione. [...] Non è un dogma bell’e fatto che voglio insegnare, bensì un atteggiamento indipendente ed elastico verso i problemi della nostra generazione» (Rogers, 1958). L’insegnante è tale nella relazione con l’allievo: non impone un’idea del mondo, non determina la cosa da riprodurre; è più propenso viceversa a discutere una modalità di ragionamento; una costruzione delle idee che coinvolge entrambi.
7. Arìs riconosce nel proprio maestro, Giorgio Grassi, una di queste figure interlocutorie: un reagente che rivela il momento di crisi e che obbliga all’attivazione del proprio pensiero. Sono figure che non sostituiscono con una rassicurante soluzione la ricerca di cui personalmente ci si deve incaricare. «Alcuni meritano appieno il titolo di maestri difficili, poiché in essi non troviamo protezione né consolazione ma, piuttosto, interrogativo morale e coscienza profonda del fatto che il nostro è un cammino da percorrere in solitudine e senza nessuna garanzia che esso ci porti infine da qualche parte». (Arìs, 2007).
8. Il nodo cruciale è evidentemente quello della comunicazione. La capacità di comunicare coincide con quella di ascoltare. L’educazione è educazione all’ascolto e riguarda soprattutto chi deve comunicare. Ascoltare: in quanta architettura si può rintracciare l’attitudine all’ascolto che dovrebbe averla sostanziata? Quanta è disponibile a farsi cornice o sfondo di ciò che la abita o la attraversa? «Sentivo la spietatezza di quella vita: le cose scorrevano l’una accanto all’altra, senza mai veramente affrontarsi. Saltava agli occhi che non soltanto nessuno capiva l’altro, ma nessuno voleva capirlo. [...] Quando parlavano, era come se si guardassero in uno specchio deformante, si presentavano infatti nel travisamento delle parole, diventato, presumibilmente, il loro ritratto. Quando cercavano di farsi capire, fallivano miseramente: e si incolpavano a vicenda in modo così maldestro che le offese suonavano elogi e gli elogi offese. La loro impotenza mi commuoveva. [...] L’impotenza connaturata e nascosta dei singoli che facevano parte per se stessi, che non avevano fra loro nulla in comune, e men che mai la parola, che anziché unirli li separava» (Canetti, 1982).
9. L’apertura dell’opera, dell’insegnamento, dell’apprendimento si compie allora con il progetto riflessivo, con la critica, con l’ascolto: cioè con l’attivazione di un ambito complesso e, secondo i presupposti, olistico. «Un modo di pensare capace di interconnettere e di solidarizzare delle conoscenze separate è capace di prolungarsi in un’etica di interconnessione e di solidarietà tra umani. Un pensiero capace di non rinchiudersi nel locale e nel particolare, ma capace di concepire gli insiemi, sarebbe adatto a favorire il senso della responsabilità e il senso della cittadinanza. La riforma del pensiero avrebbe dunque conseguenze esistenziali, etiche e civiche» (Morin, 2000).
Così Morin definisce il ruolo del pensiero complesso; l’intreccio attuale delle quantità e delle qualità in gioco non possono che portare ad un campo di ricerca sistemico. I frammenti che lo popolano possono attivare, se resi disponibili, una possibilità di integrazione tra persone, cose e idee; a patto che la nostra responsabilità si traduca operativamente nella apertura dei propri steccati, nell’autoeducazione all’ascolto, nella generosità di intendere l’insegnamento come un passaggio di consegne a chi pratica il futuro quale tempo proprio.
L’insegnamento è inteso come chiave da consegnare: per aprire il progetto del presente.
Bibliografia
Arìs C. M. (2007). Maestri difficili, a proposito di Giorgio Grassi, in: La centina e l’arco. Milano: Marinotti.
Auerbach E. (1946). Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. Torino: Einaudi.
Barthes R. (1979). Frammenti di un discorso amoroso. Torino: Einaudi.
Canetti E. (1982). Il frutto del Fuoco, Storia di una Vita (1921-1931). Milano: Adelphi.
Eco U. (1962). Opera Aperta, Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano: Bompiani.
Gregotti V. (1983). Mimesis, Casabella (n. 490), 2-3.
Morin E. (2000). La testa ben fatta, Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano: Raffaello Cortina .
Musil R. (1957). L’uomo senza qualità, Torino: Einaudi.
Rogers E. N. (1958). Esperienza dell’architettura, Milano: Einaudi.
Rogers E. N. (1957). Ortodossia dell’eterodossia, in Casabella Continuità (n. 216), 2-4.
Valéry P. (1997). Eupalino o l’architetto, Pordenone: Biblioteca dell’Immagine.
Andrea Di Franco (1966) è architetto e Professore Associato del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. Laureato nel 1992, nel 2006 consegue il Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana. Nel 2008 è assunto come ricercatore di ruolo a tempo indeterminato in Progettazione Architettonica. È membro del Collegio dei docenti del Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica, Urbana e degli Interni. È membro del comitato scientifico della collana “Politecnica”, Maggioli Editore e della collana “Confini, fondamenti e strumenti dell’architettura”, Marinotti Editore. È membro della redazione scientifica della rivista del Dipartimento, “Territorio”.