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Carlo Gandolfi

Il Banco de Bilbao di Francisco J. Sáenz de Oíza

"Come una navata industriale"

Banco de Bilbao, Francisco Javier Sáenz de Oíza

Banco de Bilbao, Francisco Javier Sáenz de Oíza

Abstract
Una sorta di foglio bianco, con regioni di colore isolate in una griglia, il bianco come sfondo, alla stregua dello spazio indiviso è la prima idea che Francisco Sàenz de Oíza fissa per la concezione della sede del Banco di Bilbao progettato a Madrid nel 1974: è infatti il partito spaziale a caratterizzare le piante della torre che rivelano, al proprio esterno, il nitore e la pulizia di una forma pura e incancellabile, senza per questo essere assertiva o autoreferenziale.
Un oggetto urbano che non scinde gli aspetti tecnico-impiantistici, da quelli strutturali e espressivi. Un ragionamento architettonico che, a distanza di quarantadue anni dal progetto, rappresenta nella città di Madrid e in generale, una costruzione esemplare nel pensare la modernità alla scala della città e del fruitore dell’edificio, che ci insegna a pensare al progetto come momento di apprendimento e riflessione profonda.

Uno dei presupposti del progetto di concorso vinto da Sáenz de Oíza per la torre degli uffici per il Banco di Bilbao è quello di elevare le strutture di fondazione a partire dal un livello sotterraneo dovendo scavalcare il cosiddetto tunnel ferroviario de la Risa che attraversa il Paseo de la Castellana la cui costruzione ha avuto inizio negli anni ‘30. Un forte vincolo che costituirà proprio il motore che sta alla base dell’ingegno strutturale dell’edificio.
«Mi sono ispirato allo schizzo di Mondrian per fare il Banco di Bilbao; questo schizzo è stato presente in molte occasioni. Il piano bianco si vede, ma il formato della carta non viene ridotto, il bianco va sotto»2: un foglio bianco, con regioni di colore isolate in una griglia, il bianco come sfondo, alla stregua dello spazio indiviso che caratterizza le piante tipo della torre madrilena.
Una straordinaria coppia di schizzi fatta negli Stati Uniti nel 1946 ci dà l’idea di quanto – per Oíza – fosse impossibile non considerare come dato di fatto il sistema impiantistico e come esso sia il punto di partenza per armonizzare gli spazi con le reti e le infrastrutture. Un simile atteggiamento ha il merito di rendere coerente la forma dell’edifico (e dello spazio) con l’apparato strutturale: l’idea di un edificio contestuale e inscindibile da quella della sua ossatura, dai suoi organi.
Occorre soffermarsi su qualche passaggio della relazione di progetto: «La nostra proposta si articola su due differenti livelli. Una macrostruttura resistente alle grandi azioni della gravità o cariche dinamiche e una struttura di suddivisione spaziale […]. Ogni cinque piani, la struttura proposta offre una pianta totalmente diafana e priva di pilastri in tutta la sua superficie di 30 x 40 metri, il che suppone che il 20% del programma totale degli uffici costituisce un unico ambiente di lavoro. Questi grandi ambienti di lavoro diafani si trovano negli spazi immediatamente sottostanti la grande struttura appesa di cemento armato, in modo tale che il volume interno di queste aree di lavoro viene incrementato attraverso lo spazio tra le solette (dei singoli nuclei strutturali, n. d. a.). La visibile epopea costruttiva di questa struttura, sarà sufficientemente evidente a livello urbano, perché possa essere percepita storicamente, come forma indelebile»3.
Da questa descrizione emerge con forza il rapporto tra concezione spaziale e idea strutturale, messe a sistema nei disegni delle piante e della sezione tipo dell’edificio.
Si tratta, di fatto, di una sorta di capovolgimento: l’idea di sovrapposizione di piani è ribaltata in favore del meccanismo di sospensione di nuclei; di un uso intelligente e inedito della forza di gravità. Sorge spontaneo interrogarsi sul perché avvenga questa sorta di spostamento concettuale: le risposte possono essere molte; certamente la più interessante dal punto di vista dell’architetto risiede proprio nell’atteggiamento progettuale di Oíza. In tutta l’opera dell’architetto spagnolo ricorre ciclicamente una sorta di dato metodologico che si traduce in esiti molteplici: quello della non-convenzionalità. Ogni progetto è un caso a sé; non esistono cifre linguistiche o forme preconcette. Ogni progetto è una riflessione, un re-inizio, una nuova invenzione che, a partire da temi diversi e luoghi diversi, costituisce un passo in avanti, un avanzamento nella sua ricerca4, in nome di quello «spirito americano inventivo in ogni sua parte»5 che lo guiderà lungo mezzo secolo di professione.
Altro dato di interesse è il rapporto con la città di Madrid, il suo ruolo urbano. Una presenta che si dichiara monumentale nella sua ricercata indelebilità sin da subito, ma che non per questo si sottrae a un’attenta ricerca di rapporti con l’esterno. La facciata è un autentico dispositivo tecnico e linguistico: «La dialettica tra esterno e interno non si risolve in una assurda dialettica che separa rigidamente il dentro e il fuori attraverso un elementare diagramma di vetro […]. La definizione di concetto di soglia, una zona limite di compenetrazione e di proiezione […]. Si prevede inoltre un secondo sistema di frangisole metallici che determinano in modo definitivo questa condizione di soglia, o di anello di interrogazione dentro-fuori. […] L’angolo tradizionale obbedisce a una tecnologia legata al mattone o alla pietra che merita di essere riconsiderata. L’esterno penetra all’interno attraverso questa facciata-spugna di pelle sensibile.»6
È come se la torre si ponesse in maniera del tutto neutra rispetto alla città di Madrid; come se guardasse alla città senza una direzione, come se volesse essere lì da sempre, in una forma archetipica e insieme prototipica: un edificio che «si presenta come sintesi di diversi atteggiamenti; una sintesi addolcita come gli angoli stondati del rettangolo, (…) la pianta libera, l’ufficio – paesaggio, circondata da una facciata tersa di un espressionismo sfumato»7.
Il problema della “neutralità” delle torri urbane e dei grattacieli è, di fatto, connaturato alla tipologia stessa di torre, nell’origine semantica della sua pianta quadrata, che ne annulla il concetto di facciata principale in nome della sua visibilità da trecentosessanta gradi. La sua forte componente tecnica - che pone un inequivocabile rimando al suo carattere oggettuale - ci fa pensare ad una torre che potrebbe stare ovunque, in qualsiasi città, per qualsiasi banca. Ma questa è solo un’apparenza. Non è soltanto vero che potremmo spostare molte torri o molti grattacieli da una città all’altra in una sorta di processo globalizzante e scambista di una tipologia passe par tout. Abbiamo infatti visto come la sua struttura parta da un vincolo che sta nascosto nelle viscere della città e come, a partire da questo vincolo, il progettista sia riuscito a dimostrare come la validità di un progetto stia anche nella capacità di risolvere un problema sollecitandone uno di rango maggiore. La soluzione e il partito strutturale, la sua misura, nascono da ciò che esiste già. Quasi una sorta di afflato simbiotico che parte proprio dalla città stessa, sebbene non si tratti di una connessione fisica tra il tunnel e la torre, ma di una condizione di tangenza e coesistenza.
Il rapporto con la città trova un ulteriore punto di scambio, la grande hall ai piani terra. Per comprendere meglio questo rapporto proviamo a fare un rapido confronto con il Seagram Buiding di Mies van der Rohe. Da un lato, l’azione di generare spazio pubblico – un luogo di riparo, accoglienza e accesso – e sollevare, di fatto, l’intero volume di contorno alla stregua di una palafitta o di un portico che cinge un’anima dura e, dall’altro, quello di arretrarsi dal filo della cortina stradale formando uno spazio di sosta, di pausa, di silenzio e demandando a quella sorta di basamento trasparente e luminoso il ruolo di hall esterna o di anticamera urbana.
Questo edificio, oltre a insegnarci quanto i confini delle cosiddette architetture organiche e funzionaliste possano essere facilmente superati in nome dell’unità del progetto di architettura, rappresenta senza dubbio uno degli esempi meglio riusciti di come una costruzione possa riunire in sé, con grande coerenza, ardimento costruttivo e slancio ideale senza ricadere in banali e fragili tecnicismi: «Struttura di strutture come proponevano gli Archigram e i metabolisti giapponesi per la crescita della città del futuro»8.
Questo progetto ci costringe a ragionare su quanto un’architettura possa rappresentare l’esito coerente di un ragionamento, di una sommatoria di principî, di un pensiero e di un processo – in prima istanza – culturale. In sintesi, di come l’architettura sia un gesto culturale e che il suo “essere arte” tecnica, è il dare forma a coerenti e immaginate idee. Come può l’architettura - del resto - resistere al tempo e restituirci, proprio attraverso la sua immagine, quanto la sua contemporaneità detta in termini di tecniche costruttive, linguaggio e forma? Una delle possibili risposte sta nella ricerca della stabilità della forma unita all’efficacia della figura costruita: «Oíza era un nuovo Vitruvio che, pur avendo accettato di svolgere il più modesto dei corsi (Oíza ha intrapreso la sua carriera accademica come professore di Salubriedad y Igiene), era capace di mostrarci come la venustas si attua solo quando la utilitas e la firmitas sono soddisfatte»9. Il senso di compiutezza e di unitarietà restituiscono l’ambizione di donare a Madrid un volto fondamentale tra i mille che ne disegnano la scena. Tanto fondamentale da divenirne non icona, ma caposaldo incancellabile.
Note
1 “Come una navata industriale, un edificio per uffici è un piano complesso di lavoro, che si adegua, in ogni istante, alla sua propria e precisa funzione costruttiva.” dalla relazione del oncorso, riportata in Banco de Bilbao: Sáenz de Oíza, Ed. Departamento de Proyectos Arquitectónicos de la ETSA, Madrid, 2000, pp. 33-34.
2 Rosario Alberdi, Javier Sáenz Guerra, Francisco Javier Sáenz de Oiza, Pronaos, Madrid, 1996, p. 148.
3 «El Croquis», n° 32-33, Francisco Javier Sáenz de Oíza 1947-1988, Madrid, 2002. p. 88. (Trad. dell’autore; i corsivi sono originali)
4 Certamente questo atteggiamento può trovare un fondamento negli anni di formazione di Sáenz, nel suo primo viaggio del 1947-48 con la borsa di studio Conde de Cartagena della Accademia reale di Belle Arti di San Fernando: «[...] sono andato negli Stati Uniti per capire come viveva la gente... Rientrato dagli Stati Uniti conoscevo come funzionava il traffico... la soluzione ad un problema genera altri problemi». Rosario Alberdi, Javier Sáenz Guerra, Francisco Javier Sáenz de Oíza, Pronaos, Madrid, 1996, p. 19.
5 Rosario Alberdi, Javier Sáenz Guerra, Op. cit., Pronaos, Madrid, 1996, p. 19.
6 «El Croquis», n° 32-33, Francisco Javier Sáenz de Oíza 1947-1988, Madrid, 2002. p. 90, 92.
7 José Manuel López-Peláez, Oíza y el reflejo del Zeitgeist, in «El Croquis», cit., p. 199.
8 Javier Vellés, OizaBB, in Banco de Bilbao: Sáenz de Oíza, Ed. Departamento de Proyectos Arquitectónicos de la ETSA, Madrid, 2000, pp. 15-19. Valles richiama alla nota n° 3 di questo saggio anche lo scritto di Alfonso Valdés La conexión americana, in «Arquitectura», n° 228, gen. - feb. 1981. In questo scritto (anch’esso a sua volta riportato in Banco de Bilbao: Sáenz de Oíza, pp. 27-31) Valdés opera una ricognizione sulle relazioni tra il progetto per il Banco di Bilbao, quelle che chiama le “megastrutture” di Luis Kahn, di Kenzo Tange e dei metabolisti giapponesi.
9 Rafael Moneo, Perfil de Oíza joven, in «El Croquis», cit., p. 194.

Carlo Gandolfi. Architetto (Politecnico di Milano) è dottore di ricerca in Composizione Architettonica e Urbana allo IUAV di Venezia e ricercatore al DICATeA - Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università degli studi di Parma.
Piet Mondrian, Composite in Blue A, 1917
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Piet Mondrian, Composite in Blue A, 1917