Abstract
Che Hassan Fathy lavori sulla tradizione è cosa nota. Ciò che lo scritto indaga è il metodo, provando a chiarire in quale modo l’architetto egiziano operi su un sistema di elementi e relazioni già codificate. Sono quindi messe in luce le principali tecniche compositive attraverso cui Fathy costruisce il proprio linguaggio, ponendosi in continuità con la storia e, al tempo stesso, dando vita ad architetture nuove, ma capaci di esprimere un forte carattere identitario.
Articolo
La tua sorte ti segna quell’approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all’isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.
Itaca t’ha dato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un’Itaca.
Constantinos Kavafis, Itaca (24-36)
Nel febbraio 1958 Dimitri Pikionis regala all’amico Hassan Fathy una raccolta di poesie del greco Kavafis. Il libro è una delle poche testimonianze rimaste della loro conoscenza. I due si incontrano ad Atene negli anni durante i quali l’architetto egiziano lavora nello studio di Constantinos Doxiadis (1957-61). Quando Fathy arriva in Grecia Pikionis sta completando il progetto di sistemazione delle aree di accesso all’Acropoli e al Filopappo, Fathy lo osserva ammirato mentre compone le pietre direttamente sul luogo. Entrambi sono esponenti di un’altra modernità; diverso è il modo di lavorare con la tradizione, ma comune è l’intento di ‘inventare’ una nuova architettura, traghettando le forme della storia nella contemporaneità (Luisa Ferro, 2004).
È questo, infatti, l’asse portante attorno al quale si struttura l’intera opera di Fathy, che si configura come un’ininterrotta ricerca intorno alla questione linguistica e identitaria. Una ricerca indissolubilmente legata ad un preciso momento storico in cui l’Egitto, ancora vincolato al suo passato di dominazione straniera, necessita di ridefinire la propria identità nazionale.
In questa necessità l’opera di Fathy trova la sua ragione più profonda: “Je suis un architècte, qui a perdu tout point de repère dans sa société arabe. Je suis un architecte arabe qui a perdu son arabité. Je suis en train de recherchér une architecture et un urbanisme, de retrouver mon arabité perdue” dice l’architetto in un’intervista del 1978, rispondendo alla domanda “qui êtes vous?”. Un’arabità perduta, cercata e infine ritrovata, scegliendo di volgere lo sguardo al passato e di progettare a partire da esso. Non è però un processo mimetico quello che Fathy mette in campo, ma uno di tipo inventivo, che implica il riconoscimento della propria appartenenza ad una famiglia spirituale e richiede la definizione dei confini spaziali e temporali della tradizione alla quale fare riferimento. Orizzonti ampi in questo caso. Riconoscendo infatti nell’essere arabo l’identità più profonda del suo popolo, egli sceglie di abbracciare il mondo della koinè araba nella sua totalità, per codificare, a partire da essa, un nuovo linguaggio. Viene così innescato un processo di ritualizzazione e formalizzazione (Eric J. Hobsbawn, Terence Ranger, 2002) che si serve di materiali antichi, riscoperti e trasposti nella contemporaneità.
Sono elementi della tradizione, aulica o vernacolare, egiziana o araba, alcuni andati perduti, altri ancora vivi. Inserendosi nella catena genealogica della forma egli si pone in continuità con essi: nel dialogo con il passato e nella ripetizione è presupposto un meccanismo di riconoscimento e di condivisione, mentre nella scelta degli elementi che di volta in volta si compie e nelle trasformazioni semantiche sta invece un principio di modernità. Le architetture di Fathy procedono così per montaggi di citazioni e riscritture di parti già definite, ricomposte secondo un nuovo ordine. è la ricerca di un codice costruttivo e formale che, una volta assimilato, viene tradito. Qui nasce l’invenzione.
Ma se “le invenzioni architettoniche sono scelte tra materiali che esistono” (Luciano Semerani, 2000, 66), il modo in cui Fathy lavora sul sistema codificato della tradizione si traduce, dal punto di vista operativo, nell’uso di una serie di tecniche compositive.
Al principio sta l’analogia, in funzione della quale è guidata e legittimata la scelta degli elementi che di volta in volta si compie. Fathy guarda infatti al bacino della tradizione per individuare esempi che soddisfino condizioni analoghe a quelle di progetto, perché concepiti in una situazione analoga dal punto di vista semantico, sociale, culturale, climatico. Esempi che sono poi calati nella realtà del luogo e modificati, per adattamenti successivi, secondo precisi criteri, che rispondono alle intenzioni del progetto stesso.
È questo, ad esempio, il caso della parte di villaggio desertico tunisino a partire da cui è concepito l’impianto dei nuclei residenziali del villaggio di New Baris (1965), ciascuno dei quali costituisce, nella sua configurazione spaziale, una variazione del modello di partenza (Adele Picone, 2009). Il modello, soggetto a un processo analitico, è scomposto, ne sono individuati i principi costitutivi ed è poi ricostruito, preservandone le regole intrinseche. Lo stesso accade con il centro del villaggio e con gli edifici pubblici di cui questo si compone. Lo spazio collettivo e le sue parti sono infatti operazioni di memoria di forma, operazioni analogiche e tipologiche. L’analogia è qui lo strumento attraverso il quale attribuire a ciascuna architettura il ruolo che deve recitare nell’insieme. Il valore urbano degli edifici si esplica nella dimensione dell’allusione e del ricordo. Essi sono una citazione e, al tempo stesso, un’interpretazione personale di essa. Sono memoria di una generica città araba e dei suoi personaggi significanti, di un palazzo nobiliare con le sue corti e i suoi giardini o di una città carovaniera che si perde nel deserto (Alberto Ferlenga, 1998). Pezzi analoghi, frammenti ricomposti. Tipo dunque come disposizione logica delle parti che lascia la sua impronta pur mutando, talvolta, il proprio significato e mezzo d’invenzione, attraverso operazioni di ibridazione e contaminazione, legate a una nuova interpretazione della realtà.
Anche il materiale, le scelte costruttive, quelle tecnologiche e gli elementi dei quali si compone il linguaggio di Fathy - siano sintagmi semplici o complessi, strutture spaziali o figure invarianti - stanno tutti in un rapporto analogico con le loro matrici di partenza, con i primi anelli di quella catena che l’architetto, con la sua opera, intende proseguire.
Gli elementi, estrapolati dal loro contesto originario e poi ricontestualizzati, sono oggetto di un processo di trasposizione (Fernanda De Maio, 2000). Trasposizione temporale, dal passato al presente e trasposizione spaziale, da un luogo ad un altro, anche tra loro geograficamente lontani, ma comunque afferenti a quel substrato comune che è per Fathy il luogo dell’identità collettiva: la tradizione.
La natura degli elementi è duplice, essi sono semplici o complessi, assunti singolarmente o come facenti parti di sistemi in cui la disposizione e la relazione tra le parti sono già predefinite e che sono pertanto trasposti come interi nel progetto. In alcuni casi gli elementi sono mantenuti invariati, identici al modello, come citazioni. In altri si ha una variazione di scala; in altri ancora, una reinterpretazione o semplificazione, che riduce l’elemento alla sua essenza e ne conserva il principio intrinseco. è quest’ultimo, ad esempio, il lavoro fatto sulla Qa’a, la sala di ricevimento per gli ospiti dei palazzi del Cairo medievale, quando è assunta come stanza “per l’umile casa del contadino” (Hassan Fathy, 1972, 147). Se ne ripropongono la configurazione planimetrica e altimetrica e le parti costituitive. Ciò che è preservato è la forma stereometrica privata di ogni accidente, in cui l’idea di accostamento tra la grande e la piccola scala definisce uno spazio cavo, la cui articolazione costituisce il senso più profondo dell’elemento stesso.
La trasposizione, così concepita, implica in primo luogo uno straniamento. Straniante è l’effetto che una volta nubiana in terra cruda produce nella casa studio di Hamed Said (1943-45) nel sobborgo cairota di el-Marg, o quello derivato dalla presenza di un sistema Durqa’a-Iwan ad Abiquiu, in New Mexico (1980). Ma questo è solo un momento del processo progettuale. Mediante il montaggio, infatti, a tali elementi è data una nuova ragione, è ricostruita una nuova unità ed è raggiunta una nuova appropriatezza rispetto al contesto. Montaggio, dunque, come confluire di una serie di elementi separati nel tempo e nello spazio in una contemporaneità (Sergej Michajlovič Ejzenštejn, 1985) e quindi come strumento attraverso il quale costruire un’unità che travalica la sola giustapposizione delle parti. Ma anche come scomposizione e ricomposizione, smembramento analitico e restituzione di un intero, assemblaggio e riassunzione di pezzi in un quadro più vasto, trasformazione di un tutto. Gli elementi, montati tra loro, acquisiscono senso, non necessariamente quello originario, ma uno inedito, che è quello che l’architetto intende attribuirgli. Essi si rendono sempre riconoscibili e nel contempo sono soggetti attivi che concorrono alla definizione di un’unità complessa, la cui coerenza deriva dalla disposizione delle parti.
Alla scala urbana è il sistema delle strade a definire gli ambiti nei quali i pezzi analoghi di città antica vanno ad insediarsi. La città araba è così destrutturata e ricostruita seguendo una diversa logica, un’esigenza di razionalizzazione che determina un nuovo ordine, ridefinendo gerarchie e relazioni interne. Alla scala delle architetture sono invece la geometria e la maglia isotropa a base quadrata, la cui misura è data dalle massime capacità del sistema costruttivo, a ordinare la le parti. A esse si sovrappongono i principi: la volontà di introversione, la qualità dello spazio, la memoria di tipi e forme consolidate, la tensione verso una nuova codificazione …
Quindi montaggio, in ultima istanza, come tecnica applicata con approccio transcalare, attraverso la quale determinare la collocazione delle parti, definendo la forma urbana e, mano a mano, tutti i suoi componenti. Strumento di riscrittura e di sintesi di elementi eterogenei in un linguaggio coerente, che è tanto la cifra stilistica dell’architetto, quanto il tentativo di esprimere valori profondi e universali rispetto allo sfondo culturale di riferimento.
Così, ciò che definisce il carattere arabo delle architetture di Fathy non è tanto il fatto che esse si compongano di parti già definite, il cui valore implicito è la ragione che ne giustifica la scelta, quanto l’appropriata collocazione delle parti stesse, il modo in cui queste sono articolate e assemblate tra loro. La dispositio diventa quindi, infine, funzionale all’invenzione di un linguaggio che vuole essere rappresentativo di un preciso ambito culturale, espressione di un “sentimento arabo” (Fathy, 1998, 60). E poco importa se l’amalgama delle diverse tradizioni che, nel loro insieme, così come esso è concepito, non appartengono a nessun luogo, è una finzione. Perché l’artificio, raccontando del vernacolo e dell’islamico, di Egitto e arabité, del presente e del passato si configura come una rifondazione. Qui sta il suo valore e, forse, anche la sua attualità.
Non è Itaca la meta, ma il viaggio che ci conduce ad essa.
Bibliografia
De Maio, F. (2000). Hassan Fathy e l’architettura vernacolare: trasposizioni e variazioni. Casabella, 680, 48-50.
Ejzenštejn, S. M. (1985). Teoria generale del montaggio. Venezia: Marsilio.
Hobsbawn, E. J., Ranger, T. (2002). L’invenzione della tradizione. Torino: Einaudi.
Fathy, H. (1972). The Qa’a of the Cairene Arab House, Its Development and Some Usages for Its Design Concepts. In Colloque International sur l’Histoire du Caire - 1969. Il Cairo: Ministry of Culture of the Arab Republic of Egypt, 135-152.
Fathy, H. (1998). Che cos’è una città? Trascrizione di una lezione tenuta all’Università di Al-Azhar nel 1967. Casabella, 653, 56-64.
Ferlenga, A. (1998). Le piccole città di Hassan Fathy. Casabella, 653, 54-55.
Ferro, L. (2004). In Grecia: archeologia, architettura, paesaggio. Cuneo: Araba Fenice.
Picone, A. (2009). La casa araba d’Egitto. Costruire con il clima dal vernacolo ai maestri contemporanei. Milano: Jaca Book.
Semerani, L. (2000). L’altro moderno. Torino: Umberto Allemandi.
Viola Bertini si laurea in architettura nel 2009 al Politecnico di Milano. Nel 2012 consegue, con diritto di pubblicazione, il Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica presso l’Istituto Universitario di Venezia, discutendo una tesi sull’opera dell’architetto egiziano Hassan Fathy. È docente a contratto nell’ateneo milanese e assegnista di ricerca presso lo Iuav. Collabora inoltre, in qualità di Consulente di Ricerca, con l’American University di Beirut.