Abstract
Disegnando, l’architetto lascia la propria mano diventare parte di quel movimento collettivo che nel corso della storia procede a definire le forme. Da singoli manufatti come l’isolato costruito da Aldo Rossi in Schützenstrasse a Berlino nel 1992, oppure accostando architetture razionali progettate e realizzate in uno stesso luogo, come nel caso di Napoli qui esaminato, forse si può trarre che ricercare il carattere significa ricercare l’identità dell’oggetto, architettura e città, che l’architetto investiga.
Articolo
«Mettere del carattere in un’opera significa impiegare nel modo giusto tutti i mezzi più idonei per non farci provare altre sensazioni oltre quelle caratteristiche del soggetto stesso», scriveva Etienne Louise Boullée in Architettura. Saggio sull’arte [1]. Il senso di un’affermazione simile forse va ricercato in una concezione dell’architettura che concentra tutti i propri sforzi nel restare aderente al tema di progetto che indaga, o se si preferisce all’oggetto del progetto, come anni fa disse Giorgio Grassi nella lezione con cui aprì l’anno accademico del Politecnico di Milano [2]. Per fare un esempio utile a chiarire il discorso, e tuttavia senza che ciò implichi lo scantonare in un’altra disciplina con la quale spesso gli architetti sogliono condire i loro ragionamenti, si può ricordare un lontano scritto di Tzvetan Todorov, La quête du récit, cioè La ricerca del racconto, nel quale a proposito del romanzo medievale sulla ricerca del santo Graal affermava, come riporta Italo Calvino, il rimandarsi l’un l’altro dei livelli di significato del racconto senza inseguimenti proiettati verso l’esterno, rilevando appunto che «la ricerca del Graal altro non è che la ricerca del racconto [3]».
Quanto affermato qui verrà sviluppato ancora con altre citazioni ma soprattutto con un esempio di architettura particolarmente carico di significato, cercando poi di dare conto di alcuni studi diretti a sviluppare questa questione che si potrebbe definire di «ricerca dell’architettura», vale a dire un rimandarsi l’un l’altro degli elementi in gioco che ha come propria scaturigine l’architettura, l’edificio, la costruzione e non altro, nella convinzione che le posizioni sostenute nel campo disciplinare si misurino attraverso i progetti, a cominciare dai propri e nonostante tutti i limiti e le deficienze che possono scontare.
Per chiamare in causa sulla stessa questione un maestro almeno pari a Boullée, Mies van der Rohe, si possono citare le righe finali del testo con cui introduce il volumetto che ne condensa l’opera: «credo che l’architettura abbia poco o nulla a che fare con la ricerca di forme “interessanti” o con le inclinazioni personali. La vera architettura è sempre oggettiva, ed è espressione dell’intima struttura dell’epoca nel cui contesto si sviluppa [4]». A proposito di questo passo Carlos Martì Aris svolge diverse osservazioni molto utili, tra le quali quella forse che meglio aiuta a sostenere il ragionamento qui svolto è la seguente: «Ciò che Mies rifiuta è […] l’idea di “carattere” dell’edificio, basata su un uso arbitrario e indiscriminato di segni, cui viene attribuita la proprietà di “comunicare” ciò che l’opera vuole essere [5]». Si può riconoscere in trasparenza la consonanza del concetto espresso da Martì Aris con l’opposizione al formalismo sempre implicita tanto nel lavoro di autore di costruzioni come nell’opera teorica di Giorgio Grassi, relatore dell’architetto catalano nella tesi di dottorato della quale Le variazioni dell’identità è il risultato. E del resto concetti molto simili ritroveremo quando sarà Grassi in persona a esporli nella sua lezione menzionata all’inizio.
Se, come scrive l’architetto milanese, «Il carattere di un edificio sta nella sua storia, è scritto nel lungo processo di definizione che ha condotto a quella forma che appare ogni volta come fosse la prima volta, ma che invece, come ben sappiamo, ne è soltanto l’ultima incarnazione, diciamo così, tanto più autorevole quanto più fedele a se stessa [6]», qui si vorrebbe indagare da un lato fino a che punto sia possibile spingere questa nozione nella pratica compositiva senza scadere nel formalismo, e dall’altro, come sopra si accennava, mostrarla per il tramite di un caso concreto di studio.
Volendo rendere ancora più esplicite di quanto già non siano le parole di Grassi riferendosi, cercando di tenerli insieme, ai due livelli della res aedificatoria che vicendevolmente si richiamano della casa e della città, e tenendo conto che proprio Alberti sottolineava che «la città è come una grande casa, e la casa a sua volta una piccola città [7]», ebbene si potrebbe dire questo, che il lavoro dell’architetto consiste nel trovare l’identità di quel tema specifico sul quale sta lavorando. Alla scala dell’edificio tale impegno consiste in una ricerca che investe da una parte la questione del tipo nella sua progressiva liberazione dalle forme storiche che lo condizionano, e alla scala della città nel riuscire a rendere intellegibili quelle trame razionali che ne definiscono l’ordito. La liberazione del tipo architettonico dai suoi condizionamenti storici, quella ricerca della sua adeguatezza su cui si soffermano tanto Grassi nella lezione citata quanto ad esempio architetti come Antonio Monestiroli [8], procede insieme alla questione dell’inserimento dell’edificio in un luogo facendolo aderire a delle condizioni particolari che lo determinano, nel senso del carattere dell’edificio contenuto nella storia dell’edificio stesso di cui Grassi diceva. Proprio questo margine compositivo si vorrebbe qui investigare più da vicino per mostrare come l’edificio costruisca il luogo stando dentro le regole dell’architettura e della città come della storia delle forme che le costituiscono entrambe.
Dati i riferimenti testuali citati forse verrebbe naturale aspettarsi esempi nel novero della concisione formale quando non del vero e proprio togliersi della voce dello stesso Giorgio Grassi, quando non degli approdi cui Mies van der Rohe seppe giungere. Si può però ricorrere a un esempio diverso, e cioè quell’edificio per residenze e uffici costruito in Schützenstrasse a Berlino da Aldo Rossi ormai più di venti anni fa, nel 1992 [9].
Edificio, questo, alquanto distante dalla mimesi con la Berlino storica e forse anche da certe volontà recenti di fare tabula rasa del quarantennio in cui le scelte sulla costruzione urbana di metà della capitale tedesca sono dipese dal governo socialista della DDR. Un indizio lo fornisce lo stesso Rossi – del quale non si deve tralasciare il contributo alla conoscenza delle idee su architettura e città di Hans Schmidt, architetto svizzero che operò a lungo nella DDR – quando nel ricostruire questo isolato ricorre all’inserto di due brani, uno un pezzo dell’isolato preesistente e l’altro la citazione di Palazzo Farnese, come a dire la condizione locale mantenuta intatta da un lato e dall’altro la condizione più generale, il modello che assume la connotazione dell’esempio. Oltre tutto questo, tratti di facciata dall’aspetto diverso e ciononostante tenuti insieme grazie al tracciato regolatore che ne ordina le corrispondenze secondo allineamenti non espliciti. Rossi stesso descrive la tecnica di composizione usata per questo edificio, soffermandosi segnatamente su una «idea del progettare usando in modo diverso citazioni diverse», che egli osserva già presente in maestri dell’architettura berlinese come Schinkel o Schlüter, annotando poi che si è voluto ricreare la vita interna al blocco senza ripetere ciò che si è perduto, e soprattutto di aver voluto «offrire alternative alla pratica edilizia comune, con una varietà di tipologie piuttosto che di forme [10]».
Una tecnica simile non è troppo lontana da quella che un autore ben approfondito in gioventù da Rossi stesso, Emil Kaufmann, definì degli «schemi a rispondenze multiple [11]», facendo gli esempi del progetto per dei bagni pubblici di Alexandre Gisors e della casa in rue des Fontaines di Loison. Edifici individuali, rispetto a questo di Berlino che è un isolato, ma il punto in comune che vi si può riscontrare è l’essere costituiti attraverso una tecnica compositiva secondo la quale, per usare le parole di Kaufmann, «i motivi che compongono lo schema rispondono l’uno all’altro e divengono così “temi”. Vari sottoschemi possono poi entrare nel discorso per mezzo di una notevole diversificazione negli spazi, nelle dimensioni o attraverso giochi di proporzioni numeriche [12]». Né c’è bisogno di sottolineare l’importanza della ricerca degli architetti rivoluzionari francesi per liberare l’architettura dal gravame delle ridondanze e delle sovrabbondanze di forma dell’epoca barocca che l’aveva preceduta.
Benché dall’opera dell’ultimo Rossi un senso comune diffuso tra gli architetti abbia teso a prendere le distanze, etichettandola come una conversione postmodernista, potrebbe risultare un esercizio non privo di qualche risultato quello di ordinare su singole tavole, città per città, tutti i suoi progetti, ed esaminare quale idea urbana possa scaturirne. Forse sarebbe alquanto diversa da quella ottocentesca che una mera riedificazione configurerebbe, e più tesa, per la via singola della propria voce di architetto, alla costruzione di una città policentrica, o aperta [13].
Questa la direzione di uno studio svolto dall’autore di questo testo diversi anni fa, nel quale cercò, anche con l’intenzione di cogliere il senso di composizioni come quella della Città analoga rossiana, riscrivendola con le proprie mani e di certo non estraneo all’averne subito il fascino, di riportare su una stessa tavola di Napoli a scala territoriale le architetture razionali che vi erano state collocate nel tempo, poco importava se realizzate o solo immaginate. Vi furono riuniti fatti diversi che andavano dalle grandi architetture sociali di Ferdinando Fuga, al Palazzo Reale, alla Mostra d’Oltremare, al piano di Luigi Cosenza del secondo dopoguerra che ne configurò una forma da grande città, specialmente per quanto riguardava il ridisegno del versante a mare su via Marina di fronte al porto, che nel frattempo, sconfitta l’Italia, era diventato base navale della marina statunitense, fino ai progetti di Salvatore Bisogni per alcuni quartieri e parti della città, ai progetti di Rossi per il Molo San Vincenzo e per un percorso sotterraneo tra via Chiatamone e piazza Plebiscito tra le cavità del sottosuolo urbano. Non una Napoli analoga a sua volta, quanto invece una ricerca diretta a fare emergere una trama razionale attraverso quei progetti che la pongono in luce, e da essi partire come paesaggio urbano e quindi mondo formale ereditato cui attingere.
Questa la direzione anche di un ulteriore studio spinto fino alla scala edilizia, sotto la guida del professor Bisogni, immaginando di collocarlo all’interno del suo progetto generale per gli edifici pubblici e collettivi e le «zolle» in cui alcuni di essi sono raggruppati nel territorio dell’hinterland a nord di Napoli [14]. Tema era quello di un edificio civico intercomunale, nel quale cioè il personale politico e amministrativo di più comuni confinanti potesse affrontare quelle questioni, dal traffico, all’urbanistica, al commercio, meglio risolvibili in un quadro generale rispetto a un territorio in espansione e sulla via di addensarsi, essendo in superamento la fase della stessa dispersione urbana. Esempio architettonico nella ricerca del Movimento moderno era l’Alta Corte di Chandigarh di Le Corbusier, mentre riferimento più lontano nel tempo, ma contemporaneo secondo l’idea di architettura sottesa a questa ricerca, era il complesso religioso di San Pietro ad Aram a Napoli, studiato all’inizio degli anni ’70 da Agostino Renna [15]. Il risultato di questo studio è quindi un edificio composto di manufatti diversi raccordati tra loro sia da una trama di aperture e di vuoti sia da corrispondenze metriche e proporzionali, la cui varietà e il cui carattere non sono il punto di partenza ma di arrivo, lavorando con un numero finito di materiali ricavati dall’architettura e dalla città.
Note
1 Etienne Louis Boullée, Architecture. Essai sur l’art, manoscritto conservato alla Biblioteca nazionale di Parigi (MS. 9153) con i disegni. trascrizione di Helen Rosenau in H. R. Boullée Treatise on Architecture, Tiranti, London 1953, trad. it. Architettura. Saggio sull’arte, con introduzione di Aldo Rossi, Marsilio, Venezia 1967, p. 74.
2 Giorgio Grassi, Il carattere degli edifici, lezione tenuta in occasione dell’inaugurazione dell’Anno accademico 2003-2004, il 4 dicembre 2003 presso la Facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano, in «Casabella», n. 722, maggio 2004.
3 Tzvetan Todorov, La quête du récit, in «Critique», n. 262, marzo 1969, citato in Italo Calvino, La letteratura come proiezione del desiderio, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980, ora in Id., Saggi, a cura di Mario Barenghi, tomo primo, Mondadori, Milano 1995, 20013 p. 249.
4 Ludwig Mies van der Rohe, testo introduttivo senza titolo a Mies van der Rohe. Die Kunst der Struktur, a cura di Werner Blaser, Verlag für Architektur Artemis, Zürich 1965, trad. It. Mies van der Rohe, Zanichelli, Bologna 1977, 19912, p. 8.
5 Carlos Martì Aris, Le variazioni dell’identità, con una Premessa di Giorgio Grassi, Clup, Milano 1990, CittàStudiEdizioni 1993, p. 140.
6 Giorgio Grassi, Il carattere, cit., p. 12.
7 Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, trad. it. L’architettura, Il Polifilo, Milano 1966, trad. di Giovanni Orlandi, introduzione e note di Paolo Portoghesi, p. 64.
8 Gyorgy Lukács, Estetica, Einaudi, Torino 1960, p. 1210, citato in Antonio Monestiroli, La metopa e il triglifo. Nove lezioni di architettura, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 24.
9 Cfr. Aldo Rossi. Tutte le opere, a cura di Alberto Ferlenga, Electa, Milano 1999, pp. 402-407, e Aldo Rossi. Disegni 1990-1997, a cura di Marco Brandolisio; Giovanni da Pozzo, Massimo Scheurer, Michele Tadini, con uno scritto di Paolo Portoghesi, Motta Architettura, Milano 1999, pp. 90-97.
10 Aldo Rossi. Tutte le opere, cit., p. 402.
11 Emil Kaufmann, Architecture in the Age of Reason. Baroque and Post-Baroque in England, Italy, and France, Harvard University Press, Cambridge 1955, trad. it. L’architettura dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966, 1991, p. 239.
12 Id., p. 235.
13 Antonio Monestiroli, L'architettura della realtà, Clup, Milano 1979; CittàStudi srl, Milano 1991; CittàStudi Edizioni s.r.l., Milano 1994; ristampa della terza edizione del 1985, pp. 71-72.
14 Cfr. il lavoro di Marco Zamprotta in Ricerche in architettura, La zolla nella dispersione delle aree metropolitane. Resoconti della ricerca Murst 2000: Funzione e figura delle architetture pubbliche e servizi per lo sviluppo sostenibile delle aree metropolitane: Firenze, Milano, Napoli, Mestre, a cura di Salvatore Bisogni, con scritti di Salvatore Bisogni, Guido Canella, Gian Luigi Maffei, Franco Purini (responsabili delle singole Unità di ricerca) et alii, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2011, pp. 221-222.
15 Napoli: prospettive per l’architettura del Centro Storico, a cura del gruppo di ricerca diretto da Agostino Renna e composto da Italo Ferraro, Ludovico Fusco, Enzo Mendicino, Francesco Domenico Moccia, «Edilizia popolare», n. 111, 1973, pp. 103-130.
Bibliografia
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Pierpaolo Gallucci si laurea a Napoli con un disegno in cui accosta le architetture razionali pensate per quella città e talora costruite, da quelle di Ferdinando Fuga nel ‘700 al piano di Luigi Cosenza all’indomani della Seconda guerra mondiale, fino agli studi e alle costruzioni di Salvatore Bisogni incentrati su un’idea di città aperta. Dottore di ricerca in Composizione architettonica al Politecnico di Milano-Bovisa con un saggio dove indaga l’opera di Agostino Renna, proiettandone la ricerca sull’architettura sullo sfondo della cultura italiana tra anni ’60 e ’80. Nei corsi di Composizione architettonica e urbana del Diarc di Napoli cui collabora e dove è professore a contratto si occupa della trattatistica e del tema della residenza.