Abstract
L’opera di Frank O. Gehry dà la possibilità di incontrare un ricco universo di tecniche compositive alternative rispetto a quelle di cui si avvalgono la maggior parte degli architetti del ‘900. L’architetto californiano, con la sua dimensione ironica, caricaturale, anti-classica, racconta di un modo alternativo di presentare nella città l’oggetto architettonico e di intendere “l’appropriata collocazione delle cose” e la “scelta dell’effetto dell’opera”, come testimonia il grande edificio urbano costruito a Berlino, in uno dei luoghi più importanti della storia europea.
“Se tentate di capire i miei edifici in base ai punti di vista prospettici, alla coerenza strutturale o a definizioni formali, resterete certamente delusi”.
(Frank O. Gehry)
Secondo alcuni è difficile parlare di composizione, disciplina che presuppone delle regole, nell’opera di Frank Gehry. Eppure, se la composizione è un fare, è possibile individuare il come del fare: i modi, le tecniche, i dispositivi, le leggi interne di cui l’architetto si serve.
Il repertorio delle operazioni compositive è essenzialmente fondato sui principi enunciati dai trattatisti classici, tra i quali si colloca anche quello vitruviano, poi fatti propri dal neoclassicismo francese: gerarchia tra le parti, simmetria, percezione prospettica dello spazio, rapporti armonici nelle misure dei corpi, delle distanze, del ritmo. Difficilmente possiamo sostenere che questo repertorio si trova ancora nelle arti e nell’architettura del XX secolo, che hanno maturato una nuova coscienza del reale, nuove intenzioni, un nuovo senso del fare. Sono stati battuti sentieri indipendenti, di volta in volta l’orizzonte di ricerca è cambiato. Né Rem Koolhaas, né Peter Eisenmann, né Zaha Hadid, né Frank Gehry fanno composizione nel senso classico del termine. Ciò che accomuna le diverse tendenze è la scelta di infrangere un sistema codificato e la proposizione di un nuovo sistema di regole. Mentre nella musica ciò è avvenuto, con Schönberg, attraverso la scomparsa della tonalità maggiore e minore, in architettura questa tendenza porta all’abbandono dello spazio prospettico, della simmetria, nella quale “l’occhio si riposa” [1].
Il “Corso del Coltello”
Nel 1985, in occasione della terza Mostra internazionale di Architettura di Venezia, diretta da Aldo Rossi e intitolata Progetto Venezia, Frank Owen Gehry è protagonista, insieme a Claes Oldenburg, Coosje van Bruggen e Germano Celant, di una performance chiamata il Corso del Coltello [2].
Nella sua versione definitiva i tre attori giungono nei pressi dell’Arsenale, teatro della rappresentazione, a bordo di una chiatta a forma di immenso coltello svizzero. Gehry indossa un cappello a falda a forma di pesce e un enorme timpano sulle spalle, dal quale penzolano molli colonne doriche. Nei panni di Frankie P. Toronto – dove la P. stava per Palladio e Toronto per la sua città di nascita –, disegna i propri schizzi, attraverso una lavagna luminosa, direttamente sui più importanti palazzi veneziani. Dal Co lo descrive come “una specie di manichino dell’architettura classica, che prende in giro, con una certa disinvoltura, il linguaggio adottato da poco dai postmoderni, pronto per il carnevale di Venezia. Recitando la parte del jolly nel mazzo di carte dell’architettura degli anni ‘80, Gehry deprecava la pomposità di tanto progettare contemporaneo” [3].
Questa performance rappresenta per Gehry una sorta di manifesto sul tema del passato, come lui stesso afferma: “Essere al centro di Venezia, così vicino a Palladio – e tantissima architettura oggi fa riferimento a Palladio – e parlare di disordine, di un altro tipo di ordine, è un po’ irriverente… La cultura occidentale pensa a un solo tipo di ordine… alla simmetria, al classicismo, all’idea della prospettiva centrale. Ma il mondo intero non può essere costruito soltanto lungo degli assi” [4].
DZ Bank, Berlino (1995-2001)
“Credo che questo sia uno dei miei progetti migliori. I prospetti non sono frutto di compromessi. Questa costruzione rappresenta la sintesi di tutte le impressioni e i sentimenti che Berlino suscita in me” [5].
(Frank O. Gehry)
Progettare un edificio su Pariser Platz, al cospetto della Porta di Brandeburgo, significa lavorare in un’area urbana critica, uno dei luoghi più importanti della storia d’Europa.
Gehry risolve il fronte principale disegnando una rigorosa facciata di cinque ordini sovrapposti, rivestita da grandi lastre di pietra di Vicenza. La facciata, costruita come un tempio classico, è scandita da sette aperture, profondamente incassate, che generano ombre profonde e le conferiscono spessore e peso, accentuandone la natura fortemente tettonica.
Come è stato osservato, “la mancanza di limiti e conclusioni è il tratto caratteristico di questa facciata, (…) che esibisce unicamente la propria indefinita ripetibilità in un luogo dove ogni costruzione è camuffata come irripetibile” [6]. Il suo fronte volutamente incompleto si offre come un “frammento scostante, (…) una presenza stridente rispetto a tutto ciò che lo circonda, dalle aggraziate e apparentemente colte cortine edilizie” [7].
Ma il riserbo del fronte principale è puro inganno. Dietro la sua facciata “contestuale”, accuratamente costruita, l’edificio nasconde un altro racconto, di cui nulla traspare all’esterno.
A Berlino, città-teatro per eccellenza, Gehry tratta la facciata come un gigantesco sipario: “I suoi pieni e i suoi vuoti sono le ombre prodotte dalle pieghe del velluto. Dietro a queste pieghe, a differenza di quanto accade in tante altre costruzioni della nuova Berlino, lo spazio subisce un’orripilazione” [8].
Il prospetto posteriore dell’edificio, che si affaccia su Behrenstrasse, con una successione di nove piani di appartamenti, ha un carattere del tutto differente. La sua superficie, anch’essa in Pietra di Vicenza, disegna un fronte ondulato che rende l’edificio, almeno da un punto di vista prospettico, meno imponente. Le proporzioni di entrambe le facciate sono commisurate con l’area urbana con la quale ciascuna si confronta.
Il complesso si apre al centro in una grande corte interna, di 61 metri per 20, coperta da un enorme lucernario. Al centro della corte, leggermente rialzata e raggiungibile attraverso sei percorsi, una struttura cava rivestita esternamente di acciaio inossidabile, a forma di “testa di cavallo”, ospita la sala conferenze, che poggia su un pavimento vetrato e incurvato.
I quattro fronti interni, rivestiti in legno, sono scanditi in cinque ordini, corrispondenti a quelli della facciata su Pariser Platz,. Essi appaiono come veri e propri fronti urbani che delimitano una “piazza” coperta.
Composizione di tre elementi
Osservando i successivi modelli di studio si nota come l’architetto assegni un ruolo decisivo a tre elementi della composizione: la sala conferenze; la copertura vetrata che la sovrasta; il pavimento, anch’esso vetrato.
Essi non sono sviluppati individualmente: la modificazione dell’uno e dell’altro provoca la modificazione degli altri due, in una concatenazione ininterrotta di varianti.
“Durante il concorso abbiamo posizionato una forma scultorea nel centro della corte (…) per mostrare che volevamo creare un elemento di contrasto nel centro della scatola rettangolare di legno (…). La forma astratta acquisì una presenza e un potere che aumentava via via che eliminavamo dalla corte gli altri elementi”.
(Frank O. Gehry)
Al centro delle tensioni, nello spazio interposto tra le due membrane di vetro, appare la forma scultorea della “testa di cavallo”, nella quale culmina la “messa in scena” realizzata da Gehry, regista di un sorprendente spettacolo teatrale.
La testa del cavallo
La forma della conference hall, lunga 29 metri, larga 12 e alta 10, è stata desunta da un modello fisico che è stato poi digitalizzato in un modello di superfici tridimensionali con il software CATIA. La sua struttura è formata da una sequenza di travi in ferro sagomate secondo le sezioni del volume, disposte a intervalli regolari di 80 cm e collegate da traversi tubolari di 10 cm. Le immagini delle sue fasi costruttive ne esaltano il carattere osteologico e ricordano grandi scheletri di antichi animali.
“Mentre avveniva questa manipolazione la forma diventava più morbida e biomorfica. Cominciava ad assumere una presenza animale che non era né mai vista né aspettata” [9].
(Frank O. Gehry)
Al di sopra delle “ossa”, la “carne” è formata da spessi pannelli coibentanti, rivestiti da più di 100 piastre curve tridimensionali di acciaio inossidabile di circa 150x250 cm. È un tessuto nervoso in movimento, attraversato da una tensione che culmina nella cavatura dell’occhio, come uno squarcio inflitto sul lato destro della testa, provocata dalla sottrazione di un foglio del rivestimento.
Allargando lo sguardo dall’oggetto architettonico allo spazio della corte in cui è inserito, si può osservare come Gehry utilizzi la tecnica compositiva secondo cui una forma complessa, se inserita in un contenitore semplice, aumenta la propria forza espressiva. È difficile, infatti, immaginare questo edificio senza la “testa di cavallo” al suo interno. Anche se dal punto di vista funzionale non cambierebbe granché, le forme degli altri elementi architettonici, che da essa dipendono, non avrebbero alcun senso: non lo avrebbe la copertura né il pavimento, le cui linee non troverebbero alcuna giustificazione.
Un modo alternativo di presentare nella città l’oggetto architettonico
Il gigantesco bucranio, dal tono dadaista, è un colpo di teatro, e in quanto tale è volutamente ambiguo. È l’atto imprevisto all’interno del racconto convenzionale di un edificio a corte. È come un intruso, che però diventa l’identità dell’intero edificio.
Può esprimere ironia verso il mondo delle banche, ma può anche avere un senso legato all’ebraismo, alla violenza subita, alla crudeltà, a un desiderio di vendetta, accentuato dal fatto che si trovi a Berlino.
Non è solo un’operazione estetica, non ha soltanto intenzione provocatoria, non è appena il montaggio di immagini reperite all’interno della natura, di cui poi viene fatta la caricatura. O, meglio, è tutto questo. È una testa mozzata che rompe l’ordine dell’edificio. Un mostro (dal latino “monstrum”, meraviglia) che, “con la sua apparente, radicale gratuità evoca gli innumerevoli mostri di cui Berlino cerca inutilmente di liberarsi” [10].
Ma soprattutto racconta di un modo alternativo – profondamente dialettico, teatrale e carico di significati e interpretazioni – di presentare nella città l’oggetto architettonico, di intendere “l’appropriata collocazione delle cose” e la “scelta dell’effetto dell’opera”, e di sviluppare il rapporto tra architettura e città contemporanea.
Note
1 Queste considerazioni trovano una trattazione più diffusa in A. Gallo (a cura di), The Clinic of Dissection of Art, Marsilio Editori, Venezia 2012.
2 Il progetto era nato un anno prima, nel 1984, quando Celant chiamò i tre americani a condurre un workshop di architettura e arte, intitolato “Il Corso del Coltello”, con gli studenti del Politecnico di Milano. Quell’estate, a New York, la rivista “Artforum” pubblicò i progetti della performance.
3 F. Dal Co, Dalla bocca della verità, ovvero del cavallo, in F. Dal Co, Kurt W. Forster, H. Soutter Arnold (a cura di), Frank O. Gehry. Tutte le opere, Electa, Milano, 1998, p. 34.
4 G. Celant (a cura di), The Course of the Knife. Claes Oldenburg, Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Rizzoli International, New York 1986, p. 67.
5 F. O. Gehry, Costruire su Pariser Platz. Considerazioni sulla nuova Berlino, in "Casabella" n.704, ottobre 2002.
6 F. Dal Co, Frank Gehry: i mostri dentro Berlino, in "Casabella", n. 691, luglio-agosto 2001.
7 Ibid.
8 Ibid.
9 F. Dal Co, Kurt W. Forster, H. Soutter Arnold (a cura di), Op. cit.
10 F. Dal Co, Frank Gehry: I mostri..., cit.
Bibliografia
A. Gallo (a cura di), (2012). The Clinic of Dissection of Art. Venezia: Marsilio Editori.
F. Dal Co, Kurt W. Forster, H. Soutter Arnold (a cura di), (1998). Frank O. Gehry. Tutte le opere. Milano: Electa.
G. Celant (a cura di) (1986). The Course of the Knife. Claes Oldenburg, Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry. New York: Rizzoli International.
F. O. Gehry, Costruire su Pariser Platz. Considerazioni sulla nuova Berlino, in Casabella n.704, ottobre 2002.
F. Dal Co, Frank Gehry: i mostri dentro Berlino, in Casabella, n. 691, luglio-agosto 2001.
Lorenzo Margiotta, laureato nel 2009 alla Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano con una tesi su Carlo De Carli (relatore Prof. M. Biraghi), nel marzo 2014 consegue il tiolo di dottore di ricerca in Composizione Architettonica allo IUAV, con tesi su Frank O. Gehry e le tecniche compositive alternative nell’architettura contemporanea (relatore Prof. L. Semerani). È cultore della materia nel Laboratorio di Progettazione Architettonica 1 del Prof. T. Monestiroli presso la Scuola di Architettura Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano.
Nel 2010 partecipa al “progetto per lo Scalo Farini” di Milano guidato dallo studio Monestiroli Architetti Associati.
È membro del Consiglio direttivo dell’“Associazione Giovanni Testori”.