Abstract
La Ciudad Abierta di Ritoque in Cile fondata nel 1970 è strettamente connessa con la Facoltà di Architettura della PUCV di Valparaíso. Nella realizzazione delle opere costruite in questa “città” è stata sperimentata una pedagogia di approccio e costruzione dell’architettura che continua a mantenere la sua validità ed il suo fascino a distanza di molti anni. Gli insegnamenti dei fondatori di questa scuola costituiscono ancora una provocazione per tutti coloro che si interessano di architettura e che la praticano. In particolare la figura di Alberto Cruz Covarrubias, scomparso di recente, appare capace ancora di stimolare attraverso i suoi scritti ed i suoi disegni l’immaginazione e la creatività, conformemente al ciò in cui credeva: “in fondo l’unica cosa che può fare un professore davanti ai suoi alunni è dare un esempio”.
La facoltà di Architettura della Pontificia Universidad Catolica di Valparaíso (PUCV)1 ha creato e perfezionato delle modalità di insegnamento originali che la caratterizzano e che hanno influenzato progressivamente l’attività didattica delle scuole di Architettura di tutto il Cile.
Questa facoltà fu fondata nel 1952 da un gruppo di architetti riuniti intorno alla carismatica figura di Alberto Cruz Covarrubias (1917-2013) che dopo avere studiato nella facoltà di Architettura della Pontificia Universidad Catolica di Santiago (PUC) aveva iniziato a svolgere in essa attività didattica, bruscamente interrotta dalla sua espulsione avvenuta in seguito ad insanabili contrasti con la linea didattica tradizionale che in essa veniva ancora adottata. Già nel 1949 era iniziato un movimento degli studenti che chiedevano un cambio nel loro curriculum di studi culminato con un atto dal forte valore simbolico, e cioè dalla accensione di un rogo nel patio della facoltà in cui erano stati gettati i volumi del Vignola che costituivano ancora il testo fondamentale di insegnamento.
Fin dalla fondazione la nuova scuola di Valparaíso si caratterizzò per un radicale ripensamento della ricerca e della didattica. In particolare i membri della scuola consideravano l’architettura non come il risultato di un insieme di principi assoluti applicati ad un problema specifico, ma piuttosto come un campo di ricerca finalizzato alla produzione di nuova conoscenza. In un breve lasso di tempo il gruppo dei docenti cambiò l’orientamento pedagogico. La modernità venne concepita come un nuovo stato di coscienza connesso con l’opera di Baudelaire e dei “poeti maledetti”, essa veniva concepita come indipendente dal funzionalismo e dal tecnicismo. I fondatori facevano propria l’espressione di Rimbaud: “non cambiare la vita, ma cambiare di vita”. L’innovazione che essi proponevano per l’architettura doveva iniziare con le loro stesse vite e non con generiche proposte relative alla società o all’universo. La applicazione di queste idee assunse forma concreta nella decisione di scegliere di abitare tutti, con le loro famiglie, in un gruppo di case in una zona di Valparaíso chiamata Cerro Castillo. La vicinanza fisica faceva si che il lavoro pedagogico e di ricerca continuasse anche fuori delle aule in modo che spesso continuasse ben oltre l’orario didattico vero e proprio. E’ chiaro che questo tipo di scelte presupponeva l’adesione delle famiglie che supportavano il raggiungimento di questo obbiettivi. A questo si aggiungeva la convinzione di quanto scritto da François Jacob (biologo francese vincitore del premio nobel nel 1965) che nella sua opera autobiografica La statua interiore2 aveva distinto la scienza nei suoi due aspetti: le scienze del giorno, caratterizzate dalla più convenzionale nozione di scienza, dalle scienze della notte: caratterizzate dalle componenti intuitive che completano le prime in modo misterioso e che nascono dalle zone confuse della nostra realtà. Si tratta di una esperienza che tutti abbiamo vissuto, quella di addormentarsi la sera con il rincrescimento di non avere risolto un qualche problema e di risvegliarsi al mattino con la chiara coscienza della soluzione. Con altre parole Renè Magritte diceva: “se guardiamo una cosa con l’intenzione di scoprire cosa significa finiamo col non vedere più la cosa stessa, ma col pensare al problema che ci siamo posti”.
Ho già parlato di Alberto Cruz ma occorre aggiungere che uno dei personaggi più influenti nel gruppo dei fondatori della scuola fu Godofredo Jommi (1917-2001): poeta argentino che era arrivato in Cile per conoscere Vicente Huidobro importante poeta cileno. La figura di Jommi è molto importante perché uno dei punti cardine della pedagogia della scuola di Valparaíso divenne con il suo contributo il legame stretto fra poesia ed architettura.
Alberto Cruz e Godofredo Jommi avevano capito che la poesia moderna non aveva a che fare solamente con lo scrivere dei versi ma che aveva a che fare con una visione della realtà connessa intrinsecamente con le questioni del linguaggio e della coscienza. Nel senso originario del vocabolo greco “poiesis” è intrinseca l’azione, il fare. Per avvicinarci alla comprensione del modo in cui la poesia entrava in gioco nel fare architettura si potrebbe ricordare il modo in cui venivano svolti i cosiddetti “atti poetici” preliminari alla costruzione di ogni opera nella Ciudad Abierta. Gli studenti si riunivano nel luogo prescelto e seguendo le parole e le azioni proposte da Jommi, a loro volta ne traevano parole che venivano poi ricomposte in un modo nuovo e diverso seguendo il suggerimento del poeta francese Lautreamont: la poesia deve essere fatta da tutti. Questi atti poetici diventavano perciò una produzione, per così dire, corale priva di “voci soliste”.
La multidisciplinarietà nella pedagogia della scuola implicò immediatamente la presenza nel gruppo docente di altre figure fra cui spicca quella dello scultore argentino Claudio Girola e quella di altri poeti e filosofi che agivano insieme agli architetti.
Ho nominato prima la Ciudad Abierta. Si tratta di una straordinaria iniziativa che prese le mosse nel 1970 dalla fondazione della cooperativa Amereida fra i professori della scuola e dalla contestuale raccolta di fondi per autofinanziare l’acquisto di una vasta area di circa 300 ettari poco a nord di Viña del Mar, nella zona di Ritoque divisa dal “Camino Quintero” in due porzioni. La prima ad occidente caratterizzata da alte dune di sabbia perennemente in movimento a causa del forte vento e terminante con il bordo dell’oceano Pacifico. La zona ad oriente della strada invece è caratterizzata da colline che salgono notevolmente di quota e che è incisa da profonde spaccature della roccia (quebradas). Pur restando due entità distinte, la facoltà e la Ciudad Abierta iniziarono subito ad interagire nel programma pedagogico e le varie costruzioni che sono state realizzate nel tempo, e che continuano ad essere realizzate, lo sono state dall’azione diretta e sperimentale degli studenti e dei professori. Ovviamente la Ciudad Abierta non è da considerare una città nel senso corrente della parola essendo priva, fra l’altro, di qualsiasi infrastruttura che non sia i sentieri non lastricati che consentono di muoversi all’interno di essa.
Le opere realizzate con mezzi poveri, soprattutto legno, traducevano alla lettera gli atti poetici in materia e spazi con una modalità di lavoro denominata “trabajo en ronda” che a me sembra appropriato tradurre con l’immagine sportiva della staffetta, dove ognuno deve correre al meglio la propria frazione consegnando il suo valore al compagno che prosegue con il “testimone”.
Io credo che si possa dire che a questa pedagogia era sotteso un tirarsi fuori dai confini della disciplina per guardarla e praticarla dall’esterno dei confini disciplinari tradizionali adottando una raccomandazione fondamentale della scuola e cioè il “volver a no saber” che potremmo tradurre in un tornare ad una mente vergine e sgombra di preconcetti.
Queste ultime osservazioni ci permettono di mettere in luce l’importanza della radice fenomenologica della cultura cilena, di origine piuttosto nordeuropea (non va dimenticato che l’immigrazione in Cile, diversamente dall’Argentina, proveniva in buona parte dalla Germania e dai paesi baschi). L’approccio fenomenologico pone l’accento sul fatto che ogni fenomeno, anche il più trascurabile, contiene in se qualcosa di essenziale. La cultura mediterranea idealistica al contrario ci propone piuttosto di parlare ed agire sulla base di ciò che conosciamo, delle idee che con la conoscenza e la ricerca accumuliamo e custodiamo nella nostra coscienza.
E’ chiaro che il nuovo può nascere sia dall’uno che dall’altro approccio, infatti anche quello idealistico rielabora e ricompone quanto conosciuto ogni volta che si ripensa o si costruisce un evento. E’ così che negli anni in cui ho scambiato ricerca ed insegnamento con il Cile sono riuscito ad apprezzare queste due diverse nature del pensiero senza pretendere di fonderle: sarebbe controproducente.
L’approccio di cui ho parlato trova applicazione in primo luogo sull’esercizio della “osservazione” che diventa un costume comportamentale. Al di là del significato corrente del vocabolo bisogna aggiungere che nel nostro caso si tratta di osservare oltre quanto si è convinti di avere già fatto e di farlo concentrandosi anche su fatti occasionali che a prima vista non hanno niente a che fare con i propri interessi professionali.
Nel suo insegnamento e nel suo costume personale lo stesso Alberto Cruz fornisce esempi molto chiari fedele alla sua convinzione: “l’unica cosa che può fare un professore di fronte ai suoi alunni è dare l’esempio (lo unico que puede hacer un profesor ante sus alumnos es dar el ejemplo)”. Una raccolta importante dell’opera di Alberto è stata pubblicata dalle Ediciones Universitarias de Valparaíso nel 2005 con il titolo El acto arquitectonico3.
Il libro è pieno di testi, manoscritti in una grafia minuta e precisa, e di schizzi accompagnati da commenti, il tutto organizzato in una struttura che viene presentata nella prima pagina.
Questi testi sono espressi in un linguaggio con cui gli studenti della scuola di Valparaíso prendono confidenza fin dall’inizio del loro corso di studi. Un linguaggio per noi inusuale e spesso difficile da capire ma che comunque applicato all’architettura e che parte da osservazioni che, in prima istanza sono radicate sul quotidiano: sempre diverso, sempre nuovo.
Integrati con i testi in ogni pagina appaiono anche schizzi (croquis) e fin dall’inizio Alberto spiega il perché: “Sappiamo bene che il disegno – di per sé – apre e rimanda ad altro che va al di là di ciò che vuole dire lo scritto (Bien sabemos que el dibujo –de suyo- es expansivo y lleva a unos màs-allà de lo que quiere dècir la escritura)”4. Sotto queste parole c’è un disegno degli occhiali di Alberto appoggiati sulla scrivania davanti a lui, nelle cui lenti egli vede riflesse le sue mani che stanno scrivendo.
La relazione fra le due parti non è diretta, anzi spesso gli schizzi sembrano proprio il frutto di una sorta di distrazione, proprio come scriveva lo scultore Claudio Girola: “L’ordine che uno sente dentro di sé è che bisogna tornare al deserto. Questa metafora non deve essere intesa male. Non si tratta della ingenuità di credere che il bagaglio che uno possiede bisogna buttarlo via e farsi di nuovo uomo delle caverne o un super ascetico della quiete, perché lo spirito discenda dentro di sé. Al contrario io credo che bisogna dimenticare, ma non dimenticare nel senso dell’amnesia, non come uno che ha perduto la memoria, non nel senso di mancanza di attenzione, non come omissione o come negligenza, non come vuoto, non come abnegazione, non come perdono, non come consolazione, ingratitudine o come disuso (delle conoscenze). Dimenticare come colui che vuole dimenticare, dimenticare per mezzo della distrazione, per poter vedere”.
Nel libro di Alberto gli esempi si moltiplicano, come quelli delle mani dell’autista che si muovono in una sequenza di gesti a seconda della manovra che sta compiendo5. Il volume è concepito in modo che sulla pagina destra è riportata la pagina originale, mentre sulla sinistra appare la trascrizione in chiaro. Mi sembra interessante commentare la pagina 60. A destra quattro schizzi accompagnati da un breve commento ciascuno. Nell’ordine: “Nel mezzo della strada e del suo traffico il fiorellino solitario che non si accorge di niente nel suo stare - il fogliame nuovo spuntato dal tronco che nemmeno si accorge dell’albero - fogliame della periferia antica che senza rendersene conto giunge a sospendere i limiti delle sue casette - fogliame della penombra che non si accorge dei suoi cerchi intatti di luce”6.
Poi in fondo alla pagina un passo indicato con il numero 2 che si può tradurre così: “La poesia poetizza – si sente dire dal poeta – nella maggior inquietudine, tutto in lui è inquieto quando ascolta la parola poetica che irrompe dentro di sé. All’arte dell’architettura, sembra chiaro, non le è concessa questa eroica sofferenza; certamente le è richiesto questo raggio di sole che concede l’ombra per far riparare il gregge. Questa allegoria, che certamente non si riferisce a ombra né ad animali ma al distacco fra l’inquietudine e i momenti di tribolazione acuti e diffusi”7.
E’ evidente da tutto questo che nella scuola di Valparaíso si va sempre in giro intorno all’architettura esercitando di continuo la funzione dell’osservare con la mente sgombra. Ma poi l’architettura si fa! Per capire come, è molto interessante leggere la cronaca della costruzione della “Casa Jean Mermoz” realizzata da Fabio Cruz (cugino e stretto collaboratore di Alberto) con la scuola. Cronaca e fotografie della casa (da tempo distrutta) sono pubblicate sul n. 16 dell’agosto del 1991 della rivista cilena ARQ. Viene descritta una cronologia schematica che inizia a metà del 1956 con i lavori da realizzare in un’area di circa 16 x 30 metri. Ne riporto qualche passo: “Si è iniziata un’opera senza progetto definitivo, senza progetto complessivo. All’interno di una idea (espiritu) generale, ogni parte avrà il suo valore, si procederà un passo dopo l’altro, apprendendo dal terreno medesimo. Si inventerà come farlo. Fino ad oggi si è fatto così…” Poi, alla fine di questa stringata cronaca si leggono le parole più esplicative, e più provocatorie: “Il volume dell’opera, diciamo che fa una sosta, ormai è terminato. I suoi bordi sono terminati. Salvo alcune poche eccezioni non crescerà oltre. Si inizia adesso, impercettibilmente, nella continuità del tempo, una nuova tappa: rendere abitabile (nel senso proprio della parola) questa costruzione, trasformarla in ciò che si chiama una casa”.
Direi che queste ultima parole sono provocatorie nel senso che l’obbiettivo che l’architetto normalmente si propone fin dall’inizio del progetto, in ciò obbligato anche dalle leggi e dai regolamenti nonché dalle urgenze economiche, cioè progettare una casa, nell’esempio di Fabio Cruz arriva alla fine, è quasi un accessorio. Tutto il girare intorno all’architettura, con la poesia, con l’osservazione protratta ed insistita, con il mettere assieme materiali, con l’apprendere dalla terra il da farsi, tutto ciò conduce effettivamente all’architettura, ma solo alla fine di questo processo essa si fa abitabile.
Sono certo che appaia chiaro da quanto detto che il fatto che tutte le fasi dell’operare nella Ciudad Abierta e nella scuola di Architettura della PUCV hanno i connotati di una attività ludica. Non per niente ogni settimana un giorno viene dedicato all’attività fisica ed al gioco nella CA, inoltre ogni anno gli studenti devono inventare macchine di gioco e giochi che si svolgono poi in città in un giorno particolare. Jommi scriveva al riguardo: “Quello che qui interessa è ri-originare il gioco spogliandolo delle specializzazioni e delle convenzioni. I giochi convenzionali hanno perso la loro capacità di sorprendere; si è reso necessario perciò tornare ad inventare questi riti ingenui con i quali l’uomo gioca”.
Note
1 Per una trattazione più estesa sulla Ciudad Abierta e sulla scuola di Valparaíso e per una esauriente bibliografia si veda Alfieri, M. (2000). La Ciudad Abierta. Roma: Editrice Librerie Dedalo.
2 Jacob, F. (1988). La statua interiore. Milano. Milano: il Saggiatore.
3 Cruz Covarrubias, A. (2005). El acto arquitectonico. Valparaíso: Ediciones Universitarias de Valparaíso e[ad].
4 Cruz Covarrubias, A. (2005). El acto arquitectonico. Cit., p. 4.
5 Ibidem, p. 10.
6 Ibidem, p. 60.
7 Ibidem.
Massimo Alfieri è stato docente di Progettazione Architettonica presso la facoltà di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre dal 1992 al 2012 e precedentemente docente della stessa disciplina presso la stessa facoltà dell’Università degli Studi La Sapienza. Fra il 1992 ed il 2012 ha compiuto molti viaggi in Cile stabilendo, su incarico rettorale rapporti di intercambio con le facoltà di Architettura della PUC di Santiago, della PUCV di Valparaiso e dell’Universidad di Talca. E’ stato incaricato di laboratori, workshop e corsi presso queste istituzioni ed ha raccolto documenti e testimonianze che stanno alla base del libro “la Ciudad Abierta” pubblicato nel 2000.