Abstract
A partire dalla rilettura della dispositio vitruviana in stretta relazione con quella visione unitaria della disciplina che si inscrive nel solco della trattatistica e mira alla trasmissibilità del sapere in funzione della sua applicazione pratica, il saggio esamina i cambiamenti occorsi nella pratica architettonica dal Settecento in avanti per riflettere sul ruolo progettuale e disciplinare di alcuni dei dispositivi architettonici – compositivi e non-compositivi – caratteristici della postmodernità, collocandoli all’interno di una sorta di ragionamento sul linguaggio, e da qui sull’architettura in generale, a partire dai due poli dell’illuminismo e del postmoderno, quest’ultimo inteso nel senso della condizione postmoderna del pensiero.
Da Vitruvio fino alle grandi costruzioni ottocentesche i molteplici tentativi di organizzare la materia architettonica sono legati a una visione unitaria della disciplina. La dispositio vitruviana e le sue successive trascrizioni rispondono infatti a un pensiero che fonda il discorso disciplinare sul paradigma dell’unità; l’ordinamento della materia architettonica e la definizione dei suoi campi di applicazione mirano a costruire le basi poietiche affinché tale visione possa tradursi nella pratica all’interno di una implicita corrispondenza tra teoria e prassi. La “collocazione appropriata delle cose” e la definizione di specifiche relazioni tra gli elementi si articola pertanto nella ordinatio, che sulla scorta del termine greco taxis significa ‘ordine (sul campo di battaglia)’ ma ancor di più ‘organizzazione’, ‘ordine costruito’; e così la sintassi che regge la relazione tra gli elementi si specifica nella determinazione dei principi con cui questi si combinano, nella loro disposizione logica nonché spaziale.
Se tutto ciò, malgrado le disgregazioni e le vertigini del moderno che da Piranesi e Baudelaire in avanti minano l’idea stessa di totalità, sembra resistere fino alla metà dell’Ottocento nello scarno e stringato saggio con cui Edgar Allan Poe esplicita la sua teoria della composizione (1), con il postmoderno il “pensiero nel tempo della crisi” (2) si traduce definitivamente nella poietica per mutarsi progressivamente in poetica.
Dal Settecento in avanti si assiste alla graduale scissione tra architettura e progetto, operata attraverso una sempre più marcata tendenza alla narrazione dei fatti architettonici. Mentre infatti nei secoli precedenti la complessità della materia architettonica veniva ricondotta a unità attraverso il continuo riferimento alla tradizione costruttiva, a partire da questo momento si palesa l’avvenuta separazione tra analisi e progetto che, sulla spinta dell’Encyclopédie, viene definitivamente ratificata. Tuttavia, sebbene la larga diffusione di cataloghi e repertori dimostri come la constatazione delle mutate condizioni del sapere sia alla base dell’urgenza tassonomica che caratterizza il secolo dei Lumi, i numerosi sforzi di codificare i singoli elementi del comporre e la loro conseguente scomposizione non fanno che alimentare l’atomizzazione del sapere in atto, producendo il superamento della visione unitaria tipica dei secoli precedenti.
Parallelamente a tale ansia di ricomposizione, emergono riflessioni meta-architettoniche di vario genere che introducono temi fino a allora estranei alla disciplina; sono esemplari in tal senso le sperimentazioni operate sulla memoria della rovina nei giardini pittoreschi tra cui il Désert de Retz è forse la più significativa, tanto da far sentire la sua influenza sul surrealismo di Breton e compagni.
A differenza dello studio “matto e disperatissimo” con cui i trattatisti rinascimentali, da Alberti a Palladio, prendono possesso degli edifici antichi per sottoporli a un esame critico che mira a definire schemi tipologici e compositivi adeguati alle necessità dell’architettura del loro tempo, nel Settecento la “scienza dell’antichità” (3) e la sua messa in opera aprono il campo alla riproduzione talvolta dogmatica di modelli astratti ‘ad alto valore semantico’ per decretare la separazione tra l’oggetto del progetto e le architetture della storia.
Nella seconda metà del Novecento, dissoltisi i miti del moderno tra le ceneri della guerra, in molti si ritrovano a riflettere sul rapporto tra progetto, tradizione e composizione. E se la Collage City di Rowe e Koetter, sulla scorta di alcuni dispositivi sperimentati da quel Le Corbusier bricoleur della camera a cielo aperto per l’appartamento Beistegui, suggerisce una strategia di coesistenza e conciliazione tra modelli compositivi alternativi, Aldo Rossi pone la questione “dell’architettura come composizione”, declinandola a partire dalla rilettura del Capriccio con edifici palladiani di Canaletto. La prospettiva di Canaletto gli permette infatti di avanzare una specifica teoria della progettazione svolta mediante la medesima operazione “logico-formale” che sarà alla base di La città analoga. Quel “trovare cose che non cercavamo” su cui spesso Rossi insiste, viene reso possibile dal meccanismo compositivo che La città analoga mette in luce: si tratta di un processo di ‘surrealismo tipologico’ svolto per via immaginativa. Sulla tavola, come in una cassetta da entomologo o in un erbario, si produce la comparazione diretta tra gli elementi che vi compaiono i quali, in funzione della posizione acquisita in seguito al montaggio non meno che per i propri caratteri originari, aprono a relazioni inattese. Non a caso Rossi fa eco al surrealismo di Raymond Roussel presentando i suoi progetti in un saggio dal titolo Come ho fatto alcuni dei miei progetti in cui viene apertamente esibito il tentativo di dar ragione del ‘come ho fatto’, mostrando un’attenzione particolare per le ragioni della pratica compositiva non meno che per i suoi automatismi combinatori, legati alla memoria della tradizione e alle consuetudini immaginative.
Soffermandosi sull’etimologia del termine ‘composizione’, è necessario riflettere sul fatto che l’accezione più comune assunta dal verbo componĕre è ‘mettere insieme’, ‘confrontare’ e ‘paragonare’; tale sfera di significati, strettamente legata ai fatti concreti di cui è costituita l’architettura nel tempo, ben si presta al ragionamento svolto da Rossi. Ma come non accorgersi che oggi molta parte dell’intellighenzia architettonica propende non solo verso pratiche di complessa scomposizione o decostruzione, ma anche di deliberata non-composizione o meglio di composizione ‘automatica’?
Se di fatto le pratiche compositive rossiane erano filtrate dal “surrealismo logico” di Roussel, come non notare quanto quelle di alcune delle figure più importanti della scena architettonica internazionale passino attraverso processi di accumulazione e addizione strettamente imparentati più con il gioco surrealista del Cadavre exquis che con i tentativi di Roussel di illustrare i meccanismi del proprio comporre letterario.
Di fatto la narrazione postmoderna sembra affidarsi a logiche combinatorie piuttosto che a principi compositivi, alla ricerca di un rispecchiamento nel progetto della condizione plurima e ubiqua della contemporaneità, come lucidamente descritto da Calvino nelle Lezioni americane: “Quella che prende forma nei grandi romanzi del XX secolo è l’idea d’una enciclopedia aperta, aggettivo che certamente contraddice il sostantivo enciclopedia, nato etimologicamente dalla pretesa di esaurire la conoscenza del mondo rinchiudendola in un circolo. Oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima” (4).
I dispositivi di inclusione impiegati da Koolhaas nella villa dall’Ava che, in una sorta di parodia delle icone della modernità, gioca sull’opposizione e l’eterogeneità di elementi e materiali per dar forma a un prodotto volutamente ibrido e discordante, seppur con risultati formali nettamente divergenti, sono parenti delle pratiche di addizione programmatica messe in atto nel Silodam di Amsterdam dallo studio MVRDV o di altri analoghi esempi contemporanei.
Tuttavia a differenza del montaggio di La città analoga, ove Rossi si preoccupava non tanto del risultato formale quanto di mettere in luce le modalità della pratica compositiva per dar conto di un’architettura che nel solco della tradizione mostrasse le sue ragioni, il collage di frammenti messi in scena da Koolhaas nega qualunque ordine che permetta un rispecchiamento pacificante.
È con la Biennale di Portoghesi del 1980, quella della famosa Strada Novissima, che il rifiuto intenzionale della composizione a favore di dispositivi architettonici di altro genere si affianca alle consuete modalità della pratica progettuale per sancire la definitiva perdita dei codici classici. Mentre quello che Koolhaas cercava di dimostrare in quell’occasione era che la dottrina storicista e la sua deriva tipologica fossero impedimenti inaccettabili rispetto al processo di trasformazione culturale in atto, a distanza di trent’anni propone con la scorsa Biennale del 2014, una rifondazione della disciplina a partire dai suoi fondamenti, attraverso mezzi apparentemente analoghi a quelli che la cultura architettonica degli anni Sessanta e Settanta aveva già ampiamente indagato.
Sebbene la recente proposta di Koolhaas abbia riscosso numerosi consensi per l’abilità strategica dimostrata dichiarando di voler riportare l’architettura alla sua sostanza costruttiva, non ci si può certo esimere dal chiedersi come il repertorio messo in mostra a Venezia possa fare a meno di un qualunque tentativo di ricomposizione che getti luce sulle reciproche relazioni tra le parti. Koolhaas motiva tale propensione per l’inventario e l’enumerazione in relazione alla fine delle grandi narrazioni e all’impossibilità di dedicarsi ad altro se non a “micronarrazioni che si rivelano concentrandosi sul piano del particolare o del frammento” (5). In questo modo, sulla scorta di esempi illustri, non può che promuovere il citazionismo e il collezionismo, rifugiandosi in una Wunderkammer ‘in chiave contemporanea’ dove custodire oggetti eccezionali e stravaganti: architettura e mirabilia.
Note
1. E.A. Poe, The philosophy of Composition (1846); tr. it. La filosofia della composizione, La Vita Felice, Milano 2012.
2. Cfr. F. Rella, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, Feltrinelli, Milano 1981.
3. Cfr. G.C. Argan, Sul concetto di tipologia architettonica (1962), in Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 75-81.
4. I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano 1988, pp. 113-114.
5. Cfr. la Biennale di Venezia 14. Mostra Internazionale di Architettura, Fundamentals, catalogo della mostra, Venezia, 7 giugno-23 novembre 2014, Marsilio, Venezia 2014.
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Francesca Belloni (1977) consegue il Dottorato di ricerca in Composizione Architettonica nel 2007 presso il Politecnico di Milano; svolge attività didattica e di ricerca presso il Politecnico di Milano e l’Accademia di architettura dell’Università della Svizzera italiana di Mendrisio.
Oltre a numerosi saggi e articoli, è autrice del libro Territori e architetture del fiume. Il Ticino dal Lago Maggiore al Po (Milano, 2009) e del più recente Ora questo è perduto. Tipo architettura città (Torino, 2014). Ha tenuto lezioni in diverse scuole di architettura e ha preso parte a congressi nazionali e internazionali come relatore selezionato o invitato.
Parallelamente alla sua attività di ricerca, svolge attività progettuale anche partecipando a concorsi nazionali e internazionali.