Abstract
Comporre presuppone l’adozione di un ordine interno che non soltanto sottende la forma ma ne consente la comunicabilità e la trasmissibilità e quindi la durata, anche dei processi costitutivi. Dalla seconda metà del ‘900 i principi di ordine e disordine divengono meno definiti: la frammentazione concettuale e formale implica l’uso di dispositivi compositivi molteplici, logico-deduttivi, analogici, testuali, che preannunciano rapporti relazionali, dinamici e interscalari di tipo paesaggistico.
Ordine e composizione consistono in sinonimie concettuali e operative che stabiliscono dinamiche comuni.
Il “mettere ordine” per radunare oggetti e idee dando origine ad una nuova totalità dotata di finalità morfologica e segnica altra, rispetto alla parte e al frammento costitutivi, denota e connota il “comporre” come strumento, mezzo e fine, dell’atto espressivo.
In questa accezione retorica, la composizione assume una valenza comunicativa sia del nuovo risultato raggiunto quanto della narrazione del percorso costitutivo. Conserva in sé pertanto, una componente temporale e processuale che ne sottende la lettura dinamica, e quindi partecipata, come un’opera aperta.
Ordinare e comporre presuppongono inoltre anche il riferimento ad una o più regole che ne determinano trasmissibilità e durata secondo un mutamento interpretativo continuo di scomposizione e ricomposizione; ritmi e sequenze che definiscono i rapporti relazionali interni e la mutevolezza nella possibile modificazione nel tempo secondo un fraseggio di ripetizioni e interruzioni.
L’aspetto semiotico dell’opera implica la presenza in essa di una specifica struttura che innervando i pezzi considerati comunica, rende
visibile, quanto questi riescono a stabilire come significato autonomo e interdipendenza reciproca e quindi tra il singolo frammento e la totalità a cui esso riferisce, tra essenziale e accidentale. La valenza semiotica presuppone l’arbitrarietà del segno secondo una condivisa attribuzione di significati e di rapporti associativi: arbitrarietà e relatività dei segni consentono il rimando concettuale che ne costituisce un fatto di linguaggio della forma, la coincidenza di significato e significante.
«Per il progetto di architettura l’ordine è anzitutto la legge di costituzione della cosa, di selezione e di organizzazione degli elementi che la costituiscono, ma è anche l’insieme del nuovo sistema che essa propone e attraverso i quali è possibile guardare, cioè ordinare frammenti del mondo in modo nuovo» (Gregotti 2014).
In molte opere di Louis Kahn, la figuratività morfologica è ottenuta tramite la composizione per “stanze”: volumi che si dispongono in un apparente disordine planimetrico come frammenti di non-finito o rimandi alla tettonica residuale delle grandi archeologie. Come nelle architetture di John Soane, la duplice natura individua e associativa della stanza che si compone secondo sequenze e concatenazioni, inglobando in un procedimento di tipo narrativo anche il dato accidentale, genera composizioni d’insieme caratterizzate al tempo stesso da discontinuità e totalità.
I pezzi della composizione sono frammenti evocativi come lo sarebbero in un insieme di rovine.
Il rapporto tra l’ordine-forma e il progetto rimanda alla relazione tra l’invarianza e il divenire dettato dalle specifiche circostanze.
Se Louis Kahn ricompone un’unità d’insieme attraverso il montaggio paratattico di capsule spaziali, vuoti racchiusi da volumi mai conclusi, Mies van de Rohe opera scomposizione e montaggio di superfici: piani-guida che attenuano i contorni oggettuali dell’edificio caratterizzando il volume a perimetro aperto di trasparenza fenomenologica e costituendo linee di forza geometriche nel contesto orografico.
In entrambi, la figura morfologica deriva da un processo compositivo basato sul disporre secondo un ordine di relazione che presuppone una struttura interna logico-deduttiva.
La forma in frammenti è l’invariante, il valore residuale e resistente, autonomo e oggettivo, che permane al flusso diacronico e a cui eventualmente può essere attribuito altro significato, una diversa griglia semantica, in un nuovo ordine di pezzi composti secondo una modificazione continua che ne permette la durata.
La forma, intesa non solo come immagine figurale, implica una durata irriducibile alla propria immanenza: ogni nuova forma è una specifica possibilità di senso (Nancy 2007).
La composizione analogica consente di disporre cose e forme, come una sorta di dispositivo complesso e interattivo in grado di stabilire relazioni associative e rimandi correlativi.
Nei montaggi analogici di architetture teorizzati da Aldo Rossi, le forme reali sono ricondotte a immagini archetipiche parzializzate che assemblate, svelano le invarianti tipologiche mentre i processi di decontestualizzazione, trasfigurazione e associativi, generano nuove, inedite figurazioni. Il processo analogico, consente l’assemblaggio atonale in cui ogni singolo episodio risuona isolato nell’intero che diviene alternativamente sfondo e figura. Il tutto costituisce un’opera aperta, mai finita, che consente libere associazioni.
La struttura analogica è connotata da una funzione di proporzionalità che è anche la propria condizione di validità e veridicità: la simmetria analogica che si stabilisce tra due termini di comparazione è dipolare, cioè tensionale, in grado di stabilire un rapporto dicotomico tra opposti.
L’analogia comparativa è quindi geometrica e proporzionale: escludendo la misura quantitativa, essa ha un grado associativo illimitato, non vincolato e può generare nessi euristici (attraverso un procedimento induttivo legato all’intuizione), sintetici (mediante legami interdisciplinari) o evocativi (secondo una trasposizione semantica e metaforica) (Melandri 1974).
Così l’analogia potrà essere sintattica o semantica a seconda che consideri un’interferenza risolta attraverso un approccio proporzionale o attraverso la formazione di concetti corrispondenti.
Il rapporto analogico non instaura un rapporto di rappresentazione tra cosa e figura, ma di similitudine: la relazione conoscitiva è diretta e in quanto tale dotata di una propria oggettività.
L’uso di un procedimento analogico consente di riconnettere l’analisi, la fase conoscitiva, al progetto. Uno smontaggio immaginifico delle immagini depositate nella collezione mnemonica delle cose per un rimontaggio in grado di generare configurazioni e nuove riflessioni, riconfermando il ribaltamento forma-funzione e riportandolo all’interno del dibattito sulla città.
Nel secolo scorso, l’atto distruttivo proprio del pensiero concettuale delle prime avanguardie, l’identificazione con l’infranto o la «celebrazione della pluralità» dadaista, vengono storicizzati dalla concretezza degli eventi bellici. Se la metafora custodiva in sé le immagini della differenza come un frammento di metamorfosi in grado di trattenere il mutamento, ciò che diviene racconto dell’avvenuto è già un mutamento, secondo un processo di metamorfosi in atto e di trasfigurazione.
L’«atto critico» costituisce uno strumento di storicizzazione e di potenziale mutamento pratico che ricolloca nello spazio e nel tempo forme e figure, e proprio nella forma riscopre la possibilità di includere le contraddizioni e le dissonanze impossibili al pensiero logico: la forma porta in sé l’informe da cui origina e si costituisce “cosa” tangibile dell’inespresso.
Dal progetto per la ricostruzione di Saint Dié di Le Corbusier, agli studi per la città collage di Colin Rowe e la città arcipelago di Oswald Mathias Ungers si registra l’impossibilità di una concezione unitaria e globale della città, intesa in appartenenza ad un territorio di superficie indefinita e in un rapporto vuoto-pieno che polarizza l’architettura sul piano oggettuale e morfologico.
La composizione urbana diviene sempre più riferita ad un ambito dilatato e dai confini indefiniti: la dimensione spazio temporale e storica della città oltreché fisica non confina e racchiude una struttura formale figurale, tendendo ad assumere i connotati di un sistema di relazioni paesaggistiche.
A prescindere dall’aspetto strumentale di operatività compositiva, la frammentazione può considerarsi, come esito di una componente temporale insita, non tanto nel rimando memoriale a figure e modelli della storia o della memoria individuale, quanto nella processualità costitutiva del progetto collocato geograficamente e storicamente in un sito. Il progetto diviene così frammento di un processo trasformativo sempre in atto di cui esso stesso è attore principale.
La modificazione (Gregotti 1966, 2012), implicita nel principio insediativo quale regola proiettiva, presiede alla composizione come indicazione procedurale in grado di coniugare variabilità e persistenza, di preservare l’appartenenza del progetto ai luoghi assicurando continuità nel mutamento: di attribuire ad esso i significati derivati dai siti e di generare uno «spostamento di senso» proprio nell’atto di modifica dei segni concreti sul territorio.
La forma è sia il modo in cui le parti e gli strati della cosa architettura si dispongono quanto come questa disposizione si comunica.
Strutture testuali intrinseche, sintattiche e paratattiche, principi logici e analogici, implicano rapporti relazionali in cui la distanza fenomenologica consente il chiasma comunicativo di un risultato estetico vincolato al soggetto di percezione.
Nel tempo della globalizzazione, delle grandi comunicazioni e interconnessioni, della compressione e convergenza spazio-temporali, in cui tutto è costantemente diverso e mutevole, luogo e spazio sono connotati da discontinuità ed eterogeneità e non più sovrapponibili. Il luogo sempre più circostanziato e localizzato, lo spazio sempre più isotropo e non misurabile in base ad un punto fisso di riferimento ma riferito a soggetti incostanti, a punti mobili di percezione (Farinelli 2003). Una sorta di fenomenologia dinamica dove i poli della percezione, soggetto e paesaggio, sono coincidenti, mutevoli e in costante movimento.
Nella città-paesaggio, «il filo dell’orizzonte, di fatto è un luogo geometrico, che si sposta mentre noi ci spostiamo» (Tabucchi 1986). «Si va formando così una successione di cerchi secanti, come se l’osservatore spingesse lo spazio davanti a sé e si trascinasse dietro una cortina distante. […] L’orizzonte è sempre un’immagine che ci sfida, che ci promette meraviglie» (Saramago 1985).
Bibliografia
- Farinelli F. (2003). Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino: Einaudi.
- Gregotti V.(1966, 2008). Il territorio dell’architettura, Milano: Feltrinelli.
- Gregotti V. (2014). Ordine e disordine. In Vittorio Gregotti, Il possibile necessario. Milano: Bompiani, 37-72.
- Gregotti V. (2012). Incertezze e simulazioni. Architettura tra moderno e contemporaneo. Milano: Skira
- Melandri E. (1974). Analogia proporzione simmetria, Milano: Isedi.
- Merrill M. (2010). Louis Kahn on the thoughtful making of spaces. The dominican motherhouse and a modern culture of space, Baden: Lars Müller Publishers.
- Massey D. (1995, 2001). Pensare il luogo. In Massey D., Jess P., Luoghi, culture e globalizzazione. Torino: Utet.
- Nancy J., Didi Huberman, Heinich G., Bailly N. (2007). Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo. Milano: Bruno Mondadori.
- Tabucchi A. (1986). Il filo dell’orizzonte, Milano: Feltrinelli, 107.
- Saramago J. (1985, 2003). La parola resistente. In José Saramago, Di questo mondo e degli altri, Milano: Feltrinelli, 69-70.
Fabiola Gorgeri è Dottore di ricerca in architettura e urbanistica presso il Dipartimento di Architettura (DIDA) dell'Università degli Studi di Firenze, dove collabora alla didattica, ricerca e coordina un seminario sulla progettazione architettonica e urbana.
Si interessa di linguaggi architettonici e la loro influenza nelle trasformazioni urbane e territoriali. Circa gli stessi argomenti e anche sul patrimonio del XX secolo, ha organizzato conferenze e ha scritto saggi; recentemente, sul tema "Trasmettere la trasformazione", la conferenza a Firenze e Pistoia di JL Carrilho da Graça.