Abstract
Molte esperienze legate alle smart cities sembrano limitate al controllo della efficienza urbana, attraverso il digitale, per la costruzione di una città dove l’aggettivo intelligente non necessariamente include una sostenibilità intesa anche come urbana, architettonica e, in genere, formale. L’interrogativo di fronte al quale ci troviamo è: perché frettolosamente rinunciare a costruire delle città che, oltre che smart, siano anche belle? Il testo individua nel progetto di Lafayette Park di Hilberseimer e Mies van der Rohe un possibile esempio di smart city ante litteram al quale guardare per costruire città, o parti di esse, che rendano la vita degli abitanti più facile ma siano anche in grado di essere luogo del riconoscimento per i propri cittadini.
Articolo
Con l’inarrestabile globalizzazione è cambiato completamente il modo di produrre, di informarsi, di vivere: in altre parole si è modificato radicalmente il rapporto tra individuo e società. Tutto questo ha rivoluzionato i più svariati settori, tra cui, in particolare, quello dell’architettura. L’innovazione tecnologia, infatti, ha giocato un ruolo sempre più importante nello sviluppo evolutivo urbano, al punto che, oggi, si sta affermando un modo di concepire la città e le sue infrastrutture come intelligenti, in quanto controllate dal digitale. Pare che in queste città smart si possa verificare il tasso di inquinamento atmosferico o acustico dei luoghi; monitorare fenomeni quali il livello dell’acqua nei bacini idrici o nelle dighe, le aree boschive a rischio incendio o addirittura l’attività sismica di un territorio; controllare il traffico degli autoveicoli e il consumo energetico degli edifici. Ma tutto questo basta a rendere le nostre città ancora belle e a farne dei luoghi nei quali la vita non sia solo più semplice ma anche più ricca?
In un recente articolo apparso sul quotidiano inglese The Guardian , tra le dieci cose che gli architetti dovrebbero promettere di non fare per il 2015, figura Design dumb cities. Il testo si apre provocatoriamente con l’ immagine di una città costituita da edifici tutti uguali che potrebbe essere ovunque localizzata e sostanzialmente ci si chiede se la smart city sia in grado di rendere il suo abitante qualcosa di più di un passivo consumatore di servizi o di un produttore di dati e informazioni, insomma se sia ancora in grado di trasformare abitanti in cittadini (img01). La cosa più curiosa è la doppia possibile traduzione del termine dumb che può essere tanto ‘stupido’ (opposto a smart) quanto ‘muto’, cioè, tradotto sub specie architettura, privo di quei caratteri che rendono ancora possibile a una comunità di riconoscersi nei luoghi della città. Che le città debbano essere oggi smart, dotate di ‘sistemi’ efficienti, dovrebbe essere un dato quasi scontato: che questo debba essere alternativo o, peggio, sostitutivo di una sostenibilità intesa, prima di tutto, in termini formali sarebbe un atteggiamento miope. La pretesa-presunzione, oggi di molti, che le tecnologie siano, da sole, in grado di fornire una risposta adeguata a tutti problemi della città non può essere condivisa: perché la forma dell’insediamento, la presenza di luoghi di aggregazione, il rapporto con un verde inteso in termini di qualità oltre che di quantità, l’identità stessa di una città sono anch’essi fattori imprescindibili di una sostenibilità intesa in chiave di nuovo umanesimo.
Ecco allora che alcune indicazioni su come costruire, o ricostruire, la città contemporanea ci vengono dai buoni esempi del passato. La tesi che qui si intende sostenere è che il Lafayette Park, progettato da Ludwig Hilberseimer e Mies van der Rhoe, possa essere letto come una smart city ante litteram, nel suo individuare una ‘giusta misura’ all’interno della quale molti dei problemi della città contemporanea possono essere risolti senza rinunciare alle qualità cui le città del passato ci hanno abituato.
Lafayette Park a Detroit, realizzato negli anni 1955-1960 rappresenta un modello di composizione urbana di eccezionale importanza per la sua capacità di suscitare un dibattito realistico sulle questioni connesse alla forma dell’insediamento e ai criteri della sua trasformazione. Partendo da una profonda critica della città esistente, propone sostanzialmente un approccio alternativo a quello dell’isolato urbano come punto di partenza della composizione. Parti differenti, ripetute secondo certe regole, costituiscono un’unità insediativa ripetibile con aree naturali che si alternano ad aree residenziali. Il block, l’elemento compositivo di base, ha una forma rettangolare allungata e risulta costituito, nello specifico, da cinque corpi residenziali, da aree naturali e da aree adibite a parcheggi. Grazie ad una serie di successivi ribaltamenti, si forma un insieme che genera un superblock, e questi ultimi, reiterati e accostati tra loro secondo certi principi, costruiscono l’impianto generale del quartiere (img02).
Nella struttura di Lafayette Park, ancora oggi, sono contenuti tutti gli elementi necessari per una sana vita sociale . La residenza nelle sue differenti tipologie (case alte a torre disposte ai bordi estremi dell’impianto e case basse, a schiera e in linea, disposte sui margini laterali); i servizi pubblici (localizzati sul bordo inferiore a ridosso della strada); i servizi collettivi (dislocati nelle aree verdi del parco) e i luoghi naturali costituiscono così gli elementi primari nella composizione dell’insediamento. Inoltre strade a cul de sac e parcheggi, posti ad una quota più bassa, eliminano quanto più possibile le automobili dalla vista e servono le residenze senza mai attraversare il grande parco. Tutto questo ordine permette di raggiungere un alto grado di ricchezza formale fondata sulla ricerca di rapporti aurei e proporzionali utilizzati per determinare le misure, le distanze e le localizzazioni di ogni elemento (img03). Tra i suoi caratteri virtuosi, inoltre, Lafayette Park viene anche indicato come eccellente esempio di sostenibilità climatica grazie alla sua attenta relazione con la natura nella scelta e nel posizionamento ragionato delle alberature capaci di incidere sul comfort ambientale. Questo rapporto di necessità è centrale se si vuole parlare di certi tradizionali criteri come l’orientamento, l’illuminazione e la ventilazione naturale come alternativi ai sempre più potenti sistemi impiantistici in grado di risolvere, tecnicamente, i problemi che l’assenza di un progetto fondato sul buon senso può aver prodotto.
I principi fondativi di Lafayette Park - l’unità dell’insieme, la proporzione, il ruolo centrale del verde, il controllo del traffico automobilistico, la densità, la varietà tipo-morfologica, la definizione degli spazi pubblici, l’attenzione all’energia e al risparmio di suolo - possono costituire ancora, senza dubbio, i punti cardine della future city. Quindi si conforma, e si conferma, grazie all’impianto così descritto, una certa idea di città. Attraverso la varietà morfologica si manifesta l’ordine. Ne deriva la tesi, già affermata altrove, che la progettazione urbana è nient’altro che un’opera d’ordine delle parti che costituiscono la città dove singoli elementi, gli edifici, intessono relazioni tra loro e con il loro intorno.
Lafayette Park ci insegna che la nostra attenzione di progettisti dovrebbe riguardare, ancora una volta, ciò che è l’essenza della città: l’architettura che la compone. Il fine principale dell’architettura è, da sempre, quello di rappresentare i valori civili di una società secondo un concetto di utilità che va ben oltre un funzionalismo ingenuo. Per tale missione conferitale non può tradire il suo fondamento, accontentandosi di produrre oggetti che stanno sul mercato come qualsiasi altro bene di consumo.
Lo skyline di molte smart cities si nutre invece di questo aspetto sorprendente dell’architettura, ora tanto in auge. Ridotta come un’immagine al servizio del marketing e superata la scala ‘umana’, l’architettura ha assunto delle dimensioni spropositate nell’ottica di una crescente bigness architettonica senza precedenti. Così oggi, come ha sostenuto Vittorio Gregotti, l’architettura è diventata un landmark, per cui la ricerca attuale sulle ragioni dell’edificio si fonda su chi sarà in grado di costruire il grattacielo più alto, quello più curvo, quello più storto (img04).
Tutto questo ha portato ad un appiattimento delle forme, non più in grado di restituire un effetto città, in quanto incapaci di costruire gerarchie nel tessuto insediativo proprio per l’impropria funzione comunicativa di cui l’architettura stessa si è fatta portavoce. Architetture omologate, quindi, sempre più simili tra loro. Che immagine può venir fuori, allora, per le città del futuro? Dalle restituzioni grafiche delle riviste nessuna in particolare. Sono troppo uguali, troppo asettiche, troppo estranee a ciò che hanno intorno: sono città mute. A questo modello se ne vuole invece contrapporre un altro fatto di città alternative a quelle dell’omologazione globale, utopiche, forse sì, ma a cui poter tendere idealmente e plausibili senza comporvi le architetture più in voga del momento. Città riconoscibili la cui immagine percepita riflette in modo chiaro e coerente la sua organizzazione spaziale e il modo di aggregazione delle sue parti. Città razionali, dunque, che guardano alla storia dell’architettura come terreno delle scelte possibili. Uno solo quindi è il dato inamovibile. Mai perdere la visione generale complessiva, pensando a una forma della città che, anche se non più compiuta in tutto il suo insieme come avveniva per la città della storia, sia in grado di restituire, anche per parti, una precisa idea di città.
Le esperienze delle città smart ricordano, per certi versi, il carattere spettacolare dell’esperienza futurista, avanguardia in polemica con il passato e a favore di un’iconografia da tutti comprensibile, che mostra notevoli analogie con l’odierna civiltà tecnologica, urbana e consumistica. Attualmente si continua a chiamare futurista ogni manifestazione d’arte eccessiva per qualche ragione rispetto agli schemi tradizionalmente intesi. Il futurismo, allora, come un’avanguardia verosimile dei nostri giorni, è da intendersi non tanto come azione anticipatrice quanto soprattutto come radicale gesto di rottura socio-culturale , la stessa che oggi alimenta, a parere di chi scrive, molta parte del fenomeno delle smart cities dove sembra che la qualità e l’identità architettonica dei luoghi urbani siano diventati valori del tutto secondari. Oggi, a causa della virtualizzazione di ogni campo, si assiste molto spesso alla rinuncia dell’architettura a costruire luoghi reali e vivibili a favore di un ideale pubblico incapace di vedere ‘in piccolo’ e abbagliato dal fascino della grandezza. Sicuramente in questo grande clima di incertezza di fondamenti e regole occorre rivalutare l’importanza del contesto e attenersi a dei principi validi per costruire quelle convinzioni condivise, non variabili a seconda della convenienza, senza le quali ogni pretesa di comunicazione diventa solo pubblicitaria. Una pianificazione oggettiva è una questione di educazione. Le cose migliorano attraverso gli esempi. Se non ci sono esempi la gente parla solamente. Parla di cose che davvero non conosce e così non riesce più a giudicare la differenza tra buono e cattivo. Si parla di sostenibilità e di efficienza tecnologica urbana, importanti sì, ma certo non decisive per il disegno della città. Non si può credere che in nome dell’efficienza si rinunci a certi capisaldi compositivi, propri della progettazione urbana. Costruire delle città efficienti non vuol dire costruire delle belle città, per le quali, nella fattispecie, il concetto di bellezza si riferisce all’ordine, all’armonia e alla proporzione delle parti. Viceversa costruire belle città può essere il fondamento per realizzare, attraverso scelte mirate, città sicuramente più efficienti.
Francesca Addario è nata a Napoli il 25 Febbraio 1989.
Nel 2011 si laurea in Scienze dell’Architettura presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, con tesi in Progettazione Architettonica, relatore Prof. Arch. Antonio La-vaggi, conseguendo la votazione 110/110. Nel 2014 si laurea in Architettura, presso la medesima Università, con una tesi in Composizione Architettonica e Urbana, relatori Proff. Archh. Federica Visconti e Renato Capozzi, con la votazione di 110/110 e lode e diritto di pubblicazione della stessa. Da Ottobre 2014 collabora con i docenti relatori nell’ambito di mostre, convegni e attività didattiche e con uno studio di architettura nell’ambito dell’attività professionale.
Bibilografia:
HILBERSEIMER L., Mies van der Rohe, Paul Theobald & C, Chicago 1965
(trad. it Mies van der Rohe, Clup, Milano, 1984 con un’ introduzione di A. Monestiroli)
SCOTTI F., Ludwig Hilberseimer. Lo sviluppo di un’idea di città. Il periodo americano, Lampi di Stampa, Milano 2008
SCOTTI F., Lafayette Park, Detroit. La forma dell’insediamento, Libraccio, Milano 2010
DEL BO A., Architettura e costruzione della città: il caso di Lafayette Park a Detroit, in Monestiroli A. e Semerani A. (a cura di), La casa. Le forme dello stare, Skira editore, Milano 2011
DEL BO A., La costruzione di un’idea di piano, in Malacarne G. (a cura di), La casa. Forme e luoghi dell’abitare urbano, Skira editore, Milano, 2013
CAPOZZI R., Mies van der Rohe: dalla città aperta alla casa a patio all’aula, in Cafiero G. e Capozzi R. (a cura di), Tracce antiche e Habitat contemporaneo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2014
Francesca Addario è nata a Napoli il 25 Febbraio 1989.
Nel 2011 si laurea in Scienze dell’Architettura presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, con tesi in Progettazione Architettonica, relatore Prof. Arch. Antonio Lavaggi, conseguendo la votazione 110/110. Nel 2014 si laurea in Architettura, presso la medesima Università, con una tesi in Composizione Architettonica e Urbana, relatori Proff. Archh. Federica Visconti e Renato Capozzi, con la votazione di 110/110 e lode e diritto di pubblicazione della stessa. Da Ottobre 2014 collabora con i docenti relatori nell’ambito di mostre, convegni e attività didattiche e con uno studio di architettura nell’ambito dell’attività professionale.