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Cettina Lenza
Abstract
Il contributo esamina il destino degli ex OP in Italia dopo il processo di dismissione in relazione alle condizioni di conservazione e alle destinazioni d’uso, nonché nei confronti della conservazione della memoria. Le stesse problematiche sono affrontate a scala europea in tre esempi relativi alla Francia (Manicomio di Bron, vicino Lione), all’Inghilterra (Oxford County Lunatic Asylum di Littlemore, Oxford), e Germania (Manicomio di Illenau, Achern), evidenziando la diversità di soluzioni.
Testo
In Italia, il destino degli ex OP all’indomani della Legge 180 del 1978 e del lento processo di dismissione restituisce un panorama estremamente diversificato, che va dalla totale cancellazione dell’impianto, come è accaduto all’OP di Reggio Calabria, demolito nei primi anni novanta, a eccezione della cappella, per lasciare posto alla Scuola Allievi Ufficiali dell’arma dei carabinieri, al recupero integrale, come per il San Clemente a Venezia, trasformato in albergo di lusso, o per il Sant’Artemio di Treviso, nella cui cittadella manicomiale sono stati trasferiti tutti gli uffici della Provincia con i suoi circa 650 addetti. Pur nella radicale differenza – la scomparsa fisica e, all’opposto, la rifunzionalizzazione del patrimonio immobiliare, anche forzandone i caratteri storici – i casi citati sono accomunati dalla perdita della memoria dei luoghi, cancellando le tracce della loro originaria destinazione in una sorta di damnatio dettata da contingenze pratiche, più che da posizioni culturali. Peraltro, gli esempi richiamati possono considerarsi gli estremi di una scala che ammette, dal punto di vista del riuso, una casistica assai articolata. A parte le amministrazioni locali (il Regio Spedale dei Pazzi di Torino ospita da tempo servizi comunali), l’Università ha svolto un ruolo significativo in tal senso, con l’insediamento delle Facoltà di Agraria e Veterinaria a Grugliasco, quella di Architettura a Ferrara, le sedi dipartimentali a Trieste e l’impegnativo investimento dell’Università di Siena negli immobili principali del locale manicomio di San Niccolò e di quello di Arezzo; a Perugia si è insediato da anni un centro di istruzione superiore e a Macerata e a Reggio Emilia si è programmata la trasformazione di alcuni immobili a destinazione residenziale-universitaria. Il ricordo di luoghi intrisi di sofferenza talvolta riemerge: nei caratteri delle architetture – la retorica monumentale dei prospetti, le esedre per i furiosi – o nelle targhe apposte sui padiglioni che ne enunciano la destinazione precedente.
Nella maggioranza dei casi sopravvivono funzioni sanitarie e socio-assistenziali, compresi centri di servizio psichiatrici e residenze sanitarie assistite, convivendo raramente con altre destinazioni (a Nocera Inferiore con la cittadella giudiziaria) e assai più spesso con la mancanza d’uso. Laddove le condizioni di abbandono non risultano generali, come in non pochi OP del centro-sud (Pesaro, Teramo, Aversa, Napoli), ma anche nel nord (tra i casi più eclatanti, quello di Mombello a Limbiate), all’interno del medesimo complesso il recupero si alterna al degrado, che colpisce segnatamente le costruzioni di servizio e talvolta anche i padiglioni rispetto ai meglio conservati edifici direzionali, mentre un discorso a parte meriterebbero gli elementi complementari (recinti murari, accessi) e il verde, spesso di pregio. Se nella fatiscenza persiste l’identità originaria delle strutture, si tratta di brandelli di memoria, legata oltretutto alla loro fase di declino e di crisi di fronte alle nuove frontiere della psichiatria, ma che nulla racconta invece dei dibattiti e della ricerca che ne accompagnò la fondazione: una memoria privata della storia, insomma, e dunque monca, per non dire distorta. Inoltre, salvo rari episodi – come per il Manicomio provinciale di Trieste, integrato nel tessuto cittadino a iniziare dal verde e dalla maglia viaria un tempo a servizio dell’istituto – anche gli organismi recuperati restano comunque entità separate dall’organismo urbano, mentre quelli in abbandono ne costituiscono parti nascoste, o addirittura negate. Eppure, i complessi manicomiali si propongono quali risorse strategiche, in grado di candidarsi – per la loro dimensione, la posizione, per lo più prossima e ben collegata ai centri abitati, la presenza di rari polmoni di verde pubblico – come attrezzatura satellite a valenza territoriale, autentici fulcri di riequilibrio, in grado di sanare la nuova forma di disagio sociale generata dalla congestione urbana.
L’obiettivo della conservazione integrata, che prevede l’inserimento di funzioni compatibili con i valori da preservare (e dunque con la memoria) e al tempo stesso utili nel quadro sociale, si configura come sfida difficile. La presenza di funzioni medico-sanitarie, affini a quella iniziale, non sempre garantisce il rispetto dei caratteri originari, specie a scala architettonica, a causa dell’inevitabile adeguamento degli immobili, e altrettanto vale per l’inserimento di attività di servizio (socio-assistenziali, formative), mentre la destinazione a verde attrezzato e a servizi culturali nell’ottica di una “musealizzazione” non riesce a giustificare il recupero complessivo, attesa la vastità dei complessi e il proporzionale impegno economico. Non a caso, l’esperimento del “Paolo Pini” di Milano (un tempo Grande Astanteria Manicomiale di Affori), volto a coniugare l’assistenza sanitaria con la presenza delle Botteghe d’arte e del MAPP (Museo d’Arte Paolo Pini), resta un caso singolare. Negli interventi, andrebbe tenuta in conto una scala gerarchica, tutelando in primo luogo l’impianto generale, il che richiede un progetto unitario, che non esclude la diversificazione delle funzioni, né la collaborazione tra soggetti pubblici e privati, ma che risulta talvolta ostacolato dal frazionamento delle proprietà e delle competenze. Ben più difficile preservare il valore testimoniale a scala architettonica e degli interni (compresi impianti, finiture, arredi), spesso delegato a singoli spazi museali (come per il Padiglione Lombroso a Reggio Emilia). Infine, viene quasi sempre trascurato il patrimonio documentario, che, adeguatamente conservato e aperto alla pubblica fruizione, potrebbe fornire un significativo apporto alla conoscenza e alla memoria: tra le poche eccezioni, il Santa Maria della Pietà a Roma, con il Centro studi e ricerche per tutelare e valorizzare il patrimonio storico-scientifico dell’ex ospedale psichiatrico, e il Museo laboratorio della mente; o il caso di Arezzo, dove al recupero degli immobili si è accompagnato anche quello dell’archivio sanitario, sebbene una parte consistente della documentazione amministrativa ed edilizia si trovi presso l’Archivio storico della Provincia. E non è superfluo segnalare che il patrimonio bibliografico, spesso prezioso (si pensi alle riviste e ai bollettini prodotti all’interno stesso dei manicomi, testimonianze straordinarie per illustrarne la gestione e la vita quotidiana) e quello documentario, oltre a essere anch’esso esposto a rischio di dispersione, è ripartito tra più soggetti e in sedi quasi mai aperte al pubblico.
In proposito, le esperienze straniere hanno costituito un interessante termine di paragone. L’Asile de Bron, sorto vicino Lione nel 1876 su una superficie di 37 ettari con progetto dell’architetto Antonin Louvier, veniva giudicato dall’alienista toscano Paolo Funaioli, nel suo “viaggio medico” dell’anno successivo, “un manicomio tipo” e “uno fra i bei manicomi che possegga la Francia”. Ordinato con sistema misto, parte a padiglioni e parte disseminato, il manicomio venne trasformato nel 1937 in Hôpital Départemental e ampliato fino a raggiungere, con gli annessi agricoli, un’estensione di 112 ettari. Oggi costituisce il Centre Hospitalier Le Vinatier, e rappresenta uno dei due centri ospedalieri pubblici a servizio dei secteur psychiatriques (12 per adulti e 9 infantili) del Dipartimento del Rhône dopo la trasformazione del sistema di cura in psichiatrie de secteur. Pur conservando la destinazione medica per malattie mentali, Le Vinatier è stato organizzato in poli di attività cliniche e medico-tecniche, con una diversificazione dei servizi e delle funzioni (compresa la prosecuzione dell’attività produttiva nella ex colonia agricola). Alcuni tra i suoi edifici di interesse storico-architettonico sono stati restaurati, come la cappella a croce greca, fondale del viale d’accesso; in altri casi, i padiglioni sono stati trasformati per adeguarli alle esigenze attuali; per gli alloggi dei pensionanti, demoliti, i resti dei portali sono stati rimontati liberamente come arredi del parco. Iniziative e mostre allestite nella Ferme du Vinatier, sede dei servizi culturali presso la colonia agricola, e persino visite guidate dimostrano l’intento di conservare una memoria consapevole della storia del luogo, mentre a sua volta il patrimonio documentario – disegni e foto d’epoca – è stato digitalizzato negli Archives électroniques dell’inventario generale per i beni culturali della Région Rhône-Alpes.
Un destino del tutto differente segna lo storico Littlemore Hospital, già Oxford County Lunatic Asylum, manicomio per pazzi poveri sorto nel 1846 con uno schema ad ali ad angolo retto, duplicato per le distinte sezioni, maschile e femminile, tipico del sistema inglese e germanico, secondo la celebre distinzione proposta da Parchappe. Nonostante i successivi ampliamenti, nel 1996 la struttura, ritenuta inadeguata, è stata chiusa, e l’assistenza psichiatrica si è trasferita nel vicino Littlemore Mental Health Centre, mentre l’ex manicomio, venduto a privati, è stato trasformato in complesso residenziale denominato St George’s Manor. Tra i nuovi blocchi edificati, ben leggibili restano, a parte la cappella e la casa del direttore, gli edifici cruciformi simmetrici per gli alienati dei due sessi, ma nulla – a parte l’architettura – rinvia alla destinazione originaria, mentre la ricca documentazione grafica, confluita negli Oxfordshire Health Archives, è agevolmente consultabile presso il vicino Oxfordshire History Centre.
Un terza via è esemplificata dal Manicomio di Illenau, nel Baden, vicino al piccolo villaggio di Achern, celebre e prestigioso – all’epoca – per l’impostazione che il suo fondatore, Wilhelm Roller, gli diede negli anni trenta dell’Ottocento, traducendolo, con progetto di Johann Hans Voss, in un complesso articolato di corpi variamente disposti e aperti verso il paesaggio circostante al fine di stimolare la ricettività del Gemüth. Oggi il complesso ospita uffici comunali, laboratori artistici, e, nel cuore dell’edificio direzionale, la Festsaal, mentre numerosi padiglioni sono stati adibiti a residenze, anche mediante massicci interventi di ristrutturazione, determinando la compresenza di una molteplicità di funzioni che conferisce al complesso la vitalità di un quartiere urbano. La documentazione iconografica (specie foto d’epoca) è conservata presso l’Acherner Stadtarchiv, di recente trasferito proprio nei locali dell’ex manicomio (reparto agitate) insieme alla biblioteca, e messa a disposizione della fruizione pubblica. D’altro canto, la difesa della memoria del luogo è attestata persino dalla presenza di gadgets dedicati al manicomio nel locale ufficio turistico.
In definitiva, solo il riconoscimento di una condizione di patrimonio culturale integrato, costituito da un sistema di beni materiali e immateriali – dagli edifici ai documenti, dalle testimonianze scritte e iconografiche a quelle orali – offre la chiave per affrontare corrette politiche di tutela e valorizzazione. Il che vuol dire anche operare le inevitabili distinzioni tra ciò che occorre preservare integralmente (restauro per le architetture, conservazione per i documenti), di ciò che può essere oggetto di trasformazione (ristrutturazione, riordinamento), e di quanto va sacrificato (la demolizione di volumi incongrui, lo scarto di documentazione cartacea), senza tralasciare l’apporto oggi offerto alla salvaguardia e condivisione della memoria dai “surrogati digitali” e dalla loro diffusione attraverso il web. Facendo dialogare le diverse fonti sarà possibile non solo dare conto di complessi storicamente stratificati e dei significati culturali che in essi si sono inscritti, ma esprimere valutazioni critiche per gestirne progettualmente il destino.
Bibliografia
Lenza C., (2013), I complessi manicomiali in Italia. Problemi storiografici e prospettive di valorizzazione, in «Territorio».
Ajroldi C., Crippa M. A., Doti G., Guardamagna L., Lenza C., Neri M. L. (a cura di), (2013), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, Milano.
Lenza C., (2014) , Memoria e futuro. La ricerca universitaria per la conoscenza e la valorizzazione degli ex ospedali psichiatrici in Italia, in «Rassegna degli Archivi di Stato», n.s., X, pp. 9-28.
Biografia
Cettina Lenza dal 2001 è professore ordinario di Storia dell’Architettura presso la Seconda Università di Napoli dove è stata Preside della Facoltà di Architettura (2005-2009). Ha coordinato diverse convenzioni di ricerca nel settore dei beni culturali e, come responsabile scientifico, il PRIN 2008 I complessi manicomiali in Italia. Atlante del patrimonio storico-architettonico ai fini della conoscenza e della valorizzazione, i cui esiti sono stati raccolti nel volume I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento (Milano, Electa, 2013) e in un Portale (www.spazidellafollia.eu), inserito nell’ambito del SAN (Sistema Archivistico Nazionale) del MiBACT, in fase di implementazione.