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Peppe Dell'Acqua / Silvia D'Autilia
Abstract
Trieste è stata la città che ha fatto in Italia e nel mondo da apripista a un processo radicale di trasformazioni istituzionali e di altrettante profonde fratture culturali. Il lungo processo di apertura prima e di chiusura dopo del manicomio di San Giovanni ha mostrato che è possibile vivere negando la separazione netta tra follia e normalità. La restituzione del magnifico parco alla città e la simultanea penetrazione di una rete di servizi nel tessuto urbano non sono soltanto pratiche alternative all’irrinunciabilità delle istituzioni totali ma anche progetto che dovrà segnare il lavoro quotidiano sui muri che continuano a segnare inclusioni ed esclusioni.
Testo
“[…] Anche se, come è auspicabile, la medicina fosse in grado di estirpare le sofferenze e i drammi della follia, la città avrebbe ugualmente bisogno di ricordare, di fare propri alcuni aspetti che sono stati intimamente connessi ai comportamenti dei folli, dovrebbe cioè arricchirsi di una voce che, pur apparendo all’inizio dissonante, darebbe un significato diverso, più profondo a ciò che finora è stato definito la spazio della ragione.”[1]
Giovanni Michelucci non poteva non essere incuriosito da quanto stava accadendo nei primi anni ’80. Era cominciato, prima con entusiasmo, poi con lentezza, e più tardi con dimenticanza, l’abbandono degli ospedali psichiatrici. Architetture talvolta pregevoli, grandi parchi ai confini delle città si mostravano per la prima volta. In molti allora c’interrogammo su quante cose, e belle, si potevano realizzare. Michelucci con i suoi allievi della fondazione furono chiamati a discutere del manicomio di Como e poi del San Salvi a Firenze. Qualche anno dopo, ormai quasi centenario, venne a Trieste per “camminare” nell’esperienza basagliana, nel manicomio ormai chiuso. In un testo pubblicato assieme ai suoi allievi così riflette sulla sua passeggiata nel parco (e disegnando prende appunti). “Ai nostri occhi il complesso appare come una specie di ‘convitato di pietra’ che chiede ragioni dell’antica e della nuova storia, soprattutto della nuova, di cui in qualche modo ci considera responsabili, una storia che qui si esprime nella lunga attesa di qualcosa che tarda ad arrivare. Un convitato, aggiungeremmo, che chiede ragioni e dà pochissimi suggerimenti.”[2]
Le riflessioni e le interrogazioni che nascono da queste visite, rilette oggi, hanno costituito un’indicazione preziosissima per cercare di collocare in questo tempo “la fine del magnifico frenocomio di Trieste”.
Su come far vivere oggi il ricchissimo patrimonio architettonico di San Giovanni, come mantenere viva nella città la capacità di continuare a interrogarsi sulla natura, la cura e le istituzioni della malattia mentale, è quanto il testo che segue vuole indagare.
Il rapporto tra le istituzioni della psichiatria e l’architettura ha una storia lunga e ricca di suggestioni. Tra la seconda metà dell’800 e l’inizio del ‘900, lo smisurato ottimismo per le conquiste e le certezze della scienza, l’elettricità, la velocità, le nuove vie di comunicazione influenzano il mondo della medicina. Il progresso delle discipline mediche è segnato da un susseguirsi di scoperte che generano entusiasmo e aspettative. Fedeli al paradigma positivista i medici giungono a definizioni sempre più certe, meticolose e ossessive dell’organizzazione degli istituti e forniscono ai progettisti dei frenocomi indicazioni dettagliate e soprattutto scientificamente certe. I manicomi si diffondono in tutto il mondo occidentale e, sulle rotte dei domini coloniali, in tutti i paesi d’oltremare: una vera e propria pandemia.
La disposizione topografica dei reparti, dei servizi, dei giardini, dei camminamenti, delle mura di cinta, dei padiglioni di alta sorveglianza come di quelli per tranquilli o infermi, osservati in una pianta di un qualsiasi manicomio, come osservassimo l’ingrandimento del nucleo di una cellula, sembra costituire una mappa cromosomica. Il genoma dell’istituzione psichiatrica.
Gli architetti immaginano e disegnano stabilimenti sorprendenti per il rigore funzionale, la cura del dettaglio, la sperimentazione delle più avanzate tecniche costruttive. Riescono a fondare città che incarnano le promesse (e le false profezie) della psichiatria, separate e autarchiche: luoghi di cura e custodia, di protezione e di reclusione. Le cittadelle dell’utopia presto riveleranno il loro vero mandato: il controllo sociale e la separazione dei pazzi dai normali.
A Trieste, tra il XVI e il XIX secolo, la storia dell’istituzione della follia seguì a grandi linee quelle che erano state le vicende del resto dell’Europa.
Verso la fine dell’800 la crescita demografica della città e il conseguente aumento degli alienati convinse l’amministrazione ad avviare la costruzione del manicomio. Venne nominata una commissione di specialisti per verificare quale fosse la situazione manicomiale in Italia, in Austria e nel resto d’Europa: ne emerse che quasi ovunque prevaleva il tipo di manicomio a struttura unica, il cosiddetto ‘monoblocco’.
I criteri scelti per il manicomio di Trieste furono invece quelli considerati più all’avanguardia: struttura disseminata con padiglioni sparsi in un vasto e circoscritto comprensorio, porte aperte all’interno delle mura di cinta, spazi destinati al lavoro degli internati (ergoterapia). Il 4 novembre 1908, progettato e costruito dall’architetto Ludovico Braidotti[3], venne inaugurato il Magnifico Frenocomio.
Franco Basaglia venne chiamato alla direzione dell’ospedale psichiatrico nell’agosto 1971. Il modello della Comunità terapeutica, sviluppato a Gorizia nel decennio precedente, aveva assunto una risonanza nazionale dopo la pubblicazione de L'istituzione negata[4]. In quel libro si denunciava per la prima volta la condizione degli internati e si dichiarava che l'ospedale psichiatrico non poteva essere riformato: obbedendo a regole e leggi di ordine pubblico e controllo sociale, non poteva soddisfare obiettivi di assistenza e di cura, essendo esso stesso produttore di malattia.
A Trieste si dovrà procedere nel solco tracciato da Gorizia per andare oltre il manicomio: trasformarne l’organizzazione non per riformarla, ma per superarla attraverso la costruzione di una rete di servizi territoriali, alternativi e sostituivi delle molteplici funzioni ― di cura, ospitalità, protezione e assistenza ― appiattite e di fatto negate e stravolte nell'ospedale psichiatrico.
Al 31 dicembre 1971 nell’ospedale ci sono 1182 internati. Già dai primi mesi del '72 molta attenzione viene riservata al cambiamento organizzativo degli interni. Si mettono in discussione le rigide gerarchie professionali. Gli spazi vengono ristrutturati, organizzandoli in "comunità aperte". I ricoverati non sono più suddivisi in relazione al loro comportamento ma accolti e raggruppati in base alla loro provenienza territoriale. L’Ospedale viene suddiviso in cinque zone, con altrettante équipes, cui faranno riferimento cinque aree geografiche della città e della provincia. Comincia il “lavoro esterno” e si pongono le basi per quello che sarà di lì a poco lo sviluppo dei centri di salute mentale.
Spostavamo mobili. Gli spazi dei reparti, ormai aperti, benché ampi e luminosi, restituivano sempre miseria, vuoto, malinconia. L’ordine fermo che gli arredi contribuivano a garantire nei reparti chiusi con l’apertura e le frequentazioni più diverse era completamente saltato. I mobili ora erano solo testimoni dell’immobilità e dell’incuria per le persone che quell’ordine aveva mascherato. Grande era la pena nel sopportare la lentezza del cambiamento. Grandi e brucianti erano le speranze e le attese che, a questo punto, si sentivano così vicine, nell’aria. E allora spostavamo mobili. Per cambiare tutto e subito! Un giorno si cercava, utilizzando armadi messi di traverso, di dividere i grandi cameroni dormitori, con più di quaranta letti, in spazi più piccoli per favorire una qualche improbabile intimità. Altre volte erano i soggiorni e i tavoli per il pranzo a essere riordinati per garantire una maggiore autonomia delle persone nel prendere e consumare il pasto, per creare angoli di incontro il più possibile accoglienti e confidenziali.
L’uscita contrastata di Marco Cavallo[5] l’anno prima aveva denunciato le condizioni di vita reali di operatori e internati. Ristrutturazioni urgenti e nuovi arredi erano stati richiesti da Basaglia e finalmente approvati dal consiglio provinciale. Via quasi tutti i vecchi mobili di legno, arrivarono i mobili Bergamin. Mobili colorati e di design quasi sperimentale: tavoli a quattro e sei posti per le sale da pranzo di colore verde mela o marrone scurissimo, sedie con braccioli e poltrone basse dello stesso colore e una poltrona, molto buffa, tutta linee tonde, di un colore arancione intensissimo. E per le stanze dormitorio finalmente comodini, uno per letto, e armadietti con le chiavi.
E così continuavamo a spostare mobili. Ora con più foga e più speranza. Il manicomio bisognava abbandonarlo, lavorare fuori. Eppure eravamo ossessivamente concentrati nel lavoro dentro. Fu più chiaro a noi allora che il manicomio non potevamo abbandonarlo. Bisognava gestirlo e trasformarlo, trasformarlo e gestirlo al punto da renderlo inutile e superfluo.
Mentre si aprono le porte dei reparti, le terapie di shock e di tutti i sistemi di contenzione fisica sono stati già soppressi. Viene anche abolita la divisione tra uomini e donne, e preparato il terreno per la creazione di reparti misti. La vita comunitaria dell'ospedale si anima. Il bar, il centro sociale, il giornale ciclostilato, le feste aprono alle prime povere e impensabili possibilità. Le uscite in città si moltiplicano.
In primavera, era il 1974, era arrivato Ornette Coleman. Era la prima volta di un concerto in manicomio, di jazz, poi! Dopo molte incertezze il concerto si tenne nel campo sportivo del parco. Da allora e per i due anni successivi, San Giovanni ospitò musicisti, attori, cantanti, tutti attratti dalla singolarità dell’esperienza con l’intenzione di dare un contributo personale a quella strana “rivoluzione”.[6]
I concerti di San Giovanni avevano dato la possibilità a tantissimi giovani di conoscere dall’interno la realtà del manicomio, di attraversarne gli stereotipi culturali e agli internati di entrare in contatto immediato e ospitale con il mondo di fuori. I manifesti, i volantini, i giornali prodotti in ospedale testimoniavano l'urgenza dell’apertura. Il mondo di fuori entrava senza più filtri e barriere e generava di giorno in giorno il cambiamento radicale della scena.
A giugno del ’79, il giorno del solstizio, il parco accolse più di 5000 persone per la festa dei falò di San Giovanni/Svetoivanski kresovi, tradizione della comunità slovena che abita il rione: i fuochi della notte di mezza estate sembrarono bruciare i tempi dell’attesa. Quei fuochi dichiararono la fine del manicomio e tanti giovani ballarono e cantarono fino all’alba, forse non del tutto consapevoli di una storia che proprio da quella notte cominciava a cambiare.
La nascita della cooperativa e dei gruppi di convivenza costringeva a vedere le persone nel contratto sociale. Diventa evidente l’avvio di un cambiamento profondo e radicale. Torna utile richiamare l’estrema chiarezza di Michel Foucault, che conosceva l’esperienza di Basaglia, e in una conversazione intorno alle strategie del potere scrive: “Per semplificare, l’umanesimo consiste nel voler cambiare il sistema ideologico senza toccare l’istituzione; il riformismo nel cambiare l’istituzione, senza toccare il sistema ideologico; l’azione rivoluzionaria si definisce al contrario come una scossa simultanea della coscienza e dell’istituzione [...]” (Microfisica del potere, 1977).
I bisogni primari, mangiare, vestirsi, abitare, garantiti e allo stesso tempo negati dall’istituzione, prendono ora corpo nell’assoluta e singolare declinazione in relazione alle persone. Da una parte i bisogni primari, dall’altra i bisogni radicali: essere liberi, desiderare, scegliere, costruire una propria identità si manifestano in tutta la loro intrinseca urgenza. La sola attenzione ai bisogni primari avrebbe assunto un valore, un senso circoscritto, e ancora una volta riduttivo. A confermare nuovamente la piattezza della condizione di malato di mente.
I grandi cameroni del primo reparto vuoto si prestarono a ospitare un originale laboratorio di pittura, scultura, teatro, scrittura. Nacque "Marco Cavallo": un cavallo azzurro, di legno e cartapesta: il desiderio di libertà di tutti gli internati. L’ultima domenica di febbraio del '73 il cavallo aprì un varco nel muro. Un corteo di operatori e di pazienti, di artisti e di cittadini con in testa il cavallo invase le vie della città. Da allora il cavallo non si è più fermato, diventando la storia stessa dei movimenti di liberazione dalle istituzioni totali.
Il lavoro all’esterno dell’ospedale ― tra resistenze, successi, conflitti ― introduce i primi e più significativi cambiamenti nella pratica terapeutica e nell’assetto istituzionale diventando una formidabile scuola di formazione sul campo per infermieri e medici (e cittadini).
I primi Centri di Salute Mentale nascono tra il ’75 e il ’76, in anticipo rispetto alla legge 180/78 e riescono a svilupparsi malgrado la sperimentalità del progetto e i riferimenti legislativi ancora molto incerti.
Mentre l’organizzazione dell’ospedale psichiatrico è ancora attiva sta crescendo la rete dei servizi territoriali. Convivono due modelli organizzativi e culturali di assistenza, due modalità di spesa, due orientamenti per la gestione delle cure e degli operatori. Il rischio è la paralisi. Questo "passaggio cerniera" verrà superato con la scelta di investire e qualificare l'assistenza territoriale, la crescita e il rafforzamento progressivo dei Centri di Salute Mentale aperti 24 ore su 24 che diventeranno il cuore del sistema dei servizi.
Analogamente, a partire dalla fine degli anni ’90 e con interventi intensivi nel decennio successivo, l’azienda sanitaria avvia un progetto di sviluppo di servizi sanitari e sociosanitari nel territorio. I distretti sanitari, 4 come i Centri di salute mentale, vengono valorizzati e arricchiti di stimoli progettuali innovativi. L’ospedale dovrà qualificarsi per gli interventi di alta e altissima professionalità, ridurre il numero dei posti letto. Il territorio dovrà disporre di capacità a sostenere e ad accompagnare i cittadini nel loro rapporto con la malattia, la cura, la possibilità di vivere nel proprio ambiente.
A Trieste, in quegli anni, una nuova rete si affianca a quella dei servizi di salute mentale. Lo sviluppo del lavoro distrettuale porterà a strategie d’intervento su piccoli territori, su agglomerati di case popolari, su convergenze con altri istituti per progetti di rigenerazione urbana e di qualificazione dell’abitare. Si realizza così una sorta di estensione della cultura e delle pratiche della deistituzionalizzazione, non più solo nel campo della salute mentale, ma a tutta l’area della medicina.[7]
A partire dagli anni '70 il vasto complesso architettonico è stato via via restituito alla città. Oggi sono numerose le istituzioni e i servizi che hanno preso posto nei vecchi reparti: oltre a facoltà e uffici dell’Università di Trieste, situati in sei padiglioni, nel Comprensorio sono collocati anche il dipartimento delle dipendenze, il Dipartimento di Prevenzione e la sede del distretto Sanitario 4, con tutti i servizi in essi collocati.
Gli edifici tuttora utilizzati dal Dipartimento di Salute Mentale (Dsm) sono tre: oltre alla sede della Direzione, un padiglione ospita il Servizio Abilitazione e Residenze, la sede di Radio Fragola, una radio comunitaria, gli uffici di alcune delle cooperative sociali che collaborano ai programmi dipartimentali e Lister, un coloratissimo laboratorio di sartoria. Molto attivo e frequentato da una vasta clientela è lo storico bar - ristorante Il posto delle fragole. Il Dsm è Centro collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la ricerca e la formazione nel campo della salute mentale.
Molti soggetti e molte attività popolano stabilmente ormai il Comprensorio di San Giovanni, che continua a conservare una forte identità storica e a essere luogo di convivenze, di incontri, di scambi. Negli ultimi anni, accordi di programma tra gli enti (Comune, Provincia, Regione, Università, Azienda sanitaria) hanno sempre più qualificato l’area che, con la ristrutturazione del teatro, rende ancora più evidente la possibilità di un uso multifunzionale del parco.[8]
Il parco, che oggi viene chiamato Parco culturale di San Giovanni, si è arricchito di un pregiato e ricco roseto. Più di 5000 rose sono state messe a dimora. L’attenzione e la lungimiranza della Direzione aziendale di Franco Rotelli[9], già Direttore del Dipartimento di salute mentale, ha portato a termine questo ambizioso progetto.
Oggi il parco, oltre che essere abitato da servizi e istituzioni, e dunque dalla frequentazione di centinaia di persone al giorno, è divenuto meta di visite turistiche, vuoi per la sua storia, vuoi per la quasi unicità del suo roseto. L’autobus numero 12 lo attraversa in tutta la sua lunghezza.
La restituzione del parco alla fruizione di tutti i cittadini rappresenta di fatto un’azione di prevenzione e di salute mentale senza precedenti: un luogo che fu di morte testimonia la possibilità di riscatto. Non è come si potrebbe immaginare un luogo della memoria e men che meno di una “memoria monumentale”, è una quotidiana provocazione a immaginare il futuro, a gioire della concreta assenza di muri, di una reale condizione di convivenza. Quello che negli anni settanta era solo un sogno si è realizzato. Non a caso sono i giovani, e non solo gli studenti, a progettare e animare la vita e il futuro del parco.
“[…] nella mia posizione di architetto si affaccia ovviamente il problema angoscioso di dover tradurre in termini di spazio architettonico una linea di principio che pure approvo: che non esista cioè una separazione netta tra ragione e follia.”[10]
Il problema angoscioso che intravede Giovanni Michelucci agli inizi degli anni ’80 resta la questione sempre presente, malamente affrontata e spesso irrisolta del che fare dopo. Chiuso l’ospedale psichiatrico, quali saranno le pratiche, le tecniche, le organizzazioni della salute mentale? Quali saranno i luoghi della cura? E quali le possibilità di vita nella città delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale?
La riforma dell’assistenza psichiatrica e la chiusura dei manicomi avevano riportato in scena persone e storie, bisogni e relazioni, contesti e quotidianità e avevano decostruito di fatto i luoghi vecchi e nuovi della psichiatria. Così che un progetto di spazio architettonico per la salute mentale avrebbe potuto realizzarsi comprendendo il senso di questi passaggi e fondando sul lavoro critico degli psichiatri e degli architetti intorno ai saperi, alle tecniche, ai contesti in cui operano.
Il centro di salute mentale, la chiave di volta, l’avamposto del sistema comunitario di cura e di assistenza, doveva diventare, negando quotidianamente la sua pretesa natura medico-sanitaria, un luogo di transito, una piazza, un mercato. Un luogo intenzionato a favorire lo scambio, l’incontro, il riconoscimento reciproco. Ad accogliere con cura singolare. Un luogo che oggi, ancor più che allora, vuole vedersi abitato non (soltanto) dai “pazienti”. Un luogo che progetta, costruisce e cura un suo dentro senza mai perdere di vista il fuori. Anzi è l’attenzione ossessiva al fuori che pretende la cura del dentro.
Tra il dentro e il fuori si disegna una soglia che definisce lo spazio dell’incontro, dell’ascolto, dell’aiuto, della cura, in una sorta di contiguità tra la casa delle persone, le strade del rione, il centro di salute mentale. Progettare e costruire un centro di salute mentale significa rendere concreta, praticabile, abitabile la soglia.
Franco Rotelli pensa e definisce questo luogo come un mercato. “C’è un senso in voga: ‘il buon servizio è quello vuoto’. Credo che il buon manicomio sia quello vuoto, il buon servizio sia quello pieno. Quel che accade da Salonicco a Montreal è che si possono vedere (pessimi) manicomi pieni, e (splendidi) centri di terapia famigliare o di salute mentale vuoti. In un buon centro di salute mentale si affastellano, incrociano, moltiplicano le domande, come avviene nel mercato. È uno dei pochi posti, un buon mercato, dove il corpo sociale si riconosce, esiste intero ed è difficile per tutti al fascino del suo brulicare (del mercato e del corpo) dove ci si singolarizza attraverso la partecipazione.”[11]
La parola chiave sembra essere accoglienza. Un luogo accogliente non sottolinea l’estraneità, non condiziona, non obbliga a un uso rigido dello spazio, permette un singolare orientamento; non rimanda a una (sola) funzione, sanitaria per esempio. Come quando si arriva in un buon albergo che accoglie, si dispone, mette a proprio agio.
Una psichiatria tutta interna al paradigma medico definisce malattie, oggetti, comportamenti, rischi, pericolosità, inguaribilità: «lo psichiatra finisce per avere occhi ciechi e orecchi sordi». Sordità e cecità condizionano irrimediabilmente ogni cosa. Oggi immaginare e progettare luoghi diversi significa disarticolare completamente il paradigma della medicalizzazione, interrogarsi sulla natura della malattia, ascoltare le persone che ne fanno esperienza per scoprire alla fine che la cura non può accadere se non nelle relazioni, nei contesti, nella città.
“[…] Abbiamo iniziato a immaginare che i muri da abbattere fossero quelli della sanità più complessiva. I muri del rapporto tra ospedale e territorio, tra medici di medicina generale e medici specialisti, tra università, facoltà di medicina, ospedali, servizi territoriali. […] Ancora una volta si tratta di abbattere i muri valorizzando le risorse che ancora ci sono. […] Bisogni e diritti che oggi sono bisogni di singolarità, di essere resi protagonisti del proprio percorso di cura, di essere aiutati al proprio domicilio, di essere considerati come soggetti unici che però necessitano di relazioni. Oggi si tratta di arrivare a casa della gente con una sanità proattiva. E questo non vale [più] solo per la psichiatria, ma per tutte le patologie croniche e cronico-degenerative. Serve allora una sanità del territorio capace di mettere insieme le risorse. […] Riuscire a riconnettere le risorse della gente con le risorse delle istituzioni: è questa la grande terapia per ricostruire la città, la città che cura, una città capace di trovare la risposta ai nostri bisogni collettivi. Ma questa città può rispondere ai bisogni collettivi solo se le sue forze non sono frammentate, se le tribù non sono più tribù, se si buttano giù i muri tra i vari saperi, tra le varie discipline, tra i vari poteri, tra i vari ambiti.”[12]
Il centro di salute mentale fin dalla sua prima apparizione, a Trieste verso la metà degli anni ’70, ha reso possibile la presenza del malato nel tessuto sociale. Una sorta di riconciliazione: un’interminabile e controversa ricucitura. In realtà non di una ri/cucitura si tratta ma di un’esperienza del tutto inedita e singolare. Un’esperienza che non ha storia ed è ricca di incognite e di ambiguità. Cadono i muri del manicomio e la follia dopo secoli ritorna nelle strade.
Il tessuto sociale si dispone a incorporare il luogo della sofferenza e contemporaneamente produce anticorpi per isolare, circoscrivere, rigettare così che i processi di integrazione sono controversi e discontinui, mai lineari. Un tessuto che si scuce e si ricuce ogni giorno. Nel quotidiano, nei conflitti, nella frequentazione dei problemi e dei bisogni si scoprono rapporti possibili e praticabili.
Un luogo per la cura e l’accoglienza non può che vivere in un contesto urbano. Che un luogo dove vanno le persone a far sentire il male della mente sia veramente in mezzo alla città non è affatto scontato. Bisogna riconoscere che quella presenza evidenzia una provocazione, una spina irritativa, un segno di diversità non facile da accettare. Oggi a Trieste, per esempio, si può dire che il tessuto sociale ha fatto proprio il centro di salute mentale ed è maturata la capacità critica dei cittadini, tanto che si fa fatica a sentire un cittadino triestino che chiami il centro di salute mentale “luogo della sofferenza psichica, dei malati di mente”, semmai in maniera più approssimativa (e bonaria) dirà “là dei matti” e attraverserà quel luogo con disinvoltura senza più paura, senza diffidenza. Potrà accadere che incontri lo sguardo dell’altro che sta male senza distanze e pregiudiziali differenze.
Tornando a Giovanni Michelucci: “[…]Un’architettura che riuscisse a dare un senso liberatorio alla follia porterebbe di fatto un contributo indispensabile ai problemi della città, nel suo insieme, e, soprattutto, una garanzia alle famiglie di non essere più chiusi nel loro dramma; l’assistenza, in questo caso, significherebbe la rottura delle pareti domestiche: un evento forse più ricco di ipotesi progettuali di ciò che ha rappresentato la graduale chiusura dei manicomi.”[13]
Bibliografia/ References
A.A.V.V. (2008), Il comprensorio di San Giovanni 1908-2008. Cento anni di storia, pro-vincia di Trieste.
Basaglia F. (a cura di), (1968) L’istituzione negata, Einaudi, Torino, ried. Baldini & Ca-stoldi, 1998, 2010.
C. Ernè, (2008), Basaglia a Trieste. Cronaca del cambiamento, raccolta fotografica, Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, Roma.
C. Ernè, (2005), Cronache del manicomio negato. Gli anni di Franco Basaglia a Trieste, emme&emme, Trieste.
Dell’Acqua P. ,(2014), Non ho l’arma che uccide il leone, Alpha Beta edizioni, Merano.
Michelucci G., (1984) in La Nuova Città, IV serie, n°3.
Michelucci G., De Masi e B. Sacchi, (1986) Il convitato di pietra, in “e questo giornale”, n.1, dicembre.
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Scabia G., (2011), Marco Cavallo, Alpha Beta edizioni, Merano, 2011.
Turco M. et al., (2011), C’era una volta la città dei matti. Un film di Marco Turco dal soggetto alla sceneggiatura, Alpha Beta edizioni (con dvd), Merano.
Zavoli S., (1968), I giardini di Abele, Rai.
Biografie
Peppe Dell'Acqua, già Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, dirige dal 2011 la Collana 180 - Archivio critico della salute mentale, è tra i fondatori e animatori del Forum salute mentale e nel 2014 ha ricevuto il Premio Nonino per il suo impegno nelle politiche sociali della salute mentale.
Silvia D'Autilia è Dottore di Ricerca in Filosofia presso l'Università degli Studi Trieste, collabora con la Collana 180 - Archivio critico della salute mentale e si occupa dei nodi tra psichiatria e soggetto, follia e potere.
[1] G. Michelucci, in La Nuova Città, IV serie, n°3, 1984.
[2] G. Michelucci, G. De Masi e B. Sacchi, Il convitato di pietra, in “e questo giornale”, n.1, dicembre 1986, p.14.
[3] Lodovico Braidotti nasce a Gorizia nel 1865. Nel 1887 si laurea in architettura a Vienna e due anni più tardi, nel 1889, si trasferisce a Trieste. Nel 1893 inizia a insegnare presso la Kaiserlich Königliche Staats Gewerbe Schule (l'attuale Istituto Tecnico Industriale Statale "Alessandro Volta"). Nel 1903 viene designato quale progettista del Manicomio di Trieste e nel 1906 si dedica alla riqualificazione di alcuni rioni progettando il primo nucleo di case popolari. Muore a Trieste nel 1939.
[4] L’istituzione negata, a cura di F. Basaglia, Einaudi, Torino, 1968. Ried. Baldini & Castoldi, 1998 e 2010.
[5] Cfr. Scabia, G. (2011), Marco Cavallo, Alpha Beta edizioni, Merano, 2011.
[6] Oltre a gruppi, musicisti e attori triestini, si avvicenderano a San Giovanni: Gino Paoli, Giorgio Gaslini, Dario Fo e Franca Rame, Franco Battiato, gli Area, tutti gli artisti del programma del Folk Studio di Roma. Il parco dell’ospedale e il suo teatrino venne restituito a una funzione nuova e allusiva.
[7] Cfr. Rotelli, F. (2016), Il sogno della città che cura (intervista di R. Camerlenghi), in Animazione sociale, n.299, 3/2016.
[8] Senza soluzione di continuità, dai primi concerti in manicomio, il parco ospita ora più ora meno, eventi culturali, rassegne teatrali e cinematografiche ed è sede di convegni, seminari e percorsi formativi. I falò di San Giovanni sono diventati una ricorrenza fissa nella vita del parco. Negli ultimi anni, associazioni e cooperative sociali, organizzano le serate estive nel parco. “Lunatico Festival” è il nome della rassegna che vede una crescente frequentazione di cittadini. Un raduno, “Impazzire si può” con cadenza annuale vede il parco animato da centinaia di persone provenienti da tutte le regioni italiane che discutono della loro personale esperienza nella malattia mentale.
[9] L’istituzione inventata/Almanacco, a cura di Franco Rotelli (Alpha Beta edizioni, Merano, 2015 e ried. 2016) dà conto della chiusura del manicomio prima e del progetto di riuso dopo, fino alla realizzazione del parco e del grande roseto.
[10] Michelucci, in La Nuova Città, op. cit.
[11] L’istituzione inventata, a cura di F. Rotelli, op. cit. , p.139.
[12] F. Rotelli, Il sogno della città che cura, op. cit. , p.10.
[13] G. Michelucci, La Nuova Città, op. cit.