Abstract
In seguito ai mutamenti geopolitici internazionali posteriori alla caduta del muro di Berlino e al radicale riassetto delle forze armate, consistenti quantità di territorio, ubicate sia in ambito urbano, sia periferico, sono state liberate dalle funzioni militari a partire dalla fine degli anni Ottanta.
Sebbene i vuoti militari dismessi possano teoricamente fornire l’occasione per definire nuove regole per la crescita urbana e poter operare efficacemente per la riorganizzazione del territorio, in Italia si riscontrano diversi fattori che stanno contribuendo al degrado e all’obsolescenza di queste strutture.
Ancora ad oggi al fenomeno delle chiusure non sta seguendo la riconversione ad usi civili e non esiste una riflessione adeguata sulle difficoltà che le amministrazioni locali si sono trovate ad affrontare nella costruzione di processi virtuosi di riutilizzo e re-introduzione nel ciclo economico dei patrimoni ex militari. Si tratta di una tipologia di “vuoto urbano” relativamente poco studiata, da ripensare in un’ottica di rigenerazione e potenziale fattore di sviluppo e competitività.
1. La produzione di un nuovo tipo di “vuoto urbano”: la dismissione delle aree militari
In molte città italiane, gli immobili militari abbandonati non sono i soli spazi da rifunzionalizzare: ex scali ferroviari, fabbriche, magazzini, ospedali, mercati generali, macelli e impianti energetici rappresentano altre tipologie di zone dismesse. Dagli anni Novanta il riutilizzo, anche in chiave “spettacolare” delle ex aree industriali è stato uno dei principali motori del cambiamento dell’assetto di molte città tramite l’attuazione di politiche urbane di “festivalizzazione” della città (Venturi, 1994), contribuendo inoltre a definire un nuovo tipo di architettura, l’iconic landmark building, che si è rapidamente espanso in tutto il mondo (Jenks, 2005). Per quanto riguarda i patrimoni ex militari si riscontra una comprovata difficoltà nel costruire e attuare processi di riconversione e re-introduzione nel ciclo economico e non esiste ad oggi una riflessione adeguata sulle difficoltà che le amministrazioni locali si sono trovate ad affrontare nella costruzione di percorsi virtuosi di riutilizzo. Si tratta di una tipologia di “vuoto urbano” relativamente poco studiata, anche se non mancano le potenzialità in un’ottica di rigenerazione e promozione di progetti di sviluppo sostenibile (Ponzini, Vani, 2012; Bagaeen, Clark, 2016).
Mentre nei piani regolatori di prima e seconda generazione le aree militari venivano classificate nella categoria “F”, come “aree destinate ad attrezzature ed impianti di carattere speciale (impianti militari, caserme, ecc.)”[2], nei piani di nuova generazione sono quasi sempre identificate come “ambiti di trasformazione” per offrire un’ampia e diversificata gamma di possibili opzioni di valorizzazione valutabili sia in termini di potenzialità edificatoria che di recupero dell’esistente. In particolare le caserme occupano spesso spazi centrali e simbolici delle aree urbane, realizzate prevalentemente nel periodo compreso tra l’unificazione dello Stato italiano e gli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, la cui localizzazione è sempre stata legata alla prossimità rispetto a scali ferroviari e alle grandi arterie di comunicazione (Cappelletti, Turri, Zamperini, 2008). Gli insediamenti militari, oltre a rappresentare dei sedimenti storico-identitari di particolare rilevanza nei sistemi urbani in cui si inseriscono, presentano al loro interno manufatti considerati come architetture “di pregio”, quindi sottoposti a vincoli di tutela e di conservazione da parte delle Soprintendenze.
Sotto il profilo architettonico, agli edifici ex religiosi e conventuali riconvertiti a caserme sono state affiancate nuove strutture realizzate secondo modelli codificati e ripetuti in vari contesti territoriali e basati sull’esperienza europea nel campo dei sistemi difensivi. Si tratta di architetture dove, con più evidenza, si sono registrate trasformazioni tecnologiche e organizzative della produzione edilizia, per esempio per l’introduzione delle strutture in cemento armato. Inoltre presentano linguaggi e stili architettonici spesso innovativi e caratterizzanti i vari periodi (spesso grazie a progettisti e ingegneri molto competenti tecnicamente e preparati culturalmente). Si tratta di edifici riconoscibili, dotati di identità, portatori di una storia comune, testimonianze architettoniche della cultura tecnica e della memoria dei luoghi: soprattutto, edifici capaci di superare il tempo (Turri, 2010).
Così come le aree industriali abbandonate, il paesaggio militare della dismissione costituisce un elemento di lacerazione della trama urbana delle città italiane, tuttavia, ancor più dei patrimoni industriali abbandonati, le caratteristiche intrinseche di questa tipologia di vuoto urbano rendono piuttosto difficile il loro riutilizzo. Ne sono esempio il mancato rapporto tra un sito militare e il contesto di inserimento (il cui confine è il muro, inteso come “limite invalicabile”), i problemi di inquinamento del suolo e sottosuolo, l’atteggiamento molto conservativo delle Sovrintendenze per i Beni Culturali sugli edifici sottoposti a vincoli (che spesso non lasciano né margini di azione, né di creatività ai progetti di riuso) e la mancanza di informazioni relative allo stato di manutenzione delle aree (per il cosiddetto “segreto militare”, che fino a pochissimi anni fa ne ha implicato l’estromissione dalle carte topografiche e dalle fotografie aeree e satellitari). Oggi, dietro le mura invalicabili degli ex spazi militari si nascondono luoghi interdetti, nei quali molto spesso la natura ha progressivamente preso il sopravvento sulle installazioni preesistenti. Si tratta di una vera “spettacolarizzazione” dell’abbandono (figura 1, 2 e 3).
Come se non bastasse, a questi elementi se ne aggiungono altri estrinseci, che contribuiscono al perdurare dello stato di abbandono ed il conseguente degrado e decadimento delle strutture e degli spazi aperti. In primo luogo, si riscontra un fenomeno tipico italiano di spettacolarizzazione a livello normativo e istituzionale.
Alle disposizioni legislative eterogenee, variabili e frammentate nel corso del tempo, si sovrappongono ruoli e competenze di diversi soggetti istituzionali statali e locali (Gastaldi, Camerin, 2012). A partire dal primo disegno di legge del 1989 presentato in Senato su “Ammodernamento e redistribuzione territoriale delle caserme e delle infrastrutture militari mediante un finanziamento decennale straordinario e attraverso permute ed alienazioni di immobili non più necessari alla difesa”, si registra una stagione normativa impetuosa in materia di dismissione di immobili militari abbandonati, con scarsi risultati in termini di progetti realizzati. In particolare, in un contesto in cui prevalgono gli obiettivi di finanza pubblica e di riduzione del deficit statale, al fine di generare nuove entrate per l’Erario, è stata promossa una linea d’azione incentrata prevalentemente su operazioni di privatizzazione del patrimonio militare [3] individuato da appositi decreti da parte del Ministero della Difesa [4], rivelatesi un insuccesso.
2. Le inerzie e le opportunità nel processo di riuso delle aree militari dismesse
Dalla seconda metà degli anni Duemila si denota un cambio di approccio nell’impostazione dei processi di dismissione che ha messo in primo piano le operazioni di valorizzazione degli immobili alla quale far seguire un’eventuale alienazione [5]. Tuttavia, la crisi del settore delle costruzioni e del mercato immobiliare, la continua litigiosità tra i diversi livelli amministrativi, la persistente carenza di risorse pubbliche statali, i vincoli imposti dal Patto di Stabilità per gli enti territoriali e una nuova ondata legislativa tra 2008 e 2013 in materia di valorizzazione e dismissione militare hanno rimescolato le carte in tavola, rendendo ancor più complicato il quadro entro cui agire e frenando le operazioni impostate in precedenza.
Dunque ad oggi si riscontrano molti casi in cui le città, nonostante l’ampia presenza di insediamenti dell’esercito da tempo abbandonati (tra cui caserme, ospedali e tribunali militari, alloggi per l’esercito, depositi, polveriere, poligoni di tiro), non riescono a utilizzare questi beni dismessi o in corso di dismissione come occasione di rigenerazione e di sviluppo urbano e territoriale: gli impatti derivano, in negativo, dalle occasioni perdute. La spettacolarizzazione della questione risiede anche nei dibattiti politico-amministrativi susseguitisi negli ultimi 25 anni, spesso utopistici e troppo ottimistici, imbastiti nei tavoli decisionali in sede sia statale sia locale. Nei casi (non troppo frequenti) in cui ci si trovi nelle condizioni di base per poter decidere sulla nuova destinazione d’uso di un bene, il proprietario (Stato, sotto forma dell’Agenzia del demanio, amministrazioni locali o fondi di investimento immobiliare) ricorre al “concorso di idee” talvolta a carattere internazionale [6] come metodo per incamerare e riscuotere “consigli” su cosa fare diventare le ex aree militari, talvolta senza che esista una strategia urbana chiara a livello locale.
In un contesto caratterizzato dalla mancanza di un quadro legislativo nazionale stabile sul medio-lungo periodo e dalla scarsità di risorse economiche da investire nel settore immobiliario da parte di soggetti pubblici e privati, la restituzione di grandi aree militari ad usi civili e la loro riprogettazione come tasselli di una più complessiva strategia urbana costituisce una delle questioni più rilevanti e attuali per il governo delle città italiane. Le caserme in genere erano sedi di attività che generavano un indotto sull’economia locale, ma la loro chiusura o ricollocazione ha prodotto effetti negativi anche sul piano occupazionale, perché spesso non sono state sostituite da altre destinazioni in grado di fornire redditi e processi di sviluppo. La reinterpretazione degli spazi militari interdetti dovrebbe focalizzare l’attenzione sia sul concetto di spazio-identità, inteso come patrimonio della memoria collettiva e senso di appartenenza alla comunità, sia sulla definizione di nuove funzioni e destinazioni d’uso in cui spazi pubblici e investimenti privati trovino un momento di sintesi e di reciproca convenienza e coesistenza. Da un lato si denota come l’“immobilità” in termini di riconversione militare non abbia portato alla cosiddetta “urbanalizzazione” del paesaggio urbano e periurbano (Muñoz, 2008), quindi non ha generato fenomeni di azzeramento delle identità locali, trasformazione di quartieri in luoghi di attrazione artificiali e nuovi conflitti, squilibri e tensioni. Dall’altro lato invece, si riscontra la mancata restituzione di grandi aree militari alla città pubblica sotto forma di nuove attrezzature ad uso comune.
Mediante i procedimenti introdotti a partire dal 2007 e modificati nel corso degli ultimi anni (PUVaT, federalismo demaniale [7] e protocolli d’intesa) e i progetti “inediti” del biennio 2014-2015 (art. 26 del decreto “Sblocca Italia” per progetti di recupero a fini di edilizia residenziale pubblica e iniziative di autorecupero [8] e Federal building per la razionalizzazione ed efficientamento degli uffici pubblici [9]), si dovrebbero intercettare sia i fabbisogni delle società locali, sia le idee e i suggerimenti dei possibili soggetti pubblici, ma anche privati, interessati alla definizione di un recupero concretamente fattibile. I progetti urbani di riuso dei vuoti ex militari dovrebbero muoversi in tali direzioni al fine di innescare ricadute positive sia per gli enti che li promuovono sia, soprattutto, per l’intera collettività, stimolata a diventare protagonista attiva di tale processo.
Università IUAV di Venezia. Autori: Francesco Gastaldi e Federico Camerin, 2017, FONDO SOCIALE EUROPEO 2014-2020. Sviluppo del Potenziale Umano nella Ricerca e nell’Innovazione per una Crescita Intelligente - Asse Occupabilità D.G.R. n. 2121 del 30/12/2015 cod. progetto 2122-11-2121-2015. Titolo: La riconversione di aree militari dismesse in Veneto: nuove opportunità per il settore delle costruzioni e la rigenerazione urbana. Copyright: Regione del
Veneto.
Note
[1] Il lavoro è stato impostato e svolto in collaborazione dai due autori, in tale ambito è comunque attribuibile a Francesco Gastaldi il paragrafi 1, mentre a Federico Camerin il paragrafo 2.
[2] D.M. n. 1444/1968, art. 2, comma 1 lettera F.
[3] Tra le varie iniziative occorse tra anni novanta e primi anni duemila si segnala l’istituzione della società “Immobiliare Italia spa” con la Legge 35/1992; l’introduzione dei fondi immobiliari pubblici secondo la L. 86/1994; la costituzione della società “Patrimonio dello Stato spa” con il D.L. 63/2002 e le operazioni di cartolarizzazione promosse dal D.L. 351/2001 e denominate rispettivamente SCIP 1 e SCIP 2.
[4] Un primo elenco è stato fornito dal D.P.C.M 11 agosto 1997, recante la “Individuazione di beni immobili nella disponibilità del Ministero della difesa da inserire nel programma di dismissioni previsto dall'articolo 3, comma 112, della legge 23 dicembre 1996, n. 662” che contiene un elenco di 302 beni immobili potenzialmente dismettibili. Successivamente, in seguito alle aggiornate valutazioni sulle esigenze strutturali e infrastrutturali delle Forze armate l’elenco è stato modificato più volte, con inserimenti/espunzioni di beni ritenuti dismissibili o no da parte del medesimo Dicastero.
[5] Nel 2007, in attuazione alla legge n. 296 del 27 dicembre 2006 (legge finanziaria 2007) è stato promosso il programma “Valore Paese”, che ricomprende i Programmi Unitari di Valorizzazione, (PUV, dal 2012 PUVaT). L’ipotesi di base prevedeva che, una volta costituita una massa critica sufficiente di immobili e condivisa una prospettiva di intervento urbano, i PUVaT potessero rappresentare l’elemento di innesco di una iniziativa privata in grado di finanziare la riconversione degli immobili e che garantisse allo Stato il pagamento del canone di concessione. A partire dal 2008 sono stati stipulati protocolli d’intesa tra Ministero delle difesa e le amministrazioni locali delle principali città italiane (Milano, Piacenza, Roma, Torino tra le altre) per realizzare operazioni di razionalizzazione, permuta e valorizzazione cui far seguito accordi di programma in variante agli strumenti di pianificazione urbanistica. Infine con il D.L. 85/2010 è stato introdotto il federalismo demaniale, riguardante il “fenomeno devolutivo, accessorio al federalismo fiscale, che consiste nel trasferimento agli enti territoriali di beni di proprietà dello Stato”, tra cui quelli non più utili alle finalità istituzionali della Difesa.
[6] Si vedano i recenti casi di concorsi di progettazione urbanistica ed architettonica a carattere internazionale già conclusi nel 2015 per le caserme Montelungo a Bergamo (http://www.progettomontelungo.it/) e Guido Reni a Roma (http://www.urbanistica.comune.roma.it/aree-militari/quart-citta-scienza-concorso.html). Nel 2016 si segnalano a Firenze procedura concorsuale per la definizione della normativa urbanistica del compendio dell’ex ospedale militare San Gallo (http://www.progettosangallo.it/) ed il concorso internazionale di idee per la realizzazione di un nuovo insediamento nell’area dell’ex caserma Lupi (http://concorsolupiditoscana.comune.fi.it/it).
[7] Bloccatosi nel 2011 e ripreso nel 2013 dall’articolo 56 bis del cosiddetto “decreto fare” (D.L. 69/2013).
[8] Contenuto nella Legge 11 novembre 2014, n. 164 di conversione del D.L. 133/2014 recante “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive”.
[9] Iniziativa promossa ai sensi dell’articolo 24 del D.L. 66/2014 sulla Spending review.
Bagaeen S., Clark C. (2016), Sustainable Regeneration of Former Military Sites. Routledge, Londra e New York.
Cappelletti V., Turri F., Zamperini E.
(2008), "Il recupero delle caserme: tutela
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aree militari dismesse: ‘occasioni’ per le città italiane, fra ritardi e incertezze”.
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Gustavo Gili, Barcelona.
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Venturi M. (edited by) (1994), Grandi eventi. La festivalizzazione della
politica urbana. Il Cardo, Venezia.
Francesco Gastaldi, (1969). Professore associato di urbanistica presso l’Università Iuav di Venezia. È stato ricercatore presso la stessa università nel periodo 2007-2014. Laureato in architettura presso l’Università degli Studi di Genova, ha conseguito il dottorato di ricerca in pianificazione territoriale e sviluppo locale presso il Politecnico di Torino (2001). Ha svolto attività di assegnista di ricerca (2004-2007) presso il Dipartimento Polis dell’Università degli Studi di Genova e attività di docente a contratto di corsi ufficiali presso l’Università di Parma e il Politecnico di Torino. Ha tenuto lezioni in master e corsi di dottorato.
Federico Camerin, dottore in Pianificazione territoriale, ha conseguito il diploma di laurea magistrale in Pianificazione e politiche per la città, il territorio e l’ambiente + European Master in “Planning and policies for city, environment and landscape” presso il DiPPAC, Dipartimento di Progettazione e Pianificazione in Ambienti Complessi, dell’Università IUAV di Venezia. Attualmente è Early Stage Researcher nell'ambito del programma europeo European Joint Doctorate "urbanHIST" presso l'Instituto Universitario de Urbanística de la ETSA de la UVA de Valladolid (Spagna).