Abstract
Il “paesaggio della dismissione” è oggi una risorsa importante per le strategie di rigenerazione fondate sulla pratica del costruire il costruito. La complessità dell’azione di recupero del patrimonio dismesso si traduce, spesso, nell’immagine spettacolare dei risultati ottenuti, come nel caso della nuova Fondazione Prada di Rem Koolhaas. Operazioni, queste, che non possono essere assunte come best-practices in quanto sporadiche e unicamente rilegate a contesti in cui persistono forti interessi privati in grado di garantire “cast” stellari per “colossal architettonici”.
Lo show-off della Fondazione Prada all’interno del palinsesto periferico sud di Milano, rappresenta uno dei più grandi spettacoli italiani incentrati sul recupero delle aree dismesse. Capitali privati, archistar mondiali e nomi del jet-set artistico e cinematografico, hanno contribuito alla realizzazione di un “colossal architettonico” il cui cast è così composto:
committente Famiglia Prada
architetto Rem Koolhaas
designer del Bar Luce Wes Anderson
attori-artisti, permanenti e temporanei Lucio Fontana, Damien Hirst, Alberto Burri, Robert Gober e Louise Bourgeois e tanti altri.
Un progetto raffinato, conservatore ma al contempo coraggioso che, attraverso il ricercato uso dei materiali e l’inserimento di nuovi volumi plastici emergenti, riqualifica una ex distilleria trasformandola in un pezzo d’autore degno di Corso Como.
Il messaggio che ne deriva è contenuto nelle parole dell’autore: “La torre d’oro vuole essere un segnale, un modo per far capire la ricchezza di questa parte di città, un ulteriore invito al confronto. Perché, ne son convinto, l’arte, l’architettura e la cultura in generale, possono solo trovare beneficio dal confronto. (…) ho pensato che l’oro, il simbolo più evidente della ricchezza, potesse essere lo strumento più efficace: è bastato solo utilizzarlo per dar valore a quello che c’era prima, per trasformare quello che era povero in ricco.”
Tale obiettivo sposa, in parte ma non nell’essenza, la visione pasoliniana di periferia, secondo cui la mano dell’uomo ne ha generato la bruttezza senza validi e inoppugnabili motivi, condizionandone gli stili di vita interni. Koolhaas, col suo gesto, prende le distanze dal pensiero discriminante che vede le periferie come luoghi di serie b in quanto conurbazioni della città consolidata, cercando di perequarle, forse non troppo nel rispetto del proprio ruolo urbano, attraverso la bellezza. Fino a qui, si direbbe nobile intento; lo stesso Renzo Piano nella sua “politica” di “rammendo” delle periferie, parte da tale presupposto.
Però, altre operazioni di trasformazione urbana sono partite da concezioni simili; pensiamo al Maxxi di Roma progettato da Zaha Hadid inaugurato nel 2009 come volano di una strategia rigenerativa più ampia, ancora oggi inattuata. La forma scultorea dell’oggetto architettonico, voluta fortemente non da capitali privati, è riconducibile all’ennesima “cattedrale nel deserto”, fenomeno che continua imperterrito a causa di una mancata regia pubblica su di un vero processo rigenerativo in cui l’architettura non può essere considerata “sola-forma”, ben sì, deve rappresentare l’hardware del dispositivo urbano. Da tali mosse, derivano spesso condensatori sociali troppo dipendenti dalla vita del privato investitore, da poteri forti, dalla salute del pubblico settore, dalle mode, dagli stili di vita in continua evoluzione, dalle passioni momentanee, dalla qualità del tempo libero, dalla classe sociale di appartenenza del fruitore. Tutti fattori secondari rispetto alla vera determinante del successo di una strategia rigenerativa: il tessuto sociale prevalente formato dall’abitante. Caso contrario è la grande rivoluzione urbana che sta attraversando la città di Bordeaux. Un cantiere a cielo aperto, segnale di un rinascimento culturale a partire proprio dalle periferie, dai docks, dalle aree portuali che da sempre caratterizzano la città stessa come porta francese sull’Atlantico. La Citè du Vin, in questo caso, è equiparabile al Maxxi o alla Fondazione Prada. La forma spettacolare del contenitore assomigliante ad un gigantesco decanter, come nella miglior tradizione pop, veicola l’immagine identitaria indelebile di una cultura popolare indissolubilmente legata al vino, sin dai tempi del trasporto fluviale su gabarre delle botti in uscita dal paese. Il “decanter”, però, inaugura in parallelo (o leggermente prima, probabilmente in quanto generatore di surplus e oneri dirottabili su altre azioni) ad una integrale riqualificazione del tessuto edilizio urbano che, a macchia d’olio, si protrae sino al nucleo antico compreso. Nello specifico, il decanter diventa un attrattore “turistico” all’interno di un ambito urbano in cui il confort abitativo delle persone che lo vivono è il primissimo obiettivo. La “papera parlante” consolida esclusivamente un flusso di tipo extraurbano/metropolitano/territoriale.
I casi citati sono tutti inseriti in contesti metropolitani-globalizzati in cui la spettacolarizzazione della dismissione è enfatizzata dall’attenzione mediatico-politica aleggiante sui centri urbani dell’interesse diffuso e che, invece, scarseggia nel “sottobosco” dei centri di provincia. Si delinea la figura di un nuovo architetto. Dopo l’architetto-artigiano e l’architetto-condotto, oggi si sente la necessità di un “architetto-regista” in grado di immaginare una trama complessa da svolgersi sul set periferico, sostenuta da serie volontà politiche e strumenti normativi idonei. Un profilo meno hollywoodiano del Koolhaas citato e più neo-realista, per rispondere a necessità di contesti in cui mancano risorse utili alla spettacolarizzazione del processo rigenerativo.
L’oggetto architettonico della Fondazione Prada rappresenta forse, dall’alto della sua torre dorata da cui domina la periferia, un esempio in cui l’architetto-regista ha immaginato una trama non per tutti, bensì per quel mondo glamour che si respira vivendola. Se l’involucro esterno instaura un dialogo con l’identità circostante, gli interni ne fanno da contrappunto. La volontà di astrarre l’utente selezionato dalle condizioni al contorno attraverso anticamere spaziali interne ed esterne, partendo da un atmosfera della Milano “liberty” per poi passare a quella della boutique, suggeriscono la volontà consapevole dell’architetto e forse anche del committente, di negare la natura periferica al fine di proiettare il fruitore in una dimensione quasi onirica, in cui automi parlanti profetizzano un futuro distopico. La periferia non necessita solo di piazze elitarie ma di piazze comunitarie in cui l’integrazione tra le parti avvenga nel rispetto del proprio ruolo urbano. Questa è la missione dell’architetto-regista: attraverso l’eterogeneità del “cast”, immaginare competentemente strategie di rigenerazione che non necessitino di “colossal architettonici” per divenire “classici” urbani di riferimento, all’interno di uno stato dell’arte che non permette produzioni stellari ma che, invece, concede sempre più spazio ad azioni spontanee, attività di autocostruzione e autogestione svolte da attori-produttori anche attraverso la chiave dell’effimero.
Bibliografia
Martino P., Verbaro C. (2016) Pasolini e le periferie del mondo. Ets, Pisa.
Prandi E., Amistadi L. (2011) European city architecure. Project, Structure, Image. FAedizioni, Parma.
Strina P. (2016) "Il potenziale delle aree dismesse. Il caso della ex Bormioli a Parma" in Urbanistica Informazione, 269-270, 92-96.
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Fuksas M. (2007) La civiltà dei Superluoghi. Damiani, Bologna.
Sitografia
http://www.bordeaux-metropole.fr
http://lafab-bm.fr/
Paolo Strina, architetto, è dottore di ricerca in Composizione architettonica presso la Scuola di Ingegneria e Architettura dell’Università degli Studi di Parma. Fa parte del gruppo di ricerca UAL, Urban and Architectural Laboratory della stessa università. Dal 2015 ha fondato lo studio di architettura PSAtelier, con cui svolge la libera professione. Nel 2017 ha co-fondato l'associazione culturale InHabit, laboratorio permanente di riflessione sull'abitare contemporaneo.