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Carlo Quintelli
Il progetto di Bakema e van den Broek per il centro di Tel Aviv-Giaffa pubblicato sulla copertina di “Casabella-continuità” n. 293, novembre 1964.
Nella storia della città occidentale il rapporto tra architettura e crisi appare come una dialettica costante sin forse a mettere in dubbio lo stesso presupposto di ciclicità della crisi stessa. Oltretutto, poiché non è possibile riscontrare un termine univoco, speculare e contrario a quello di “crisi”, dal punto di vista degli architetti la crisi potrebbe rispecchiarsi nel sentimento permanente di critica per lo stato delle cose - ad intensità e qualità variabile – secondo una percezione non del tutto generalizzabile. L’intenzione trasformativa intrinseca al progetto di architettura non può d’altra parte che recepire e proiettare propositivamente l’istanza critica attraverso la spinta di “una crisi” da cui scaturiscono esigenze, aspettative, speranze ma soprattutto visioni del futuro, appunto “progetti”.
Contestualizzando il ragionamento all’oggi e in particolare all’Italia, il progetto di architettura dovrebbe innanzitutto sottrarsi alla definizione di una crisi che viene identificata, sostanzialmente, con il blocco del settore produttivo edilizio. In realtà, nel recente passato, la città dell’architettura ha vissuto la sua crisi più profonda e reale proprio quando la città dell’edilizia prosperava attraverso l’espansione continua, la conurbazione, lo sprawl ed in generale quelle leve opportunistiche che da sempre utilizzano i processi insediativi quali fattori di mera rendita. Prospettiva questa alla lunga economicamente oltre che urbanisticamente perversa, causa la distrazione di risorse sottratte a investimenti produttivi ad alta innovazione e il prevalere di una strategia creditizia congegnale alla sola speculazione finanziaria.
Di conseguenza, anche limitandoci agli effetti di inattuazione che derivano dal rallentamento di un trend edilizio sin’ora senza freni e consapevolezza di ruolo, potremmo affermare che oggi l’architettura può vivere una stagione assai meno critica, se non felice, di quella recentemente passata, così ritrovando un ruolo responsabile ma soprattutto il senso vero del proprio pensare la città quale strumento di evoluzione civile, culturale e, non ultima, economica.
Senza voler avvallare alcuna retorica di reazione alla crisi, tra rievocazioni avanguardistiche, morali iconoclastiche dell’immaginario architettonico globalizzato e ideologie ecologiste di una ritirata generale dai modelli dello sviluppo, retoriche per altro legittime ma sempre più interne al gioco di azione e reazione dell’emotività mass-mediatica contemporanea, converrebbe ricondurre il campo di una dialettica ad alto tasso critico tra architettura e crisi all’interno del significato di città. Non in chiave ideologica, ma strumentale a contenere e ribaltare le contraddizioni degli effetti del suo dissolvimento, non solo nella dimensione metropolitana ma anche nelle realtà provinciali, con la consapevolezza di rilanciare il proprio principale compito di motore di processi aggregativi virtuosi, comunità aperte, luoghi di costruzione di un senso fenomenologico, secondo condizioni capaci di indurre e mettere in azione forme e figure rappresentative (paesaggi).
Tra i miti della contemporaneità si impone frequentemente quello che racconta di colui che nel garage dietro casa elabora invenzioni rivoluzionarie destinate al mercato mondiale del consumo di oggetti, tecnologie, comportamenti. In quel mito la città è indefinita, o probabilmente non esiste più. D’altra parte nell’insediamento dello sprawl la relazione umana vive prevalentemente attraverso la dimensione virtuale e spesso anonima del web e a volte non vive affatto, poiché ridotta alla sola ricezione del racconto televisivo. Stregoni ed apprendisti stregoni all’interno dei propri garages coltivano solipsisticamente le formule di un’intelligenza creativa che ovviamente prescinde da uno spazio sociale collettivo e dalle sue forme costruite. In tutt’altro contesto di cose, possiamo però ancora contemplare una spinta inventiva e costruttiva derivante da uno stato relazionale tra individui che si riconoscono in un luogo, quale espressione spaziale del “contratto” sociale che li accomuna. Il determinarsi di questo regime plurale di apporti necessita, tra gli altri aspetti di struttura relazionale, anche di quello dell’adiacenza fisico-spaziale, intesa come presupposto del dare forma al campo di ricezione del vivere e del produrre collettivo, nel significato esistenziale oltre che tecnico del termine. Come se, anche metaforicamente, dovessimo tornare a ragionare di fori urbani – immaginabili, scomponibili e ricomponibili all’infinito tra piazza, campus, tempio, mercato, laboratorio, scuola, fabbrica, abitazione e nuove espressioni tipologiche – intesi come strumenti ricettivi di una produttività ed inventiva sociale reciprocamente traducibile nel corpo della città, contemplante al tempo stesso ideologia e materia, individuo e pluralità, urbanità e villaggio.
Rispetto a questa prospettiva, la crisi di oggi, non meno di quella di ieri, sembra allora suggerire una strategicità interpretativa del progetto che vada oltre la sfera dell’oggetto architettonico per individuare tematiche ri-fondanti quale quella di una rinnovata struttura architettonica dello spazio urbano, richiamante per altro la ragione compositiva delle stesse singole architetture. In questa direzione, come già enunciato nell’edizione 2011 del Festival dell’Architettura, tra le diverse opzioni di ricerca appare promettente quella che definiamo della città compatta, non tanto come slogan compositivo in se, ma come strategia che verifichi una nuova economia dello spazio urbano alternativa al suo dissolvimento e funzionale al ritrovato ruolo dello strumento città all’interno di ogni specifica condizione contestuale.
Carlo Quintelli è Professore Ordinario in Composizione Architettonica e Urbana presso la Facoltà di Architettura di Parma