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DOI: 10.12838/issn.20390491/n26.2014/edit
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Editoriale
L’insegnamento intensivo del progetto
Era stato Ernesto Nathan Rogers a inventare i corsi estivi
del Ciam, racconta Giancarlo De Carlo[1]. Ma se il “bravo,
intelligente, generoso” Rogers aveva persuaso i gruppi Ciam a patrocinare corsi
estivi da svolgere in Italia, Giuseppe Samonà aveva “coptato tutto – Ciam,
corsi estivi e Ernesto Rogers-” e aveva portato l'iniziativa all'Istituto
Universitario di Architettura di Venezia “in un'avventura che per allora era
straordinaria, che nessun'altra Scuola di Architettura italiana neppure
immaginava potesse esistere”. De Carlo riconduce la grande importanza assunta
dalla scuola estiva voluta da Rogers essenzialmente a tre motivi. I giovani
architetti di varie nazionalità che partecipavano a tale esperienza portavano a
Venezia “nuove idee”, introducevano “nuovi modi di lavorare” nella scuola,
determinavano il sorgere di “nuovi rapporti tra docenti e studenti”. E aggiunge
una cosa: se oggi si potesse tornare a vedere i progetti elaborati in quelle occasioni,
essi probabilmente apparirebbero “ingenui”.
Il precipuo carattere dei corsi estivi svolti allo Iuav a metà degli anni '50 si coagula dunque per De Carlo in un intreccio di innovazione e ingenuità, senza peraltro che quest'ultima sminuisca portata e valore di quelle esperienze.
Se quell'intreccio ancora oggi connota svolgimenti ed esiti delle centinaia di summer school che si svolgono ogni anno nelle scuole di architettura di tutto il mondo, può essere di una qualche utilità porsi alcune domande in merito alla natura di tali esperienze, chiedersi quale rilievo esse assumano nel percorso formativo degli studenti, illustrare e confrontare alcune esperienze italiane e straniere. Il numero 26 di FAmagazine si propone dunque come una piccola indagine intorno all'utilità, ai limiti e alle forme dell'insegnamento intensivo del progetto di architettura.
È noto che i workshop di progettazione sono divenuti nel corso degli ultimi anni sempre più frequenti e hanno determinato un arricchimento dell'offerta formativa di molte scuole di architettura. Gli autori di questo numero sono così stati invitati a riflettere su alcuni aspetti che appaiono particolarmente importanti per avviare una comparazione tra le diverse modalità di insegnamento intensivo del progetto. Innanzi tutto la questione temporale: ogni seminario di solito si svolge in un periodo di tempo compreso tra le due e le quattro settimane. La brevità genera a sua volta condizioni che differenziano profondamente i workshop dai corsi di insegnamento semestrali o annuali, e tra queste si possono citare: la necessità di contrarre la fase istruttoria per dare più spazio possibile alla fase di elaborazione progettuale; la conseguente opportunità di una rapida individuazione delle migliori strategie volte a dare risposta al programma; l'accrescimento formativo che deriva dai momenti di confronto tra studenti e docenti di scuole diverse partecipanti all'esperienza.
Gli articoli che seguono offrono risposte ad alcune delle questioni sopra riportate e al contempo aprono nuove riflessioni in merito all'internazionalizzazione delle scuole e alla complementarietà tra corsi tradizionali e laboratori intensivi.
Nel suo articolo Alberto Ferlenga illustra l'esperienza dei workshop estivi che si svolgono presso l'Università Iuav di Venezia. Nati nel 2002 su iniziativa di Carlo Magnani, tali workshop denominati WAVe (acronimo di Workshop Architettura Venezia), giungono quest'anno alla loro tredicesima edizione. Tra le ragioni del successo di questa iniziativa didattica è da citare innanzi tutto la sua rilevante dimensione: si tratta infatti di 30 atelier cui partecipano circa 1800 studenti dei corsi di laurea triennale in Architettura. All'eccezionalità dimensionale si affiancano altre ragioni che spiegano l'entusiasmo con cui gli studenti aspettano tutti gli anni il mese di luglio in cui tradizionalmente allo Iuav si svolgono i workshop. Gli atelier sono infatti diretti da architetti provenienti da ogni parte del mondo, appartenenti a generazioni diverse e con formazioni anche molto lontane tra loro e questo costituisce per gli studenti della laurea triennale una grande occasione di confronto con approcci al progetto molto diversi da quelli cui sono abituati. Non solo, sono chiamati a dirigere gli atelier sia architetti di fama internazionale come Eduardo Souto de Moura, Alejandro Aravena, Max Dudler, Pancho Guedes, Yona Friedman, Antonio Monestiroli, sia giovani emergenti come TYIN tegnestue, Clinica Urbana, solo per fare alcuni esempi.
Nomi di grandi progettisti costellano d'altronde anche l'articolo che Adriana Sarro ha strutturato come la narrazione di un viaggio attraverso il tempo e lo spazio. Obiettivo del suo scritto è la rilettura critica di alcune esperienze di workshop svoltesi in Sicilia nell'arco di un trentennio: dal celeberrimo Simposio Internazionale di progettazione architettonica promosso nel 1984-85 a Messina da Culotta e Melluso (che vide la partecipazione tra gli altri di Battisti, Cannatà-Fernandes, Leone, Magnani, Venezia) fino alle esperienze degli ultimi anni spesso condotte nell'ambito dei seminari itineranti di progettazione Villard. Nell'insieme gli esiti di queste esperienze didattiche si configurano come una sorta di ricognizione progettuale attraverso temi della contemporaneità e luoghi dove storia e mito sembrano fondersi insieme.
Antonio Tejedor Cabrera riflette sul tema monografico proposto da questo numero proiettandolo sullo sfondo di questioni storiche e metodologiche che attengono all'insegnamento della progettazione architettonica come materia fondamentale nelle scuole di architettura e alla rilevanza del laboratorio come modello di insegnamento. La prassi ormai acquisita di workshop di progettazione e la diffusione di corsi estivi e programmi intensivi è così analizzata nelle sue interrelazioni con l'organizzazione della didattica delle scuole di architettura spagnole.
Nel mio articolo illustro l'esperienza di un Intensive Programme, svoltosi in tre edizioni tra il 2012 e il 2014, a Venezia, Parigi e Siviglia, con il fine di presentare i principali caratteri del metodo didattico adottato in questa iniziativa. L'assenza di figure di docenti leader nei gruppi di studenti ha fatto sì che la discussione sui progetti si svolgesse a più livelli incrociati tra loro. In tal modo il trasferimento del sapere, dei punti di vista e delle conoscenze è avvenuto sia sull’asse verticale (docente-allievo), sia sull’asse orizzontale (studente-studente, docente-docente), favorendo lo scambio di conoscenze, il confronto tra gli approcci e l'ibridazione tra i metodi di insegnamento usati nelle quattro scuole europee partecipanti al programma.
Nel loro articolo João Barros Matos e Rui Mendes sottolineano
come il workshop costituisca un ambito pedagogico che favorisce la convivenza
tra differenti modi di approcciarsi al progetto. In particolare, nel
riconoscimento della diversità delle metodologie adottate dai vari team di
docenti e studenti, essi colgono uno stimolo alla comunicazione, al confronto e
alla ricerca. L'articolo illustra e analizza i metodi didattici e gli esiti di
tre workshop: due svoltisi presso l'Università Autonoma di Lisbona, il terzo
svoltosi presso ENSA di Paris-Malaquais. Le differenze tra le esperienze
presentate rendono ancora più pregnante l'emergere nelle tre esperienze di un
analogo modello dinamico di apprendimento, di un metodo in continua evoluzione,
di una sperimentazione permanente intorno all'insegnamento del progetto di
architettura.
L'articolo di Gustavo Carabajal
chiude questo numero con una riflessione che correla il ruolo dei workshop ad
una questione di carattere più ampio e generale:
“come” intendere l’insegnamento del progetto. Modalità simultanee e sequenziali
dell'apprendimento, integrazione delle discipline e processualità costituiscono
i poli attraverso cui si articola il ragionamento. Sullo sfondo di tali
questioni i tre workshop descritti nell'articolo assumono il carattere di sfide
didattiche per frequentare l’argomento 'dell’utilità dell’apparentemente
inutile'. La costruzione della casa per un uccello, il progetto di un aquilone
o l'ideazione di un gioco sembrerebbero temi lontani dal progetto di
architettura; eppure conducono a comprendere che la casa per un uccello
non è una gabbia; che il progetto di un aquilone può porre questioni utili ad
un apprendimento empirico del fare; che ideare un gioco impone di riflettere
sull'importanza delle regole. Perché un gioco e le sue regole, scrive
Carabajal, sono in fondo la stessa cosa.
[1] G. De Carlo, I miei incontri ravvicinati con Giuseppe Samonà, ora in A. Mioni, E.C. Occhialini (a cura di), Giancarlo De Carlo, immagini e frammenti, Milano 1995, pp. 40-41.